La teologia politica del compromesso contro i decenni dell'Io scassatutto
Secondo Giuliano Ferrara, direttore di questo “social network di carta fatto per pochi intimi che hanno deciso di cercare”, il pre-testo del discorso di Napolitano del 22 aprile scorso è di tipo filosofico e teologico e si può riassumere nell’analisi realizzata dal domenicano Réginald Garrigou-Lagrange negli anni 40, per cui la chiesa avrebbe “accettato la proposta che le è stata fatta: quella di sostituire alla definizione tradizionale della verità (adaequatio rei et intellectus, come se fosse chimerica, la definizione soggettiva: adaequatio realis mentis et vitae).
Secondo Giuliano Ferrara, direttore di questo “social network di carta fatto per pochi intimi che hanno deciso di cercare”, il pre-testo del discorso di Napolitano del 22 aprile scorso è di tipo filosofico e teologico e si può riassumere nell’analisi realizzata dal domenicano Réginald Garrigou-Lagrange negli anni 40, per cui la chiesa avrebbe “accettato la proposta che le è stata fatta: quella di sostituire alla definizione tradizionale della verità (adaequatio rei et intellectus, come se fosse chimerica, la definizione soggettiva: adaequatio realis mentis et vitae). La verità non è più la conformità del giudizio con la realtà extramentale (oggettiva) e le sue leggi immutabili, ma la conformità del giudizio con le esigenze e l’azione della vita umana, che si evolve continuamente”.
La scomparsa della realtà, la sua evaporazione a favore della coscienza soggettiva, sarebbe la causa di tutto il crollo della metafisica e dell’etica che negli ultimi 50 anni ha investito l’occidente fino alla crisi della politica a cui la scossa racchiusa nel discorso di Napolitano cerca di reagire. Da qui l’invito indicato nell’occhiello dell’articolo “Bisogna tornare alla realtà”, che non si può lasciare cadere, proprio perché si fa parte di quei pochi intimi affezionati all’idea di cercare. E così, evidenziatore alla mano, diverse cose hanno attirato la mia attenzione, a partire dalla critica al Concilio Vaticano II che avrebbe accettato la proposta del mondo che paventava Garrigou-Lagrange, ed è infatti negli anni del Concilio che si scatena la crisi: “Sono gli anni 60, e in qualche decennio viene giù tutto, il mondo gira su se stesso…”.
Non sono d’accordo con la critica al Concilio ma è pur vero che ha ragione Tom Wolfe quando nel 1976 pubblica il suo saggio “Il decennio dell’Io” (di recente pubblicato in Italia da Castelvecchi), un testo molto interessante per tutta la storia della società occidentale contemporanea, figlia anche di quella decade (1966-1976) che, secondo lo scrittore americano, ha visto la definitiva affermazione dell’“argomento più affascinante di questa terra: l’Io”. Per dirla in termini domenicani (Garrigou-Lagrange o, meglio ancora, Tommaso d’Aquino) la definizione tradizionale della verità lascia il posto a quella soggettiva, nasce quella “cosa troppo invadente che si chiama ‘io’” come diceva san Tommaso Moro. E’ anche colpa del benessere e del boom dei decenni precedenti, osserva Wolfe, per cui l’Io può nascere perché l’economia ha creato l’homo novus, immaginato da Marx e dal comunismo, “il primo uomo comune della storia del mondo con la tanto vagheggiata combinazione di denaro, libertà e tempo libero”, un uomo nuovo ma con tanti vizi antichi, primo fra tutti un individualismo sfrenato. Il vizio dell’ipertrofia dell’Io è antico, e prima ancora della Nuova teologia del ’900, trova le sue radici nella svolta antropologica del Rinascimento, da Lutero a Cartesio con il suo “cogito ergo sum”, la coscienza prima della realtà. Non è un caso che un teologo (forse “nuovo” per Garrigou-Lagrange), il gesuita tedesco Karl Rahner, coglie nella svolta cartesiana l’avvio di quel piano inclinato che porterà a tutto quel crollo che l’articolo del direttore indica e risponde al filosofo francese rovesciandone l’assunto in “cogitor ergo sum”: sono pensato dunque sono. Per il cristianesimo la vita non è posta dall’uomo ma è ris-posta dell’uomo all’iniziativa di Dio, creatore della realtà.
L’approccio viziato, individualistico e adolescenziale dell’uomo moderno e contemporaneo trova nella stagione della rete il suo habitat naturale e il rischio è quello della perdita del contatto con la realtà, ma il discorso di Napolitano evidenzia in controluce un’altra “eresia” contemporanea, collegata con lo smarrimento del senso della realtà, l’eresia catara della purezza che disprezza il corpo, la fisicità e ancora di più la politica intesa tout-court come “corruzione”.
A questi bambini angelici il presidente rieletto ha tirato le orecchie invitandoli a crescere e ad abbandonare quella “sorta di orrore per ogni ipotesi di intese, alleanze, mediazioni, convergenze tra forze politiche diverse”, un orrore che per Napolitano “è segno di una regressione, di un diffondersi dell’idea che si possa fare politica senza conoscere o riconoscere le complesse problematiche del governare la cosa pubblica e le implicazioni che ne discendono in termini, appunto, di mediazioni, intese, alleanze politiche”. La purezza è luciferina, perché ancora una volta rivela l’idea che la vita è qualcosa che l’uomo pone e di cui alla fine dispone.
Il decennio dell’Io che per l’Italia è iniziato nel ’68 e sembra ancora non terminato non è altro che un’altra versione dell’eresia catara che produce quel manicheismo moralistico mai estirpato dalla lotta politica e dalla società italiana. Qui Napolitano nel suo invito alla realtà e alla maturità, cioè alla concretezza, si rifà inconsapevolmente a un altro grande teologo del ’900, anche lui tedesco e “nuovo”, Joseph Ratzinger, che si rivolgeva così ai politici tedeschi nel lontano 1981: “Essere sobri e attuare ciò che è possibile, e non reclamare con il cuore in fiamme l’impossibile, è sempre stato difficile; la voce della ragione non è mai così forte come il grido irrazionale. Il grido che reclama le grandi cose ha la vibrazione del moralismo: limitarsi al possibile sembra invece una rinuncia alla passione morale, sembra pragmatismo da meschini. Ma la verità è che la morale politica consiste precisamente nella resistenza alla seduzione delle grandi parole con cui ci si fa gioco dell’umanità dell’uomo e delle sue possibilità. Non è morale il moralismo dell’avventura, che tende a realizzare da sé le cose di Dio. Lo è invece la lealtà che accetta le misure dell’uomo e compie, entro queste misure, l’opera dell’uomo. Non l’assenza di compromesso, ma il compromesso stesso è la vera morale dell’attività politica”. Tutto questo spessore di pensiero il mondo della piazza in piena crisi adolescenziale lo liquida con una parola biascicata con disprezzo: inciucio.
E l’ultimo bersaglio del discorso del teologo Napolitano è la dicotomia palazzo-piazza che il direttore Ferrara coglie nella sua essenza quando parla della “filosofia della rete, dell’immateriale, dell’immaginario, dell’intimo messo a nudo”. Si sente la lezione di un benedettino come Elmar Salmann che qualche giorno fa sempre su questo giornale, intervistato su Papa Francesco da Marco Burini, metteva in guardia dall’ultima idolatria del mondo contemporaneo occidentale: la spietatezza disumana del politically correct. Osserva Salmann che: “Forse ci si comincia a interessare troppo della personalità e della biografia del singolo Papa o vescovo. E’ un biografismo insalubre che porta al culto della personalità ma anche a una sua rapida denigrazione; soprattutto in un’epoca che conosce la proscrizione facile ma non più il diritto di prescrizione, cioè l’indulgenza del dimenticare, del flusso dei tempi, del rivalutare positivamente l’evolversi di una persona. Invece oggi tutto viene scoperto e messo a nudo, anche quando i tempi, le circostanze e la persona stessa si sono trasformate. Un che di pudore, magnanimità, equo giudizio sarebbero auspicabili nel nostro giudicare le persone pubbliche”. E conclude: “L’enfasi psicoanalitica, invece, ci ha portato a un biografismo che non perdona nulla, a una colpevolizzazione infinita. D’altronde siamo nella società del politically correct e la comunicazione è l’unico feticcio religioso rimasto. Che però sta mangiando i suoi figli, come ogni rivoluzione…”.
Per tempi e uomini nuovi urgono teologi nuovi, domenicani, gesuiti o benedettini non importa, e anche se il giornalismo vince la sua pigrizia e continua a cercare, va bene uguale: tutto può servire per mettere in guardia gli uomini nuovi da errori e vizi antichi come l’ideologia-idolatria che, come sempre, è un lupo famelico e autodistruttivo, per lo più travestito da agnello.
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