L'abbaglio dell'occidente
Quanto ci affascinava Assad a cena, ma già sapevamo com'era fatto
Abbiamo sempre perdonato tutto, a Bashar el Assad. Con quell’aria spaesata, il figlio che non doveva essere l’erede della dittatura siriana, ma è stato trascinato a Damasco quando il fratello maggiore, il predestinato, è morto in un incidente automobilistico (un attentato, presumibilmente), ci è sempre sembrato più credibile dei suoi colleghi dittatori. La faccia pulita, gli abiti eleganti, un’aspirazione fugacemente propagandata, all’inizio del suo mandato, al riformismo, la bella moglie, i tre figlioletti, gli studi all’estero, l’incapacità di maneggiare le armi (lacuna poi colmata) l’hanno reso a lungo un interlocutore non soltanto accettabile, ma persino credibile.
Abbiamo sempre perdonato tutto, a Bashar el Assad. Con quell’aria spaesata, il figlio che non doveva essere l’erede della dittatura siriana, ma è stato trascinato a Damasco quando il fratello maggiore, il predestinato, è morto in un incidente automobilistico (un attentato, presumibilmente), ci è sempre sembrato più credibile dei suoi colleghi dittatori. La faccia pulita, gli abiti eleganti, un’aspirazione fugacemente propagandata, all’inizio del suo mandato, al riformismo, la bella moglie, i tre figlioletti, gli studi all’estero, l’incapacità di maneggiare le armi (lacuna poi colmata) l’hanno reso a lungo un interlocutore non soltanto accettabile, ma persino credibile.
C’è un’immagine che restituisce questa grande illusione. Risale al 2009, è stata scattata in un ristorante di Damasco, il Naranj, abbastanza affollato. C’è un tavolo rotondo con quattro avventori, due signori eleganti, due signore vestite di nero: John Kerry con sua moglie Teresa e Assad con sua moglie Asma. Parlano e sorridono, il tavolo è pieno di cibo, i camerieri portano bevande di colore verde. Kerry allora era un senatore americano, aveva perso malamente le elezioni contro George W. Bush, e assieme a molti democratici – con gran parte delle cancellerie europee – sosteneva la necessità di creare un filo diretto con Assad, unica via in direzione di Teheran per l’allora fresca mano tesa che l’Amministrazione Obama aveva offerto all’Iran.
Il clima disteso che risulta dalla foto, la confidenza, la naturalezza con cui lo stesso Assad si sedeva a un ristorante senza essere circondato da un esercito di guardie del corpo, in quella Damasco dove oggi deve stare nascosto, chissà dove, chissà in quale bunker, raccontano meglio di qualsiasi analisi l’abbaglio occidentale, e forse in parte siriano, nei confronti del regime di Assad.
La linea di credito aperta verso Damasco ha contribuito a chiudere gli occhi alla comunità internazionale. Basti pensare all’assassinio dell’ex premier libanese Rafiq Hariri nel 2005, alla commissione dell’Onu che ha ricostruito i fatti e i mandanti e al nulla di fatto che è venuto in seguito. Quello di Hariri fu un omicidio politico, e questo è fuori di dubbio in un paese come il Libano che ha visto i suoi leader essere ammazzati con crudele frequenza. La piazza libanese si riempì e la forza di quella rivoluzione portò alla fuoriuscita dei siriani dal Libano – Damasco da sempre considera Beirut casa sua: l’immagini dei carri armati siriani che oltrepassavano il confine è una delle poche istantantanee d’ottimismo della storia mediorientale – e alla vittoria di una coalizione sunnita alle elezioni, quella del 14 marzo. Per indagare sull’omicidio fu istituita una commissione indipendente da parte delle Nazioni Unite e allora sembrava che il suo lavoro sarebbe stato rapido e semplice: si sapeva che le responsabilità politiche – se non quelle materiali – gravitavano attorno alla leadership di Damasco e al suo alleato libanese: gli hezbollah sciiti.
Non andò così. Iniziarono a scoppiare bombe contro i leader della coalizione 14 marzo in Libano, contro i cristiani, contro gli investigatori dell’Onu, nel 2006 Hezbollah scatenò la guerra contro Israele, Beirut e altre parti del paese furono bombardate, si arrivò a una tregua con l’arrivo dei Caschi blu dell’Onu nel sud del Libano – e da allora anche loro sono diventati bersagli di attacchi. Nel 2008 gli uomini di Hezbollah invasero armati il centro di Beirut minacciando la coalizione 14 marzo e costringendola a un patto di governo, che aveva più l’aria di un golpe (da allora, Hezbollah governa in Libano). Intanto la commissione aveva indicato, nei suoi primi due report (ce ne sarebbero stati dieci in tutto), che i mandanti “potevano essere legati” a Damasco, ma alla fine del suo mandato, nel febbraio del 2009, fu sostituita dal Tribunale speciale per il Libano, che è ancora al lavoro. Alcuni dispacci dell’intelligence sostenevano già dal 2005 che gli americani avevano pensato di soffiare sul contagio libanese in modo che lambisse anche Damasco e Assad. Dopo un anno quella pressione si esaurì e iniziarono altre dinamiche che si sono poi concretizzate in uno stretto, indissolubile abbraccio tra Hezbollah, Damasco e naturalmente l’Iran.
Alcuni funzionari dell’Onu hanno ammesso negli anni che le conseguenze di quell’inchiesta sarebbero state devastanti per il Libano e per tutta la regione, e per questo si temporeggiava. Quando finalmente il Tribunale speciale, sotto la guida di Antonio Cassese, ha rilasciato i mandati d’arresto, nel giugno del 2011, contro quattro generali libanesi di Hezbollah, il Libano è collassato. Il figlio di Hariri, Saad, che era premier, non voleva sottostare alle pressioni dei ministri di Hezbollah che pretendevano un rifiuto ufficiale della posizione del Tribunale, e così a Beirut e nel sud del Libano scoppiò di nuovo il conflitto, e si sa sul campo gli uomini del Partito di Dio non hanno rivali. Quel che più conta è che il Tribunale ha identificato in Hezbollah i responsabili dell’assassinio Hariri, ma tutte le accuse dirette alla Siria sono cadute. Evaporate. Persino Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, si stupì di essere rimasto solo a dover portare quel fardello internazionale.
Assad serviva a Damasco. Serviva per tenere insieme quella politica di appeasement che, con l’arrivo di Barack Obama alla Casa Bianca, ha caratterizzato la politica estera americana. Serviva come tramite, come collante, tra l’occidente e l’Iran, per evitare che gli ayatollah si dotassero dell’arma atomica e per contenere le loro mire espansionistiche e settarie. Nel 2008 Assad partecipò alla parata del 14 luglio a Parigi di fianco all’allora presidente Nicolas Sarkozy (che sosteneva che Damasco potesse essere anche l’unico a convincere Hamas, nella Striscia di Gaza, a liberare il caporale Shalit rapito nel 2006). La rivoluzione verde a Teheran, nel 2009, repressa nel sangue da bassiji e pasdaran cambiò di nuovo i rapporti di forza e i termini diplomatici, ma ancora Assad sembrava l’unico politico nella regione in grado di gestire le nuove triangolazioni. L’11 marzo del 2010 il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha conferito ad Assad l’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce decorato di Gran Cordone al merito della Repubblica italiana (ora revocata). C’era allora ancora chi citava con nostalgia le promesse riformiste di Assad – “il 2005 sarà l’anno delle riforme” – e il suo tentativo di fare piazza pulita degli uomini del padre, come se tutta la ferocia che ancora c’era nei confronti della dissidenza siriana fosse soltanto un rimasuglio di passato. A ripensarci viene da domandarsi come sia stata possibile tanta e tale leggerezza nei confronti di Assad, ma poi basta guardare che cosa accade oggi – dopo più di 70 mila morti, dopo gli attacchi con l’artiglieria, gli attacchi con le bombe, gli attacchi con gli Scud, gli attacchi con le armi chimiche – con il patto letale tra americani e russi per capire che siamo disposti a perdonarlo ancora un po’, Assad.
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