Il ministro Barca, da tecnico montiano a mobilitato cognitivo a 5 stelle
“Incomprensibile che il Pd non appoggi Stefano Rodotà o non proponga Emma Bonino”: il tweet lanciato da Fabrizio Barca, ministro per la Coesione sociale del governo Monti, mentre era in corso la sesta e definitiva votazione per eleggere il capo dello stato, sarà pure stato intempestivo, ma ha messo le cose in chiaro. Perché quello che sta succedendo al brillante economista cinquantottenne, figlio di un importante dirigente del Pci come Luciano Barca, master a Cambridge ed ex Ciampi boy, voluto proprio da Giorgio Napolitano nella compagine del governo tecnico in carica dal novembre del 2011, assomiglia alla trama esagerata di certi romanzetti, in cui signori affidabili e compassati rivelano alla moglie, dopo quarant’anni di matrimonio, che vanno a vivere in Giamaica, dove apriranno un locale notturno con il loro boy friend.
“Incomprensibile che il Pd non appoggi Stefano Rodotà o non proponga Emma Bonino”: il tweet lanciato da Fabrizio Barca, ministro per la Coesione sociale del governo Monti, mentre era in corso la sesta e definitiva votazione per eleggere il capo dello stato, sarà pure stato intempestivo, ma ha messo le cose in chiaro. Perché quello che sta succedendo al brillante economista cinquantottenne, figlio di un importante dirigente del Pci come Luciano Barca, master a Cambridge ed ex Ciampi boy, voluto proprio da Giorgio Napolitano nella compagine del governo tecnico in carica dal novembre del 2011, assomiglia alla trama esagerata di certi romanzetti, in cui signori affidabili e compassati rivelano alla moglie, dopo quarant’anni di matrimonio, che vanno a vivere in Giamaica, dove apriranno un locale notturno con il loro boy friend.
Iperboli a parte, non passa giorno senza che Barca, fino a ieri considerato “più simile a un Morando che a un Fassina” (vedi l’articolo di Marianna Rizzini sul Foglio del 4 aprile scorso) non ce la metta tutta per dimostrare che ora il suo modello – archiviato Fassina – è direttamente l’immaginifico Nichi Vendola. Il tecnico Barca, infatti, che da qualche settimana si è iscritto al Pd, non solo ha annunciato di volersi occupare attivamente della rinascita del suo partito (come, lo spiega in un documento nel quale rilancia, con qualche capriola lessicale nuovista, la riedizione dell’intellettuale collettivo di gramsciano conio: idea non precisamente freschissima); ma si allinea senza rimpianti alla posizione di chi guarda con il sopracciglio alzato a Giorgio Napolitano e a quel suo inaudito, secondo mandato. All’Unità, che gli ha chiesto di spiegare in un’intervista il suo endorsement fuori tempo massimo pro Rodotà e Bonino (ma magari Barca dovrebbe anche spiegare come può valere anche per lui l’assurda intercambiabilità di questi due nomi: buona tutt’al più per una lista da primarie pazzotiche a 5 stelle), il (tuttora) ministro tecnico per la Coesione sociale ha detto che “Prodi, Rodotà e Bonino rappresentano le tre grandi culture del Pd, quella liberale, quella socialista e quella cristiano-sociale. Perché non si trovata un’intesa su uno di questi nomi?”.
Ora, a parte aver dimenticato o omesso il fatto che, nel Pd, ci sarebbe anche un’antica anima comunista – vuoi vedere che Napolitano è troppo comunista? I parricidi non finiscono mai – Barca afferma anche di trovare “politicamente straordinario che un movimento di opposizione come il 5 stelle si sia ritrovato su tre figure importantissime dell’area democratica”. Il cerchio è chiuso: il tecnico che, con Monti, ci doveva far restare in Europa, anche a costo di saggia austerità e di riforme dolorose, trova altamente desiderabile e “politicamente straordinario” l’avvento di un presidente grato ai grillini, noti per il loro robusto e coerente europeismo, che non avrebbero mancato di far pesare con il loro presidente. Rigore che, Barca ne è certo, avrebbe caratterizzato il mandato di Rodotà-Bonino o chi per loro (Prodi, gli va ricordato, i grillini non l’avrebbero mai votato). Ma la spericolatezza del nuovo Barca si apprezza soprattutto quando, nel suo documento, condanna la delega ai tecnocrati, di cui si macchiano, per motivi diversi ma con uguali disastri finali, sia il liberismo sia la socialdemocrazia. E’ invece alla “moltitudine di soggetti, privati e pubblici, ognuno dei quali possiede frammenti di ciò che è necessario sapere” che bisogna far ricorso. Contando sulla capacità di sintesi del partito, of course. Luogo privilegiato di confronto di quello che arriva dalla moltitudine (avrà parlato con Toni Negri?), in una trionfante “mobilitazione cognitiva” che tutti coinvolge e a tutti ritorna, sotto forma di quella che un tempo si sarebbe chiamata linea ma che, nell’accezione barchiana, è il prodotto dell’elaborazione di un “partito palestra”. Dove – è essenziale – dovrà vigere “l’incompatibilità assoluta fra funzionariato nel partito e candidatura nelle assemblee elettive o in organi esecutivi”.
Qui, forse, affonda la barca. Nel vecchio Pci i funzionari – la vera élite – erano più importanti degli eletti, ma in nessun partito della sinistra moderna vale più quella regola (e qualcosa ci dice che sarebbe complicato reintrodurla). Così come sa di anni Settanta mal digeriti anche la perla notata, nel documento, da Letizia Paolozzi (sul sito Donnealtri): “Barca nomina le donne in quanto ‘segmento sociale’ alla trentasettesima delle 49 pagine, e questa volta le donne stanno in stretta compagnia degli operai e degli anziani”. Ecco la vecchia vignetta di Altan, con la donna che dice: “Non mi ricordo più se veniamo prima dei disoccupati e dopo i giovani o tra il Mezzogiorno e i pensionati”. Almeno a questo, una risposta Barca la dà.
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