Calcoli e spettri

Quanto paga un intervento in Siria in termini di politica interna? Le domande di Obama

Paola Peduzzi

La sintesi del pragmatismo con cui l’America addolcisce la pillola dell’indifferenza alla questione siriana è contenuta nell’ultimo articolo di Dexter Filkins, sul New Yorker. Filkins ripercorre la storia recente delle crisi umanitarie e dell’approccio di Washington. Quando parla della Bosnia e dell’intervento clintoniano dopo la strage di Srebrenica individua due lezioni da trarre: la prima è che, quando il mondo ha bisogno dell’America, l’America deve farsi sentire, ci vuole un attimo a tornare indispensabili. La seconda è che, “in termini di politica interna, non ci fu molto da guadagnare dall’intervento in paesi stranieri: c’era molto da perdere se le cose andavano storte”.

Boutourline Sulla Siria, Teheran fa il verso a Obama con il “piano Suleimani” - Non aspettiamo una nuova Srebrenica

    La sintesi del pragmatismo con cui l’America addolcisce la pillola dell’indifferenza alla questione siriana è contenuta nell’ultimo articolo di Dexter Filkins, sul New Yorker. Filkins ripercorre la storia recente delle crisi umanitarie e dell’approccio di Washington. Quando parla della Bosnia e dell’intervento clintoniano dopo la strage di Srebrenica individua due lezioni da trarre: la prima è che, quando il mondo ha bisogno dell’America, l’America deve farsi sentire, ci vuole un attimo a tornare indispensabili. La seconda è che, “in termini di politica interna, non ci fu molto da guadagnare dall’intervento in paesi stranieri: c’era molto da perdere se le cose andavano storte”. Sarebbe ingenuo pensare che il calcolo politico non sia alla base di ogni decisione presa da un presidente americano, ma nel caso di questa Amministrazione votata al pragmatismo il calcolo è l’unico elemento che pesa. Il New York Times conferma che Barack Obama persiste nella tattica della cautela: “Non ci si può muovere sulla base di percezioni”, ma intanto qualcosa si muove: stanno arrivando più armi ai ribelli; il segretario di stato John Kerry è a Mosca per convincere Vladimir Putin e il suo ministro degli Esteri Sergei Lavrov, noto come il “signor no”, ad ammorbidire la loro linea su Damasco; e i piani militari sono ormai ultimati.

    Ma la cautela ha effetti collaterali: più il tempo passa, più le prove degli attacchi con il gas sarin sono difficili da trovare. Soprattutto sfumano le chance di individuare il mandante di questi attacchi. Lo scienziato svedese che guida il team di ispettori dell’Onu che indagano sulle armi chimiche, Ake Sellstrom, dice che la sua è una corsa contro il tempo, ma il regime di Assad continua a non farlo entrare in Siria. La “red line” fissata da Obama così si scolora un po’: tutti sanno che è stata superata, ma mancano le prove e si può aspettare ancora un po’. Il tempo di capire quale spettro peserà di più sul pragmatismo sfrenato dell’Amministrazione: il senso di colpa iracheno? La fretta libica ora impantanata nelle commissioni sui fatti di Bengasi? Il Black Hawk abbattuto in Somalia? Srebrenica? Il Ruanda?

    Even MacAskill scrive sul Guardian che “Obama, come Clinton, è prigioniero della storia”. L’ex presidente lasciò che le lotte settarie in Ruanda diventassero genocidio senza fare nulla: con la chiusura della prima guerra del Golfo la politica estera americana tendeva verso l’isolazionismo. Obama non ha la tendenza isolazionista in sé, altrimenti non si spiegherebbero gli attacchi con i droni in paesi che non sono in guerra con l’America – la Somalia, il Pakistan, lo Yemen. Piuttosto tende ad affrontare un guaio alla volta senza pretendere di avere una strategia complessiva: guarda l’effetto che fa, e decide il passo successivo. Naturalmente la crisi economica e le riforme interne – la sanità, l’immigrazione, i matrimoni gay, le armi – hanno più peso nel determinare la legacy del presidente, ed è a questo che Obama guarda ora.
    L’assenza della “big picture” spinge Bret Stephens, neo premio Pulitzer, a dire: se a Boston i ragazzi attentatori avessero usato il sarin sarebbe stato più chiaro a Obama che in corso c’è un’unica guerra? La provocazione fa sorridere i sostenitori della strategia della cautela: la campagna libica è stata un successo, Gheddafi è stato ucciso, ma l’uccisione dell’ambasciatore Chris Stevens ha poi cancellato tutto. “In Libia, il giorno dopo che siamo intervenuti – dice una fonte della Casa Bianca a Filkins – tutte le pressioni sono passate da ‘perché non intervenite?’ a ‘che cosa avete fatto?’”.

    Come già è accaduto in passato, la riluttanza causa danni maggiori ai riluttanti, come scrive il Wall Street Journal: “Nell’assenza della leadership americana, i ‘bad actors’ riempiono il vuoto. Prima o poi, i guai che creano andranno a toccare gli interessi americani. Impuntandosi così tanto nel non intervento, l’Amministrazione Obama ha reso una guerra molto più ampia ancora più probabile”.

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    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi