La guerra per il dominio dell'Amazzonia

Maurizio Stefanini

E' guerra per l’Amazzonia. Una guerra virtuale su un qualcosa di virtuale, ma non per questo meno feroce. Da una parte il Brasile e altri Paesi sudamericani; dall’altra la Amazon, il gigante delle vendite on line con sede a Seattle. In mezzo, il nome di uno dei nuovi domini di secondo livello che potrebbero essere registrati in base alla liberalizzazione del 12 gennaio 2012. Che Amazon vorrebbe destinare alle vendite, e i sudamericani alla tutela della grande foresta pluviale. Giova sottolineare come in origine il termine non era né sudamericano e né nordamericano, ma legato al mito greco.

    E' guerra per l’Amazzonia. Una guerra virtuale su un qualcosa di virtuale, certo, ma non per questo meno feroce. Da una parte il Brasile e altri Paesi sudamericani; dall’altra Amazon, il gigante delle vendite on line con sede a Seattle. In mezzo, il nome di uno dei nuovi domini di secondo livello che potrebbero essere registrati in base alla liberalizzazione del 12 gennaio 2012. Che Amazon vorrebbe destinare alle vendite, e i sudamericani alla tutela della grande foresta pluviale. Giova sottolineare come in origine il termine non fosse né sudamericano e né nordamericano, ma legato al mito greco. E anche se oggi definire una donna “amazzone” è piuttosto un complimento alludente a sue capacità atletiche (in particolare nel campo dell’equitazione) in effetti etimologicamente è un insulto: “senza tette”, né più né meno. In riferimento alla leggenda secondo cui le donne guerriere si bruciavano una delle mammelle, per non averle d’impaccio quando tiravano con l’arco.

    In ogni caso vero è che il Río (con l’accento in spagnolo) o Rio (senza accento in portoghese) Amazonas diede il nome anche alla grande foresta che sorge nel suo bacino. Ed è proprio dall’Amazzonia, che nel decennio scorso era tornata alla ribalta per le polemiche sulla deforestazione e i concerti di denuncia di Sting, che nel 1994 l’allora trentenne Jeff Bezos creò l’impresa che sarebbe divenuta il colosso mondiale dell’e-commerce. Nel garage di casa, secondo la miglior tradizione della New Economy, e all’inizio solo per vendere libri. Il resto si sarebbe aggiunto in seguito.   

    Quando cercò un nome, Bezos aveva solo l’idea di qualcosa che iniziasse per A, così da arrivare prima nelle ricerche per ordine alfabetico. Si mise a sfogliare un dizionario, e probabilmente fu per la moda del momento che ebbe l’idea di Amazon. A confortare la sua scelta, anche la metafora del fiume che diventa immenso prendendo acqua da una quantità di affluenti e che ben si identificava con la possibilità grafica di realizzare un logo che, attraverso una freccia tra la "a" e la "z" della parola, alludesse alla opportunità di trovare rapidamente tutto. Tuttavia la polemica nasce dal fatto che, all’inizio dell’anno scorso, la Internet Assigned Numbers Authority (Iana) ha deciso di liberalizzare i domini di primo livello. Ovvero la parte dell’indirizzo Internet che segue il punto più a destra.

    A parte i domini di primo livello nazionali caratterizzati dalla sigla dello Stato, come l’italiano ".it", infatti, nel 1985 erano stati creati solo sette domini di primo livello generici. E poiché ".arpa" era stato subito ritirato in realtà ne erano rimasti sei: “.com“ per entità commerciali; “.edu“ per quelle educative, all’inizio generiche, ma poi solamente statunitensi; “.gov“ per quelle governative pure statunitensi; “.net“ per quelle che si occupavano della rete; “.mil“ per quelle militari a loro volta Usa; “.org“ per altre. Nel 1988 fu poi aggiunto “.int“, per le organizzazioni internazionali. Nel 2001 “.aero“ per l’industria del trasporto aereo, “.biz“ per gli affari, “.coop“ per le cooperative, “.info“ per le informazioni, “.museum“ per i musei, “.name“: individui per gli individui e “.pro“ per i professionisti affermati. Nel 2005 “.cat“ per i siti in catalano, “.jobs“ per le risorse umane e “.travel“ per il turismo. E nel 2006 “.mobi“ per i siti accessibili alla telefonia mobile.

    Ma con la liberalizzazione anche “.amazon“ potrebbe diventare un dominio di primo livello, che “amazon.com“ intende registrare per usarlo in alternativa al “.com“. La stessa Amazon intende registrare anche qualche altra decina di nomi: da “.shop“ a “.song“, “.book“ e “.kindle“. E c'è da dire che ci sarebbe la possibilità teorica di non invadere la omonima regione, la quale in spagnolo e portoghese potrebbe essere registrata semplicemente con un “.amazonas“. Tuttavia un comunicato congiunto di Brasile e Perù ha subito opposto il più netto dei rifiuti: “Riservare a un’impresa privata diritti esclusivi potrebbe impedire l’utilizzo di questo dominio per la protezione e promozione degli ecosistemi dell’Amazzonia. E ciò limiterebbe pesantemente la possibilità di realizzare pagine web legate alla popolazione autoctona di questa regione”. E tralasciando per una volta le differenze ideologiche tra i vari governi, anche Bolivia, Colombia, Ecuador, Guyana, Suriname e Venezuela (Paesi membri del Trattato di Cooperazione Amazzonica) hanno subito approvato.

    Il caso Amazon può vantare precedenti illustri. E' infatti già noto il ricorso che il governo argentino ha presentato contro la registrazione del dominio “.patagonia“ da parte di una nota marca californiana filo ambientalista di abbigliamento sportivo. “La Patagonia è una regione essenziale per l’economia del Paese, poiché dispone di risorse di petrolio, miniera e agricoltura”, si spiega nelle motivazioni del ricorso di Buenos Aires all’Icann. “E' anche una regione con una comunità locale dinamica ed è una destinazione turistica importante”.  L’Icann, non avendo ancora sciolto i dubbi su questa nuova piattaforma bellica fatta di domini, temporeggia. E ha deciso di rinviare tutte le decisioni a luglio.