Niente scuse

Giulia Pompili

Alla fine Tomislav Nikolić, presidente serbo, si è scusato ufficialmente “con il popolo serbo” per il massacro di Srebrenica del luglio 1995, quando le truppe serbo-bosniache guidate dal generale Ratko Mladić – ora sotto processo al Tribunale penale internazionale per l'ex-Jugoslavia – uccisero oltre ottomila musulmani bosniaci. Nikolić, che nel giugno del 2012 aveva affermato  che Srebrenica non era un “genocidio” ma un “grave crimine di guerra”, ha detto ieri alla tv bosniaca Bhrt di “inginocchiarsi” di fronte al popolo serbo per quel massacro. Quello delle scuse ufficiali, le scuse di stato, è un tema controverso.

    Alla fine Tomislav Nikolić, presidente serbo, si è scusato ufficialmente “con il popolo serbo” per il massacro di Srebrenica del luglio 1995, quando le truppe serbo-bosniache guidate dal generale Ratko Mladić – ora sotto processo al Tribunale penale internazionale per l'ex-Jugoslavia – uccisero oltre ottomila musulmani bosniaci. Nikolić, che nel giugno del 2012 aveva affermato  che Srebrenica non era un “genocidio” ma un “grave crimine di guerra”, ha detto ieri alla tv bosniaca Bhrt di “inginocchiarsi” di fronte al popolo serbo per quel massacro. Quello delle scuse ufficiali, le scuse di stato, è un tema controverso. Da tempo Seul chiede a Tokyo le scuse ufficiali per lo sfruttamento delle cosiddette “donne di conforto” durante l’occupazione nella penisola coreana, scuse che non sono mai arrivate. Anzi, negli ultimi giorni i rapporti tra i due paesi vicini si sono raffreddati ancora di più a causa della visita di alcuni membri del governo di Shinzo Abe al tempio Yasukuni, eretto per onorare i 2 milioni e mezzo di giapponesi morti durante la Seconda guerra mondiale e la guerra sino-giapponese, tra i quali ci sarebbero anche 14 criminali di guerra. “Nel corso della storia, i governi si sono scusati per reati gravi o insignificanti”, dice al Foglio Jennifer Lind, docente di Relazioni internazionali alla Dartmouth College e autrice del libro “Sorry States: Apologies in International Politics” (Cornell Studies). “Per molto tempo i governi hanno chiesto scusa soltanto per lievi violazioni di protocollo – per esempio i danni alla proprietà di un altro paese, per un insulto a un diplomatico, e così via. Più di recente, diciamo negli ultimi cinquant’anni, i leader hanno iniziato a fare dichiarazioni condannando e scusandosi per alcune violazioni di diritti umani commesse in passato dal paese che rappresentano. Le scuse più famose sono forse quelle della Germania, che ha chiesto perdono in modo formale per l'Olocausto e i crimini commessi durante la Seconda guerra mondiale. L'immagine del cancelliere tedesco Willy Brandt in ginocchio al ghetto di Varsavia è diventata il simbolo di come i paesi possano cercare l’espiazione per le violenze passate nei confronti di altri paesi”.

    Secondo Lind, come per i risarcimenti che la Germania ha pagato per le vittime dei campi di concentramento durante la Seconda guerra mondiale, così per il Giappone non c’è nessun obbligo giuridico che gli impone il pagamento di certe somme risarcitorie per il periodo di occupazione della Corea: “E’ semplicemente l’opinione pubblica a chiederlo, è un gesto con un significato morale”. Secondo la prassi internazionale, il riconoscimento dei crimini commessi nel passato è essenziale per promuovere la fiducia e la riconciliazione dopo una guerra, ma molti paesi sono stati in grado di riavvicinarsi ai paesi vicini senza scusarsi e senza pagare risarcimenti. Per la docente americana ci sono tre strade: “I governi (e la società stessa) ricordano il passato in modi diversi. Possono negarlo o glorificarlo. La glorificazione di alcuni crimini è angosciante per le vittime, che possono pensare che il paese che li ha commessi non ha ripudiato un certo tipo di azioni, restando così un pericolo”. Un governo, però, può anche riconoscere la violenza pregressa commessa e ripudiarla, “considerandola allo stesso tempo necessaria per le circostanze di allora”. Oppure, un leader può scegliere di pronunciare delle scuse per le violenze del passato, magari accompagnandole da risarcimenti o altri atti formali.

    “La riconciliazione tra due stati dopo la guerra richiede necessariamente il riconoscimento delle violenze commesse. Un esempio in tal senso è rappresentato dalla Germania ovest, che non avrebbe mai potuto integrarsi in Europa se avesse sostenuto, nel Dopoguerra, di essere stata una vittima, o se avesse glorificato la figura di Hitler. Il riconoscimento da parte della Germania della violenza esercitata nei confronti degli stati limitrofi è stata essenziale  per la riconciliazione”. Secondo alcuni studi, però,  il solo riconoscimento di un crimine non è sufficiente: “Alcuni credono che siano necessarie le scuse ufficiali e il pagamento dei risarcimenti per una riconciliazione reale”, spiega Jennifer Lind. “Storicamente, però, ciò non è vero. La Germania dell’Ovest si è riconciliata con successo con la Francia. Gli Stati Uniti e il Giappone hanno raggiunto una rappacificazione senza presentare alcun tipo di scuse – anche in questo caso era fondamentale che entrambi i paesi riconoscessero entrambi le violenze subite e commesse”. Insomma, non sempre le scuse sono necessarie. “Anzi, spesso portano molti rischi. Scusarsi con le vittime straniere è solitamente molto controverso a livello domestico – è come rinnegare le azioni dei propri padri, dei nonni, dei fratelli. A volte le scuse hanno effetti economici diretti – per esempio quando le scuse comportano il riconoscimento di un crimine di guerra e quindi mettono in dubbio la possibilità di un cittadino di ricevere una pensione. E’ per questo che la popolazione è sempre molto coinvolta quando si tratta di scuse di stato. Basti guardare agli Stati Uniti, all’Austria, alla Gran Bretagna e molti altri paesi, le scuse spesso producono un contraccolpo nella popolazione. E non necessariamente tale reazione conduce a una riconciliazione internazionale”.
    Lo studio della Lind porta quindi a un suggerimento: “I paesi devono dire la verità sul loro passato, perché mentendo si danneggiano i rapporti internazionali. Le scusenon necessariamente migliorano le relazioni internazionali. Hanno avuto successo nel caso della Germania, ma c’erano condizioni diverse rispetto al Giappone di oggi, per esempio, che ha tentato spesso di scusarsi senza successo”. 

    • Giulia Pompili
    • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.