Si canticchia “Won't get fooled again”

Obama non voleva fissare la “red line”, gli è sfuggita, dice il Nyt

Paola Peduzzi

Barack Obama non voleva dirla, la frase sulla “red line” delle armi chimiche in Siria, gli è sfuggita in conferenza stampa, si sa che non è avvezzo a certe intimità con i giornalisti. Dall’agosto scorso, quando il presidente americano disse che l’utilizzo delle armi chimiche da parte del regime di Damasco avrebbe modificato la strategia (o forse avrebbe fatto sì che gli Stati Uniti se ne inventassero una, di strategia), non si è fatto che discutere della linea rossa, degli arsenali chimici di Bashar el Assad, delle testimonianze di chi gli attacchi li subisce già, dal cielo, da terra, in ogni angolo di paese, ma che “un’esplosione tutta blu” – come scrive Dexter Filkins sul New Yorker, al solito imprescindibile – la sa riconoscere, quando la vede.

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    Barack Obama non voleva dirla, la frase sulla “red line” delle armi chimiche in Siria, gli è sfuggita in conferenza stampa, si sa che non è avvezzo a certe intimità con i giornalisti. Dall’agosto scorso, quando il presidente americano disse che l’utilizzo delle armi chimiche da parte del regime di Damasco avrebbe modificato la strategia (o forse avrebbe fatto sì che gli Stati Uniti se ne inventassero una, di strategia), non si è fatto che discutere della linea rossa, degli arsenali chimici di Bashar el Assad, delle testimonianze di chi gli attacchi li subisce già, dal cielo, da terra, in ogni angolo di paese, ma che “un’esplosione tutta blu” – come scrive Dexter Filkins sul New Yorker, al solito imprescindibile – la sa riconoscere, quando la vede. S’è discusso dell’approssimarsi di quella linea e della linea alle spalle, ma ora si scopre, grazie a una ricostruzione del New York Times di domenica, che Obama non voleva nemmeno fissarla, quella linea. Gli è scappata, per analogia con le linee rosse tracciate con l’Iran. E i suoi consiglieri, quando hanno sentito parole non concordate, avrebbero voluto fargliele rimangiare, avrebbero voluto evitare i titoli, l’esultanza del popolo siriano. A Washington non sanno darsi una risposta alla domanda cruciale: se Assad usa il gas sarin contro i suoi concittadini, che cosa c’entriamo noi?

    Il portavoce della Casa Bianca, Jay Carney, naturalmente smentisce, dice che la “red line” è stata fissata “in modo deliberato, sulla base della politica estera americana”, ma l’idealismo dell’interventismo liberale che nasce a sinistra, cioè dalle parti teoricamente di Obama, è morto. Al suo posto ci sono pragmatismo e cautela, cenni a Israele (non diteci niente, il lavoro sporco fatelo voi, se dovete), qualche frase roboante sul dittatore cattivo che deve andarsene. Non fa in tempo a sentirsi la voce onusiana di Carla Del Ponte che sostiene che sono i ribelli (leggi: al Qaida) a usare il sarin, non il rais Assad – la versione non è stata confermata da nessun responsabile ufficiale: è una bufala – che a Washington s’alzano gridolini di giubilo: vedete, i jihadisti si sono rubati la primavera siriana e sono peggio del regime. “Won’t Get Fooled Again” è la colonna sonora al National Security Council, scrive Bill Keller, ex direttore del New York Times, ma la “red line” resta un problema per Obama, perché chiude l’Amministrazione in una “geopolitical box” e perché svela il non detto dell’Amministrazione: non ci sarà un’altra guerra in medio oriente, sarin o non sarin.

    Secondo il Washington Post, Obama ha escluso l’invio di truppe sul terreno, e ancora si crogiola nella speranza originaria: che il regime collassi da sé, per mancanza di sostegno interno o esterno. Ma ora la pressione internazionale è forte, e il presidente tutto regge tranne la perdita di consenso: qualcosa deve essere fatto. Michael O’Hanlon, senior fellow alla Brookings Institution che già finì in un caos mediatico per aver (cautamente) sostenuto l’intervento in Iraq, propone su Usa Today: il modello dell’intervento in Bosnia rappresenta “la migliore bozza per questo nuovo piano”. I neoconservatori del Weekly Standard e della Foreign Policy Initiative dicono che è necessario intervenire per un “regime change”, anche se ormai Obama s’è giocato nome e interesse nazionale. I cauti rispondono: che l’intervento in Siria sarebbe un disastro lo dimostra il fatto che sono le stesse voci che premevano per l’Iraq a volere una replica a Damasco – premesse sbagliate, guerra catastrofica.

    Il già citato Bill Keller, che si era ritrovato nel gruppo dei falchi del “regime change” a Baghdad e ancora oggi si vergogna, fa la sintesi più illuminante, soprattutto perché la fa lui che si sente addosso tutti i sensi di colpa della nazione. Dice che la Siria non è l’Iraq per quattro motivi: l’interesse nazionale è realmente in pericolo; la guerra settaria è già in corso: non c’è bisogno di preoccuparsi di scatenarne una; ci sono altre opzioni militari oltre all’invasione; gli alleati aspettano che l’America si decida a intervenire. Prendere bene la Siria si può, se si toglie di mezzo il macigno dell’Iraq. Altrimenti “temo che la prudenza sia diventata fatalismo e che la nostra cautela sia madre di opportunità mancate, che diminuisca la nostra credibilità e allarghi la tragedia”.

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    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi