Van Persie, il franco tiratore

Piero Vietti

Per parlare di Robin Van Persie bisogna partire dal suo penultimo gol. E’ il tredicesimo minuto del primo tempo di Manchester United-Aston Villa, e i padroni di casa stanno già vincendo per 1-0. E’ il 22 aprile 2013, e con questi tre punti la squadra allenata da Alex Ferguson (il Manchester) diventerà campione d’Inghilterra per la ventesima volta con quattro giornate di anticipo, lasciando dietro di sé il vuoto e gli odiati cugini ricchi del Manchester City, la squadra di Roberto Mancini favorita per la vittoria finale. Dopo appena tre minuti Van Persie ha già messo in rete un passaggio di Ryan Giggs, segnando il suo gol numero 22 in campionato.

    Per parlare di Robin Van Persie bisogna partire dal suo penultimo gol. E’ il tredicesimo minuto del primo tempo di Manchester United-Aston Villa, e i padroni di casa stanno già vincendo per 1-0. E’ il 22 aprile 2013, e con questi tre punti la squadra allenata da Alex Ferguson (il Manchester) diventerà campione d’Inghilterra per la ventesima volta con quattro giornate di anticipo, lasciando dietro di sé il vuoto e gli odiati cugini ricchi del Manchester City, la squadra di Roberto Mancini favorita per la vittoria finale. Dopo appena tre minuti Van Persie ha già messo in rete un passaggio di Ryan Giggs, segnando il suo gol numero 22 in campionato. Al tredicesimo minuto Wayne Rooney prende palla pochi metri prima della metà campo, alza la testa e lo vede. Van Persie capisce tutto, e aggira il difensore che prova a marcarlo, fa un passo verso il centrocampo e poi scatta verso la porta avversaria. Mezzo secondo prima Rooney ha fatto partire un lancio di quaranta metri destinato a toccare terra al limite dell’area dell’Aston Villa. Van Persie ce l’ha alle spalle, e mentre scende lo guarda una sola volta. Quel pallone però non toccherà mai terra. Un giocatore normale lo farebbe rimbalzare, probabilmente perdendolo. Un giocatore tecnicamente bravo cercherebbe di stopparlo, entrerebbe in area e proverebbe a tirare in porta. Un giocatore senza il senso del ridicolo cercherebbe di calciarlo al volo, svirgolandolo o buttandolo in curva. Robin Van Persie non è un giocatore normale. Il destino gli ha regalato un sinistro come nessun altro, una buona dose di sfacciataggine e un controllo del pallone fuori dal normale. Robin Van Persie sa già che cosa fare, e l’urlo di Old Trafford – lo stadio del Manchester United – gli fa sentire di potere qualsiasi cosa. Quando il pallone di Rooney è a un metro da terra il sinistro di Van Persie lo colpisce al volo, di collo. Brad Guzan, il portiere dell’Aston Villa, non prova nemmeno a pararla. La palla, potentissima, finisce in rete alla sua sinistra, attraversando in diagonale tutta l’area, senza toccare mai il prato. Venti minuti dopo è ancora Ryan Giggs a mandarlo in gol. Tripletta – hat trick – e Manchester United campione. Al fischio finale Van Persie cammina verso Ferguson, il vecchio allenatore dello United che ha vinto tutto è in mezzo al campo sorridente. “Thank you”, grazie. Le telecamere hanno seguito l’attaccante olandese, e ci fanno vedere questo breve scambio di sguardi. Ferguson gli dà una pacca sulla spalla, poi corre ad abbracciare altri giocatori. Van Persie ha quasi trent’anni. L’anno scorso è stato eletto miglior giocatore della Premier League, il campionato inglese, dove gioca da quando ne ha ventuno. E’ titolare inamovibile della sua Nazionale, ed è considerato uno dei più forti attaccanti in attività. Eppure è la prima volta che vince il titolo di campione d’Inghilterra. Ci voleva il Manchester United, ci voleva Sir Alex Ferguson. “Mai nessun giocatore che ho allenato è stato così decisivo da subito”, ha detto l’allenatore dopo la partita con l’Aston Villa. Poi la consacrazione: “Ha fatto il gol del secolo. Mi ricorda Eric Cantona”. Che per Manchester è come Gesù per il Vaticano.

     

    Ma per un’intera tifoseria ormai adorante ai suoi piedi, ce n’è un’altra che non lo ha mai odiato così tanto. Nel calcio l’amore e il disprezzo giocano sulla stessa fascia, sovrapponendosi come un’ala e un terzino. Quando Van Persie arrivò in Inghilterra dall’Olanda, nel 2004, era poco più di una promessa. Con la maglia del Feyenoord aveva vinto la Coppa Uefa due anni prima, ma si portava dietro la fama di bullo e un rapporto non troppo idilliaco con compagni e allenatore. Il coach dell’Arsenal, il francese Arsène Wenger, ne intuì il potenziale e lo volle a Londra per farlo crescere all’ombra di due leggende dei Gunners, Thierry Henry e Dennis Bergkamp. Firmando il contratto Van Persie giurò che questo era un sogno d’infanzia che si avverava: cresciuto in un quartiere operaio di Rotterdam, aveva sempre tifato per i colori dell’Arsenal, disse. Quando nell’agosto del 2012, da capitano dell’Arsenal, si trasferì al Manchester United, usò parole simili: “Per venire qui ho ascoltato il bambino dentro di me, e quel bambino gridava Manchester United”. Cercare una coerenza calcistica nella vita di Robin Van Persie sarebbe esercizio pigro tanto quanto lamentarsi della mancanza di bandiere nel calcio moderno. Neppure i tifosi possono sottrarsi a questa legge: per ogni fan dell’Arsenal che gli augura di rompersi il ginocchio, ce n’è uno del Manchester United pronto a giurargli amore eterno. Lo storico striscione esposto all’Emirates stadium dai suoi ex tifosi – “Non ci serve Batman, noi abbiamo Robin” – è stato arrotolato e messo a impolverarsi in qualche cantina, o più probabilmente bruciato assieme alle magliette con il numero 10 sulle spalle che tanti ex innamorati del suo sinistro a Londra hanno dato alle fiamme nell’agosto di un anno fa, quando la notizia della sua partenza per Manchester diventò ufficiale. Nell’aprile di quell’anno, intervistato dal Telegraph, il padre di Van Persie garantiva: “Credo che resterà, è un vero Gunner”. Non molto tempo prima, l’attaccante olandese aveva detto di non riuscire nemmeno a immaginarsi con la maglia di un’altra squadra inglese.

    Massimo Marianella, storica voce di Sky delle partite della Premier League, non ha mai nascosto una sua simpatia per l’Arsenal e conosce bene la storia di Van Persie: “Ha avuto sempre ragione lui – dice – Quando ha lasciato l’Olanda per Londra, quando ha cominciato a giocare da prima punta lasciando il suo ruolo di esterno sinistro, e quando ha lasciato i Gunners per i Red Devils di Manchester”. Spento il fuoco con cui avevano bruciato le magliette con il suo nome, molti tifosi dell’Arsenal erano pronti a giurare di avere mollato ai rivali dello United un pacco: la carriera di Robin era costellata di infortuni, e alla soglia dei trent’anni pochi potevano immaginare che sarebbe stato così decisivo e continuo con un’altra maglia. Van Persie lasciava una squadra in cui era il re indiscusso – soprattutto dopo le partenze di compagni altrettanto illustri come Adebayor, Kolo Touré e Fàbregas – per approdare in una società dove il trono era già occupato da gente come Wayne Rooney e Ryan Giggs. Ha avuto ragione lui.

    Che avrebbe scritto un pezzo di storia di Manchester si è capito subito: gol decisivo al Fulham a fine agosto, tripletta al Southampton una settimana dopo. Le reti arrivano con una facilità impressionante, per lui un fenomeno come Rooney comincia a giocare più arretrato e a sfornare assist a ripetizione. Il 9 dicembre 2012 entra definitivamente nel cuore dei suoi nuovi tifosi. Quel giorno si gioca il derby di Manchester, in casa del City di Roberto Mancini. Dopo decenni di schiacciante supremazia cittadina, nella stagione precedente lo United si era dovuto inchinare ai cugini, vincitori della Premier League grazie al maggior numero di reti segnate in campionato, sei delle quali proprio nel derby a Old Trafford, un’umiliazione che la squadra di Ferguson non ha mai patito. Il 9 dicembre lo United è davanti al City per tre punti: se la squadra di Mancini batte i rivali li aggancia in cima alla classifica. Dopo mezz’ora Rooney ha già segnato due gol, e tutto sembra facile. Il City però rimonta, e al 90’ il risultato è di 2-2. All’ultimo minuto di recupero l’arbitro concede allo United un calcio di punizione dal limite destro dell’area. Non c’è dubbio, quella è la zolla di Van Persie. Il sinistro dell’olandese viene sfiorato dal piede di un difensore in barriera, e la palla diventa imprendibile per il portiere. Gol. City 2, United 3. Lo spicchio dei tifosi ospiti esplode, l’arbitro fischia la fine della partita, la squadra di Ferguson saluta e stacca i rivali. Mancini dirà che “fa male perdere un derby così”, e non si riprenderà più. Poiché il calcio è ironico, bisogna raccontare che nell’estate Van Persie è stato a un passo dal firmare per il City (e non con la Juventus, come i giornali italiani avevano scritto), ma l’intervento di Ferguson in extremis aveva fatto cambiare idea all’olandese (una cosa simile a quanto successo a Ryan Giggs ventisei anni fa, quando il gallese giocava nelle giovanili del City e venne soffiato proprio da Ferguson prima di firmare un contratto da professionista). Si dice che nel calcio non ci sia mai la controprova del fatto che un giocatore da solo possa vincere partite e trofei. Eppure la differenza tra le due squadre di Manchester l’ha fatta Van Persie. Mancini lo sapeva, per questo lo aveva chiesto alla sua dirigenza. Ma a Ferguson non si può dire di no.

     

    L’infanzia di Van Persie sembra arrivare da un manuale di conversazione sul calciatore che si è fatto le ossa giocando per strada, aneddoto imprescindibile nella biografia di qualunque campione. Eppure le cose sono andate veramente così: nato il 6 agosto del 1983 in un quartiere operaio di Rotterdam, Robin passa i primi anni in un ambiente che definire multiculturale è poco. Lo racconterà lui stesso in un’intervista a News of the world nel 2009: “Ero l’unico olandese bianco del gruppo di amici, gli altri arrivavano da Africa, Suriname, Marocco e Turchia”. I suoi genitori sono due artisti – il padre Bob è un pittore divenuto abbastanza famoso in Olanda – e a differenza di tante famiglie che vedono nella riuscita sportiva del figlio una possibilità di riscatto sociale, lo lasciano libero di seguire le sue passioni. In particolare suo padre, con cui andrà a vivere dopo il divorzio dei suoi, all’età di cinque anni. Capito di non saperci fare nel disegno, Robin comincia a giocare a calcio con gli amici di zona. Giorni interi passati per strada con il pallone. A cinque anni e mezzo si presenta a un provino per entrare nei pulcini del SBV Excelsior, la squadra del suo quartiere. Con meno di sei anni i bambini non sono ammessi, ma lui chiede di potere provare lo stesso. “Gli feci un provino – racconta al Telegraph il suo primo allenatore – e lui stoppò alla perfezione un pallone che io gli passai da più di dieci metri. ‘Vieni domani, si comincia’, gli dissi”. Van Persie è un bambino con delle capacità fuori dalla norma: sa calciare di destro, di sinistro ed è già forte nelle gambe. Spiega ancora Massimo Marianella: “La sua forza è stata la capacità di migliorarsi continuamente, lavorando sui suoi difetti e facendoli diventare punti di forza”. Un giorno, Robin è ancora un bambino, l’allenamento è annullato per maltempo. Lui si presenta lo stesso al campo, e costringe l’allenatore a esercitarsi con lui per un’ora sotto la pioggia. Robin cresce giocando nell’Excelsior. A tredici anni in Olanda si comincia a parlare di lui come del nuovo Cruyff, e il ragazzo capisce che ce la può fare. A quel punto per lui esiste solo il calcio. I suoi professori sono disperati: Robin non studia, risponde a tono ai rimproveri e sa per certo che tanto guadagnerà un sacco di soldi da calciatore. Il suo carattere spigoloso si forma in quegli anni, crescendo nel ghetto e avendo a che fare con amicizie pericolose, come racconta lui stesso: “Fino a quattordici anni ho fatto quello che volevo, ero come un bambino in un negozio di caramelle, prendevo tutto quello che vedevo alla mia portata. A quattordici anni ho capito di essere a un bivio: avrei potuto perdermi facilmente. Vedevo i miei amici fare un sacco di stupidaggini, mi invitavano a bere, fumare e fare anche un sacco di altre cose… dopotutto eravamo in Olanda. Ma non ho ceduto al lato oscuro. Avrei potuto fare tutto questo pure io, ma non l’ho fatto, ho sempre detto di no. Qualche tempo fa ho ripreso in mano una foto della mia squadra di quando avevo quattordici anni e ho guardato le facce di tutti i miei compagni. E, sapete?, tutti quelli che facevano quelle cose non ce l’hanno fatta”. A diciassette anni il Feyenoord gli offre un contratto, e nel 2002 fa parte della squadra che vince la Coppa Uefa. Van Persie però ha un carattere difficile, litiga spesso con l’allenatore, arrivando a rifiutarsi di entrare a cinque minuti dalla fine di una partita di Coppa contro il Fenerbahçe. Sicuro dei propri mezzi sino a sfiorare il bullismo: arrivò a spostare dal pallone, prima di un calcio di punizione, la star della sua squadra, Pierre van Hooijdonk, calciando al posto suo. Traversa e polemiche. Anni dopo Van Persie dirà di non essersi pentito di quel gesto di insubordinazione, e che lo avrebbe rifatto. Nel 2004 i rapporti con l’allenatore e la squadra si guastano del tutto, e Van Persie è pronto al grande salto.

    Londra gli porta fama e successo. Con l’Arsenal vince subito il Community Shield (l’analogo della nostra Supercoppa) esordendo nel 3-1 contro il Manchester United, e la FA Cup al termine della stagione. Lui e la squadra sembrano destinati a raccogliere altre vittorie negli anni a venire, ma quelli sono gli ultimi trofei alzati da Van Persie fino a quest’anno. Wenger però lo fa crescere, insegnandogli la pazienza e inserendolo pian piano nella squadra, fino a sostituire un suo idolo di ragazzino, quel Dennis Bergkamp a fine carriera che tanto era amato dai tifosi. L’allenatore francese lo trasforma in attaccante implacabile, lo responsabilizza e lo aspetta anche quando, nel 2005, Van Persie viene arrestato in Olanda per stupro. L’accusa arriva da Sandra Krijgsman, ex miss Nigeria, ma cade un anno dopo, quando lei stessa ammette di essersi inventata tutto per farsi pubblicità. Robin passa alcuni giorni in cella, e si comincia a parlare di lui più per la vita personale che per i suoi gol. Dopo l’assoluzione ammetterà di avere avuto rapporti con la ragazza che lo accusava, ma sua moglie Bouchra, una ragazza marocchina del suo quartiere, lo perdonerà. L’Arsenal è casa sua, e lui diventa sempre più decisivo, anche se deve aspettare la partenza di Henry, nel 2007, per diventare la punta titolare. Segna di sinistro, di destro, di testa, su punizione, al volo, da fermo, in corsa e dopo una serie di dribbling: per Van Persie il gol è un’opera d’arte da disegnare con la stessa cura che vedeva in suo padre quando dipingeva. Dopo ogni gol la sua faccia dice una cosa sola: sono o no il più forte di tutti? “Robin van Persie / he’ll score when he wants”, canta la gradinata, “fa gol quando vuole”. Nel 2006 l’Arsenal perde la finale di Champions League contro il Barcellona, ma Van Persie segue tutta la partita dalla panchina. La consacrazione a mito arriva nel 2011, quando Wenger gli dà la fascia di capitano. Un anno prima del grande tradimento. Ci sono calciatori del passato che raccontano come l’amore dei tifosi e per la maglia valgano più di tante vittorie. Per otto anni è stato così anche per lui. Poi i suoi capelli hanno cominciato a diventare bianchi, e la chiamata di Ferguson irresistibile. “E’ quello che ci è mancato negli ultimi due anni”, ha detto Sir Alex parlando di lui. Ferguson è stato abile, paziente. Ha aspettato che Van Persie maturasse calcisticamente e che non ci fosse più l’ambiente ideale per lui a Londra. A quel punto si è fatto avanti.

     

    C’è modo e modo di lasciare una squadra, anche se l’amore dei tifosi sugli spalti è irrazionale e più imprevedibile di un dribbling in velocità. Cesc Fàbregas, capitano dell’Arsenal prima di lui, se ne andò nel 2011 per tornare a casa sua, Barcellona. I tifosi lo applaudirono e ancora lo osannano all’Emirates quando viene a vedere qualche partita dei Gunners. Van Persie ha fatto l’errore di giurare amore eterno a quei colori, per poi andarsene dai rivali esaltandoli. Nel sempre più costruito calcio moderno per i fan la fedeltà e il rispetto della maglia hanno ancora un senso, però. E i vecchi tifosi hanno di colpo cancellato i 132 gol in otto anni, le prodezze che li hanno fatti impazzire, i tocchi imprevedibili del suo sinistro. Nel piccolo stadio dell’Excelsior, a Rotterdam, c’è una tribuna dedicata a lui, onore rarissimo per un calciatore in attività. All’Emirates non ci sarà mai. Domani Van Persie scenderà in campo per la prima volta da avversario a Londra. In programma c’è Arsenal-Manchester United. All’andata, Van Persie non ha esultato dopo il suo gol. Tradizione vuole che ai neo campioni venga tributato l’onore di una passerella all’ingresso del campo: i Red Devils che entrano in campo accolti dagli applausi dei Gunners, disposti su due file. I tifosi dell’Arsenal stanno preparando l’accoglienza dovuta. Quando il Manchester United uscirà dagli spogliatoi i tifosi si gireranno dall’altra parte. “Lui ha voltato le spalle a noi – dicono – noi le voltiamo a lui”. Ma chissà quanti con la coda dell’occhio cercheranno lo stesso la maglietta numero 20 con quella scritta, “V. Persie”, ripensando per un istante almeno, con un sospiro, a quanto quel ragazzo olandese li ha fatti godere.

     

    • Piero Vietti
    • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.