Cinguetto ergo sum

La psicosi da Twitter, il salotto dei salotti che intimidisce i politici

Piero Vietti

Nell’isteria che ha travolto politici e giornalisti, più attenti a quello che si dice su Twitter e sul Web che ad analizzare le conseguenze delle decisioni che venivano prese (e non prese) a Montecitorio, si assiste a un curioso paradosso: da una parte si parla dei social network come del medium più immediato per tastare il polso dell’opinione pubblica, dall’altra si criticano deputati e senatori che avrebbero “ascoltato la rete” facendosi condizionare nel voto del presidente della Repubblica. A seconda dei casi, naturalmente, Internet è una cloaca, un posto bellissimo e democratico o un mezzo che non incide. Come sempre, non è detto che la verità stia nel mezzo.

    Nell’isteria che ha travolto politici e giornalisti, più attenti a quello che si dice su Twitter e sul Web che ad analizzare le conseguenze delle decisioni che venivano prese (e non prese) a Montecitorio, si assiste a un curioso paradosso: da una parte si parla dei social network come del medium più immediato per tastare il polso dell’opinione pubblica, dall’altra si criticano deputati e senatori che avrebbero “ascoltato la rete” facendosi condizionare nel voto del presidente della Repubblica. A seconda dei casi, naturalmente, Internet è una cloaca, un posto bellissimo e democratico o un mezzo che non incide. Come sempre, non è detto che la verità stia nel mezzo. L’impressione è che Internet abbia reso meno liberi politici e giornalisti, sempre più ricattati da quello che dice la rete, intesa irrealisticamente come “la voce dell’opinione pubblica”. Anche questo però è un paradosso: numeri e dati degli utenti attivi su social network e blog in Italia fanno pensare al “popolo del Web” come a una riedizione del “popolo dei fax” degli anni Ottanta o poco più. A tutto ciò si aggiunge l’inerzia, se non il dolo, di chi fa politica e informazione. Fa comodo a molti trattare la rete e i social per quello che non sono, appellarsi a essi come al luogo in cui i cittadini possono dire liberamente la loro, sia per cercare e trovare giustificazioni ai propri comportamenti, sia per attaccarli come sentina dei mali peggiori della società. In questo inseguimento demenziale al grillismo, il politico potrà sempre appellarsi al “me lo ha chiesto la rete”, e il giornalista usare lo stesso trucco per pressare il politico che va avanti per la sua strada.

    Ieri sul suo blog Luca Sofri citava un articolo di Thomas Friedman sul New York Times di un paio di anni fa che inquadrava bene il problema: “Nell’èra di Facebook e Twitter le persone sono più responsabilizzate e le idee arrivano spesso dal basso verso l’alto, e non solo viceversa. Questa è una buona cosa, in teoria. Ma alla fine della giornata c’è bisogno di qualcuno che fonda queste idee in una visione per andare avanti”. Se si mettono a dare retta a Twitter i leader non riescono più a fare i leader. Ma se non danno retta a Twitter sono accusati di essere scollegati dalla gente. Questo genera un cortocircuito difficile da interrompere, per cui il leader e l’opinionista di turno sono costretti da quello che dicono o, peggio, potrebbero dire i social network a tarare i propri interventi, a moderarli e modificarli, insomma a essere meno liberi. Senza scomodare primavere arabe o rivoluzioni verdi, oggi Twitter rappresenta un salotto dei salotti, un posto molto fico, spesso utile e divertente, in cui ogni tanto passano degli scalmanati a urlare la loro. La “base” e l’opinione pubblica sono un’altra cosa.

    • Piero Vietti
    • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.