Richie Havens, eroe di Woodstock per caso

Stefano Pistolini

L'ombra lunga dell'anagrafe si allunga sulla generazione dei baby boomers, sui suoi santuari e sugli eroi che v'abitarono. Già, perché a Richie Havens, scomparso lunedì all'età di 72 anni, calza più la definizione di “eroe” che quella di artista e musicista tout court (che è ciò che fu, lungo cinquant'anni di carriera, sempre con preciso centro di gravitazione nel village newyorchese, lui nativo di Bedford Stuyvesant e morto dall'altra parte del ponte, a Jersey City). Ma Havens resta indelebilmente e semplicisticamente l'eroe di Woodstock, quello che da solo, alle 5 del pomeriggio dello storico venerdì agostano del '69, aprì le danze del festival che aveva voluto essere troppo grande per funzionare.

    L’ombra lunga dell’anagrafe si allunga sulla generazione dei baby boomers, sui suoi santuari e sugli eroi che v’abitarono. Già, perché a Richie Havens, scomparso lunedì all’età di 72 anni, calza più la definizione di “eroe” che quella di artista e musicista tout court (che è ciò che fu, lungo cinquant'anni di carriera, sempre con preciso centro di gravitazione nel village newyorchese, lui nativo di Bedford Stuyvesant e morto dall’altra parte del ponte, a Jersey City). Ma Havens resta indelebilmente e semplicisticamente l’eroe di Woodstock, quello che da solo, alle 5 del pomeriggio dello storico venerdì agostano del ’69, aprì le danze del festival che aveva voluto essere troppo grande per funzionare.

    La scaletta prevedeva fosse terzo in scaletta, ma i primi due erano imbottigliati nel traffico che provava disperatamente ad arrivare alla fattoria di Max Yasgur e così convinsero lui a rompere il ghiaccio, davanti alla platea che prendeva dimensioni sempre più incredibili, soprattutto, per fortuna, immortalato dalle cineprese di Mike Wadleigh e del fido assistente, il ragazzo Martin Scorsese. Lui poi, negli anni, mitizzò a sua volta quel set, raccontando che fosse durato due ore, che avesse tenuto in pugno la moltitudine col solo fascino della sua voce, che avesse infine improvvisato quel canto, “Freedom”, che sarebbe diventato il suo marchio, la sua condanna e il suo mantra.

    Non tutto era proprio vero, ma Richie Havens, all’epoca perfettamente sconosciuto ai ragazzi italiani, divenne un nostrano simbolo istantaneo: il potere della musica, la sua sacra condivisione, s’incarnavano a meraviglia nell’uomo nero dall’aria potente e misteriosa. Tanto bastò a produrre, di lì in avanti, una carriera, che magari lasciò da parte le voglie poetiche e controculturali degli inizi, per esporsi prima di tutto per il suo valore estetico: in fondo si andava a sentire Richie Havens o s’ascoltava un suo nuovo disco, sempre partendo e tornando al pomeriggio di cui aveva saputo essere simbolo, anima e corpo. Ora che la sua figura, come la stazzonata riproposizione di quell’happening (appena ridotto, poveretto, a far pubblicità a una banca italiana), sprofondano nel passato, nel commiato per questo lutto e nel definitivo distacco dal Novecento – appiccicoso come una carta moschicida – verranno poco alla volta a galla i meriti artistici, la poetica e la produzione multiforme di un musicista, che diceva di sentire amici, intimi come fratelli, sia i suoni del sax di Charlie Parker che i singulti programmatici nelle voci dei Public Enemy.