Inseguendo il ranking
Posti in piedi in Europa
Bayern Monaco e Barcellona taglieranno il nastro delle semifinali Champions numero quattordici degli anni Duemila. Sarà l’ottava volta per i catalani con tre coppe vinte e la quinta per i tedeschi, con un solo trofeo in bacheca. La griglia delle Final Four (potrebbe essere un’idea per Platini) dal 2000 a oggi è la fotografia di un calcio europeo che ha ridisegnato potere e leadership.
Bayern Monaco e Barcellona taglieranno il nastro delle semifinali Champions numero quattordici degli anni Duemila. Sarà l’ottava volta per i catalani con tre coppe vinte e la quinta per i tedeschi, con un solo trofeo in bacheca.
La griglia delle Final Four (potrebbe essere un’idea per Platini) dal 2000 a oggi è la fotografia di un calcio europeo che ha ridisegnato potere e leadership. Basti pensare che nella stagione 2002-03 (l’ultima disponibile sul sito uefa.com) l’Italia era seconda nel ranking, dietro la Spagna e davanti a Inghilterra e Germania (distante anni luce): stava iniziando a perdere terreno ma teneva grazie al dominio degli anni Novanta, nei quali aveva vinto 7 Europa League (2 finali perse e ben 4 tutte italiane), 3 coppe delle Coppe (una finale persa) e 3 Champions League (5 finali perse).
Nei Duemila, chiusa la Coppa delle Coppe, le squadre italiane non sono mai andate in finale di Europa League, quella che solo un quinquennio prima era di loro proprietà. In Champions tre vittorie e quattro finali, una tricolore. Sicuramente hanno pesato lo scarso impegno e la fortuna avversa nella manifestazione meno importante e sin troppo snobbata, alla quale si preferisce spesso una qualificazione Champions.
Le ultime quattordici semifinali della coppa dalle grandi orecchie sono lo specchio dell’attuale ranking Uefa: Spagna, 5 squadre per un totale di 18 partecipazioni (Barcellona 8); Inghilterra, 5 club per 14 presenze (Chelsea 6); Germania 3 per 7 (Bayern Monaco 5); Italia 3 per 7 (Milan 4). La distanza tra italiani e tedeschi si spiega poi con le migliori performance di quest’ultimi in Europa League e con il Bayern Monaco, secondo nel ranking per club, con l’Inter solo settima e in calo, Milan quattordicesimo, Juventus ventesima.
Il modello italiano, se di tale si può parlare, è durato fino al momento in cui i club nostrani hanno avuto la forza economica d’ingaggiare i giocatori più forti, insieme a una scuola calcistica di primo piano (lo dimostrano ancora i successi dei nostri tecnici all’estero). Anche se club e Nazionale hanno seguito percorsi sempre diversi, l’Italia vince quando i primi stentano. Il management si è cullato sulle glorie degli anni Novanta e così il football italico è rimasto fermo a stadi, merchandising, calendari e ripartizione dei diritti televisivi medievali.
Prima ci ha superato la Spagna, poi l’Inghilterra: due modelli completamente diversi. Barcellona e Real Madrid rappresentano due eccezioni di un movimento schiacciato proprio da questa diarchia (soprattutto economica) che, però, con Valencia, Siviglia e Atletico Madrid ha conquistato 5 Europa League, portando in finale altre tre squadre. Non male visti i debiti che molti club hanno con le banche, ma questo vuol dire che si può fare calcio anche senza top player, magari con un progetto di gioco.
L’Inghilterra ha perso il primato in quest’ultima stagione, con le proprie squadre inchiodate agli ottavi di finale. Il modello anglosassone (seppur con debiti, qualche rigurgito di violenza e rigetto per governance forestiere) è, da sempre, un mix di tradizione e innovazione che ha trasformato gli stadi di proprietà in teatri per lo spettacolo calcio, appetiti da investitori stranieri e dalle televisioni di tutto il mondo; i top player sono una diretta conseguenza di questi investimenti, sottolineando come i diritti televisivi non rappresentano la prima voce delle entrate dei club, che guadagnano molto di più grazie agli impianti e al merchandising.
Nel 2010-11 l’Italia ha perso anche il terzo posto (quello che ne concede quattro in Champions) a favore della Germania che era scesa al quinto prima di risalire la china. Stadi di proprietà, cura dei vivai, investimenti stranieri, i primi top player (ora anche l’arrivo di Guardiola), ma soprattutto aver anticipato di anni il fair play finanziario con regole economiche precise e severe: questa la formula segreta di un calcio che guarda al futuro con fiducia e consapevolezza. Se n’è accorta anche Sky, costretta a ricomprare i diritti della Bundesliga. Che poi sia un belvedere, è tutto da dimostrare: un conto è la combattività un altro la tecnica. Ma tant’è, adesso è quello tedesco il modello che va di moda e guai chi dice il contrario. Quello francese, per esempio, - attenzione al budget, centri di formazione federali - ha funzionato per la Nazionale ma non per i club e adesso i qatarioti hanno fatto saltare il tappo.
E le squadre dell’Est? Quelle ricche hanno vinto l’Europa League (3) ma negli anni Duemila solo CSKA Mosca e Shakhtar Donetsk hanno raggiunto i quarti di finale di Champions. Espressioni singole di un movimento ancora lontano dagli standard europei: scarso merchandising, diritti televisivi al lumicino, impianti vecchi a parte qualche eccezione. In una parola: rimandati. Che poi Gazprom sia diventata sponsor ufficiale della Champions League e che la Russia si sia aggiudicata i Mondiali del 2018 è un’altra faccia della stessa medaglia.
Promemoria per i presidenti italiani: stadi di proprietà, merchandising, vivai, progetti di gioco che durino più di sei mesi, ecc.: l’Italia forse riuscirà a rimettersi in piedi prima di quanto riesca a fare il suo calcio.
Il Foglio sportivo - in corpore sano