Brevetti di guerra

Alberto Brambilla

Con la creazione della Corte unitaria dei brevetti, le imprese nordeuropee si assicurano la redditizia possibilità di costringere alla chiusura le imprese più innovative degli stati del sud a colpi di cause legali. Nell’Unione europea, pacifista per genesi, si sta preparando una guerra tanto subdola quanto devastante sia per la coesione comunitaria sia, sul piano pratico, per le piccole e medie imprese italiane; le più esposte alle rivalse di una Germania decisa a consolidare la supremazia nella manifattura. L’Italia ha aderito al progetto di una corte centralizzata per i brevetti il 19 febbraio scorso, l’ha fatto senza studi rigorosi per verificare l’utilità o quanto meno la fattibilità del piano.

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    Con la creazione della Corte unitaria dei brevetti, le imprese nordeuropee si assicurano la redditizia possibilità di costringere alla chiusura le imprese più innovative degli stati del sud a colpi di cause legali. Nell’Unione europea, pacifista per genesi, si sta preparando una guerra tanto subdola quanto devastante sia per la coesione comunitaria sia, sul piano pratico, per le piccole e medie imprese italiane; le più esposte alle rivalse di una Germania decisa a consolidare la supremazia nella manifattura. L’Italia ha aderito al progetto di una corte centralizzata per i brevetti il 19 febbraio scorso, l’ha fatto senza studi rigorosi per verificare l’utilità o quanto meno la fattibilità del piano. Per capire il meccanismo burocratico – diabolico non solo nei dettagli – bisogna infatti ricorrere al provvidenziale euroscetticismo britannico. Nel 2009 la Camera dei Comuni è rimasta “sorpresa” per “la troppa fretta” con cui Bruxelles stava costruendo “una corte così importante” come quella centralizzata dei brevetti, deputata a redimere le dispute legali tra aziende e a giudicare la validità dei brevetti. Viene allora incaricata una commissione bipartisan di avviare un’indagine avvalendosi di un pool di tecnici.

    La relazione mette in dubbio il progetto europeo già nel titolo (“The Unified patent court: help or hindrance?”, la Corte unificata dei brevetti: aiuto o ostacolo?), è però l’analisi complessiva a demolirlo del tutto in tre punti articolati su 44 pagine. Primo: non c’è garanzia di successo dell’impianto giuridico. Secondo: non è chiaro come verranno nominati i giudici. Terzo: danneggia le piccole e medie imprese inglesi. Consapevole dell’impossibilità di arrestare il processo in sede europea, la diplomazia britannica ottiene il massimo risultato possibile aggiudicandosi una delle tre sedi della Corte. A Londra va il “tribunale” per il settore chimico-farmaceutico, la Francia prende la sede centrale (amministrativa) a Parigi, saranno invece discusse in Germania le dispute riguardanti la meccanica e l’ingegneria, a Monaco di Baviera. La tripartizione è frutto di un compromesso.

    Ciascuno ambiva alla sede centrale che in principio doveva essere l’unica. Secondo l’esperto della commissione inglese, Henry Carr, il tentativo tedesco di piazzare a Monaco il tribunale giudicante la validità dei brevetti “non dà per nulla l’impressione di giustizia”. Sono i semi di un meccanismo divisivo che avvantaggia alcuni stati penalizzandone altri. “Con il triangolo Londra, Parigi, Monaco viene oggettivamente favorita l’economia dei paesi nordeuropei”, dice Gabriel Cuonzo, partner dello studio legale Trevisan & Cuonzo di Milano. “In particolare la Germania – dice al Foglio – ha una maggiore potenza in termini di emissione di brevetti (circa 30 mila nel 2012 contro i 3.800 italiani), le imprese hanno più esperienza giuridica in materia, sono più reattive, più numerose e hanno una capacità economica più consistente per affrontare le spese legali”. Con l’istituzione della Corte unitaria, le aziende tedesche giocheranno in casa attirando le contese in Germania, terreno difficile per i contendenti stranieri penalizzati dal deficit linguistico, dall’impatto con una burocrazia sconosciuta e da un aumento dei costi.

    In questa guerra brevettuale il bersaglio più esposto è la piccola e media impresa italiana: ha produzioni concorrenziali rispetto a quelle tedesche (in primis la meccanica) ma con una redditività inferiore. Finora gli imprenditori si sono riparati dietro l’inefficienza della giustizia locale perché le cause sui brevetti vengono discusse nei tribunali italiani: la lentezza, da un lato, è stata un deterrente per i free rider stranieri; dall’altro, ha imbolsito gli imprenditori. All’estero invece sono preparati, soprattutto se sono i custodi della materia come i tedeschi. L’arma germanica inibisce la creazione di un nuovo prodotto, il successo di un’idea. Nella maggioranza degli stati, per attestare la validità e la violazione di un brevetto ora il giudice si pone due quesiti: “E’ valido e originale?” e, se sì, “il prodotto attaccato è simile al brevetto?”. La giurisprudenza tedesca non prevede il primo test ed è verosimile che così faranno anche i giudici tedeschi della Corte unificata. “I giudici tedeschi – dice l’avvocato Cuonzo, giudicato da Top legal migliore professionista del 2012 per la proprietà intellettuale – possono bypassare la prima verifica ordinando in maniera più spedita la cessazione della produzione di un’azienda uscita perdente in una disputa. Per usare una metafora militare: sono missili puntati sulle Pmi italiane”, dice Cuonzo i cui clienti sono soprattutto multinazionali straniere. Il dibattito italiano esalta la Corte come un successo europeo senza la minima evidenza di un vantaggio per l’industria.

    Dire che le spese legali costeranno meno, come ad esempio sostiene Confindustria, non regge: una causa in Italia costa dai 50 ai 100 mila euro contro i 200-300 mila in Germania e quattro volte tanto in Inghilterra. I media si sono concentrati sul regolamento del Brevetto unitario che prevede come lingue ufficiali solo inglese, francese e tedesco. Su questa disputa linguistica, marginale rispetto agli altri interessi in gioco, il governo Berlusconi aveva fatto resistenza ma è l’esecutivo Monti ad avere siglato l’accordo per la Corte unificata a febbraio. L’entrata in vigore è subordinata alla ratifica parlamentare entro il 2014. Spagna e Polonia sono gli unici due paesi su 27 nell’Ue a non avere firmato aspettando di capire come funzionerà il meccanismo. “C’è sempre tempo per aderire – dice Cuonzo – non è necessario farlo subito e, forse, sarebbe utile restarne fuori come fossimo un porto franco. Le imprese innovative italiane potranno così avvantaggiarsi dei benefici derivanti dal nuovo sistema contro i concorrenti esteri mentre non dovranno temere esecuzioni forzate in Italia sulla base di decisioni di giudici stranieri”. A Roma però nessuno si è posto il problema di una burocrazia europea che ha dato ai paesi membri il “brevetto” per darsi battaglia.

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    • Alberto Brambilla
    • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.