Oltre la fabbrica della lagna / 1

L'asse Napolitano-Bankitalia contro l'eterno refrain consociativo

Stefano Cingolani

Nel suo accorato discorso a Montecitorio, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha chiesto “nuovi comportamenti collettivi, da parte di forze – in primo luogo nel mondo del lavoro e dell’impresa – che ‘appaiono bloccate, impaurite, arroccate in difesa e a disagio di fronte all’innovazione che è invece il motore dello sviluppo’”. Pochi hanno notato, eppure rappresenta una indicazione chiave per la politica economico-sociale del prossimo governo. Anche perchè il testo scritto, diffuso dal Quirinale, mostra che si tratta di una citazione esplicita del documento lasciato dai saggi che il presidente ha insediato all’inizio del mese.

    Nel suo accorato discorso a Montecitorio, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha chiesto “nuovi comportamenti collettivi, da parte di forze – in primo luogo nel mondo del lavoro e dell’impresa – che ‘appaiono bloccate, impaurite, arroccate in difesa e a disagio di fronte all’innovazione che è invece il motore dello sviluppo’”. Pochi hanno notato, eppure rappresenta una indicazione chiave per la politica economico-sociale del prossimo governo. Anche perchè il testo scritto, diffuso dal Quirinale, mostra che si tratta di una citazione esplicita del documento lasciato dai saggi che il presidente ha insediato all’inizio del mese. Contro la tendenza alla lamentela, contro i piagnucolosi richiami ai drammi sociali, per non parlare del cupio dissolvi declinista, il presidente della Repubblica ha invitato a “un’apertura nuova, un nuovo slancio nella società; occorre un colpo di reni”, ha esclamato.
    L’incapacità delle imprese e dei sindacati a cogliere le chance che la stessa crisi sta creando, è anche un refrain della Banca d’Italia. Lo ha detto il direttore generale, Fabrizio Saccomanni, l’altro giorno a Washington, invitando a fare autocritica gli imprenditori che non hanno impiegato abbastanza risorse o lo hanno fatto in modo sbagliato; lo ha ripetuto più volte il governatore Ignazio Visco, sottolineando che la debolezza degli investimenti produttivi, soprattutto nella ricerca, è una delle componenti più preoccupanti della crisi; emerge infine dalle analisi che l’ufficio studi ha condotto sul sistema industriale italiano, sotto la guida di Salvatore Rossi, oggi numero tre di Palazzo Koch e uno dei saggi chiamati da Napolitano. E senza dubbio si intravede la sua mano in alcuni punti chiave.
    “La malattia dell’economia italiana ha una causa principale: l’inefficienza, ovvero la produttività bassa e stagnante – scrive il documento economico – che colpisce sia le amministrazioni pubbliche, sia diversi segmenti dei settori privati che producono servizi e beni manufatti. Le due rivoluzioni che hanno cambiato le economie del mondo nell’ultimo quarto di secolo – l’avvento del paradigma tecnologico informatico e la globalizzazione dei mercati – non sono state colte dalla nostra economia con la prontezza e l’intensità di tanti altri paesi avanzati”.

    Le frasi più liberiste dei saggi del Quirinale
    Sentenza durissima. A una Confindustria che continua a chiedere sostegni pubblici, viene detto chiaramente: medico cura te stesso. Leggiamo un altro passaggio: “Il mondo sta cambiando rapidamente e ci offre opportunità, non solo problemi. Il riorientamento del commercio internazionale verso le economie emergenti e i paesi in via di più rapido sviluppo, spalanca enormi mercati a chi sia capace di offrire beni e servizi a elevato valore aggiunto. Ci sono già numerose imprese italiane che presidiano o si inoltrano con successo in quei mercati. Dovrebbero essere di più”.
    E ancora: “La produzione mondiale dei beni di consumo più avanzati, ma anche degli stessi macchinari industriali, si sta riorganizzando in filiere che coinvolgono molte imprese di tanti paesi, chiamate a fornire input diversi. Vediamo numerose imprese italiane impegnate in queste catene globali del valore. Dovrebbero essere di più. Vi sono spazi per accrescere il numero di imprese, per ingrandire molte di quelle esistenti, poggiando sui talenti scientifici e imprenditoriali diffusi nel nostro paese. Moltissime aziende presentano risultati eccellenti. Dovrebbero essere di più”.
    Una vera e propria reprimenda, anche nello stile retorico del documento. Non esita a denunciare che “ancora troppe imprese sopravvivono solo con l’evasione tributaria e contributiva, praticando condizioni di lavoro illegali e basate sullo sfruttamento della forza lavoro, anche grazie a legami opachi con le pubbliche amministrazioni. Esse frenano l’aumento dell’efficienza del sistema economico, occupano indebitamente uno spazio di mercato, alimentano un diffuso senso di illegalità e di corruzione. Il loro numero deve essere ridotto drasticamente”.

    Insomma, si tratta di una vasta ricomposizione della struttura industriale italiana. Con tre segni più e uno meno (l’impresa al margine tra protezione e illegalità). Napolitano ha richiamato altri aspetti, ma la verà novità è proprio in questo asse con la Banca d’Italia che sembra saltare a piè pari le liturgie neocorporative per andare al nocciolo dei comportamenti e delle responsabilità. Un viatico da far tremare i polsi al prossimo ministro dell’Economia, poltrona nella quale il Quirinale, non a caso, vedrebbe volentieri un alto esponente della Banca centrale, lo stesso Rossi o Saccomanni.