“Non lo so, ma se sapessi non lo direi”

Stefano Di Michele

Era solo quattro anni fa. Andreotti compiva novant’anni. Ancora eterno pareva. Concesse chissà quante interviste. La quattordicesima all’Unità. E al quotidiano fondato da Gramsci diede in quell’occasione la perfetta definizione di potere – altro che il logorarsi in sua assenza. Spiegò, e così a parecchie domande rispose: “Non lo so, ma se lo sapessi non lo direi”. Saggezza politica. Negli anni scimuniti che ci toccano, tutto il contrario succede: mediocri uomini di effimero potere che ogni cosa raccontano, di ogni confidenza fanno pubblica dichiarazione, beatificati dalla loro stessa incontinenza. Parecchi anni prima aveva anche proposto: “Dite sempre la verità, ma – salvo che nelle aule di giustizia – non dite mai tutta la verità.

Sottile Andreotti e il trasformismo giudiziario raccontati da Macaluso

    Era solo quattro anni fa. Andreotti compiva novant’anni. Ancora eterno pareva. Concesse chissà quante interviste. La quattordicesima all’Unità. E al quotidiano fondato da Gramsci diede in quell’occasione la perfetta definizione di potere – altro che il logorarsi in sua assenza. Spiegò, e così a parecchie domande rispose: “Non lo so, ma se lo sapessi non lo direi”. Saggezza politica. Negli anni scimuniti che ci toccano, tutto il contrario succede: mediocri uomini di effimero potere che ogni cosa raccontano, di ogni confidenza fanno pubblica dichiarazione, beatificati dalla loro stessa incontinenza. Parecchi anni prima aveva anche proposto: “Dite sempre la verità, ma – salvo che nelle aule di giustizia – non dite mai tutta la verità. E’ scomodo e spesso arreca dolore”. Il potere non è solo la sobrietà tanto di moda, ancor meno la chiacchiera perenne – lo streaming emorroidale ormai quasi quotidiano.

    Il potere è pure una caverna oscura, una zona d’ombra, quasi di riparo, un lieve bisbiglio. Così si difende, e così in qualche modo da esso ci si difende. Assordati dagli invocatori di “verità” – e ognuno la sola sua verità tiene, e quella sola cerca, e per quella soltanto ogni altra va fanaticamente dannata – l’idea andreottiana del potere (tanto inestricabile quanto paradossalmente inclusiva) pare remota, eppure non meno persistente. Non esiste un potere candido – come sapevano i vecchi anarchici (perciò “assicurati che nessuno possa prendere il potere”), come dunque sapeva “Il Divo”: quello cinematografico e quello reale. Solo i fissati, gli esaltati lo pensano: gli stessi che confondono questura e Parlamento, brogliacci e accordi, tenebre e penombra. E chissà di quanta bile e quanto vomito di paura quell’immaginario potere nitido deve sporcarsi, per infine trionfare nel suo splendore: ché salvare anime è sempre un mestieraccio da maneggiare con attenzione. Abbiamo pubblica, obbligata passione per le anime belle – e ogni scemenza a esaltare, ad accompagnare col ciglio umido e il cuore in tumulto. Il pensare di gestire il potere, senza il potere esercitare, è la strada più facile per ritrovarsi sull’orlo dell’abisso. Andreotti è sempre stato associato al potere: il Belzebù della Repubblica nostra, la scatola nera dei misteri (“apritegli la gobba!”), il giocoliere arcano. E in lui la suggestione del potere era certo forte, quasi sacrale. Ma di un potere che conosceva il senso della misura, e con l’umana debolezza e cupidigia faceva i conti. Presidiava, nei decenni – con quel suo sbriciolare le questioni, quel suo sfumare i contorni netti delle cose – la sottile linea di confine tra il potere com’è e il potere come spesso rischia di diventare: il più delle volte a nostro danno. Il sapere che si deve magari pensar male per meglio cogliere l’essenza delle questioni – persino in religione, “mi dicono che, quando gli riferivano di un sacerdote in crisi, Pio XI domandava come si chiamasse la signora”, e del resto quell’esortazione da un cardinale Andreotti l’ascoltò, ma pure il rovesciamento di senso (per mutarlo in decente buon senso) delle smargiassate mussoliniane, così simili alle patacche moralistiche che si spacciano adesso, così che saggezza invece vuole “pochi nemici, buona politica”.

    “Non lo so, ma se lo sapessi non lo direi”. Adesso tutt’altro si chiede al politico: non tanto di sapere, piuttosto il dire. E i politici spesso si adattano: e altro non fanno che dire, e il più delle volte dicono quel che via Twitter gli suggeriscono di dire. “Temo molto le società non aventi fini di lucro”: ecco, anche questo è ben detto, seppure fanno ressa e voce i teorici di un potere neutro, candido, evirato – così che il potere vero sia altrove, mentre i puri con la sua scatoletta vuota si gingillano e si beatificano. Per non soccombere definitivamente al potere, meglio conoscere i suoi costi, non fingere che sia gratis o disinteressato. In fondo, l’intera, lunga esistenza di Andreotti questo racconta: che esiste precisa contabilità del potere, che un lembo del mantello nel fango finirà. Un prezzo che solo i farabutti si rifiutano di pagare e solo gli esaltati credono di evitare. Certo, oggi Andreotti appare sullo sfondo di ogni nostro confine, quasi impossibile immaginarlo sulla scena politica. Però, giganteggia ancora sulle cose, perché le cose, anche a volersele raccontare diverse, sempre le stesse sono. E ci superano, e ancora precedono. L’andreottismo sopravviverà perché è l’esatta, quasi burocratica misura di quel che siamo. Meglio, a volte. Molto peggio, spesso.

    Sottile Andreotti e il trasformismo giudiziario raccontati da Macaluso