Fallito sarà lei
Quanti siano non si sa, il circo mediatico palleggia le cifre con l'abilità di un consumato prestidigitatore. Quanti imprenditori fanno bancarotta? Certo, sono tanti. Sono troppi. Chiudono mille aziende al giorno dice l'Unione delle camere di commercio che possiede la banca dati più aggiornata. E' vero che ne vengono aperte molte: piccole imprese artigiane diventano cooperative, aziende individuali si trasformano in società di capitali. Il 2012 ha registrato 383.883 nascite rispetto a 364.972 funerali. Anche se inferiore agli anni delle vacche grasse, è un saldo positivo. E tuttavia nessuno espone fiocchi rosa alla porta. Il lutto occupa ogni spazio, il pianto strazia i volti e non c'è posto per un sorriso. I persuasori hanno fatto bene il loro mestiere.
“Ho sempre tentato. Ho sempre fallito. Non importa. Prova ancora. Fallisci ancora. Fallisci meglio” (Samuel Beckett, “Peggio tutta”, 1983).
Quanti siano non si sa, il circo mediatico palleggia le cifre con l’abilità di un consumato prestidigitatore. Quanti imprenditori fanno bancarotta? Certo, sono tanti. Sono troppi. Chiudono mille aziende al giorno dice l’Unione delle camere di commercio che possiede la banca dati più aggiornata. E’ vero che ne vengono aperte molte: piccole imprese artigiane diventano cooperative, aziende individuali si trasformano in società di capitali. Il 2012 ha registrato 383.883 nascite rispetto a 364.972 funerali. Anche se inferiore agli anni delle vacche grasse, è un saldo positivo. E tuttavia nessuno espone fiocchi rosa alla porta. Il lutto occupa ogni spazio, il pianto strazia i volti e non c’è posto per un sorriso. I persuasori hanno fatto bene il loro mestiere.
I falliti, i vinti, portano sulle spalle una colpa e una condanna. Ci può essere compassione per loro, non perdono. “Bancarotta… era una cosa più atroce della morte, era disordine, crollo, rovina, vergogna, scandalo, disperazione e miseria”: Tony Buddenbrook si straccia le vesti e lascia il marito sull’orlo del fallimento, racconta Thomas Mann. B come bancarottiere è la lettera scarlatta che segna il peccato economico dei nostri tempi. “Chi cade nell’acqua è forza che si bagni. Ad albero caduto, accetta, accetta”, andava biascicando il vecchio padron ’Ntoni “con quella faccia da pipa” nei “Malavoglia” di Giovanni Verga. I suicidi di imprenditori disperati sono tragedie individuali ma diventano rappresentazioni collettive. Quando si tratta di Roberto Calvi, di Raul Gardini, di grandi falliti, allora l’incredulo senso comune alimenta il complottismo dei creduloni. Adesso si chiede che entrino nell’agenda di governo.
Eppure, dietro questo palcoscenico, cova un mutamento profondo, un vero cambiamento di senso. Nel quale l’Italia una volta tanto anticipa gli altri paesi europei. Se ne è accorto il Wall Street Journal tra i pochi a non accodarsi ai luoghi comuni. In Europa le leggi sono rimaste così punitive nei confronti degli imprenditori che aver dichiarato bancarotta impedisce di aprire una nuova attività economica o porta alla perdita del diritto di voto. Non per questo trionfa la virtù. Al contrario, la conseguenza, come in ogni rigidità normativa, è di stimolare la scappatoia. Così, la maggior parte degli uomini d’affari cerca di sistemare le cose con accordi privati o corre a pietire il salvataggio pubblico, soprattutto se ha un grande potere di ricatto sociale ed elettorale.
Ma il vento sta cambiando e gli europei guardano come modello agli Stati Uniti, al famoso Chapter 11, il capitolo 11 della legge fallimentare. Negli ultimi anni si è dimostrato uno strumento formidabile per aiutare le imprese a ristrutturarsi: General Motors, Chrysler, Delta, Texaco, solo per citare alcuni nomi di un elenco lunghissimo. E non solo le aziende, il meccanismo si applica anche ai privati. Recentemente, l’attore Kevin Costner vi ha fatto ricorso in una disputa con il distributore di “Robin Hood”.
L’Italia è stata tra i primi paesi europei a muoversi in questa direzione con la legge approvata nell’autunno scorso. Si tratta di passi avanti, il cammino è complicato, sia chiaro, perché la svolta non è solo giuridica o economica, bensì culturale e ideologica. Per capirlo, e prima di entrare nel dettaglio delle norme, bisogna dunque percorrere il cammino del pensiero. Un lungo percorso anche per la tradizione anglosassone.
La Bibbia prevede la remissione del debito ogni cinquant’anni. “Ciò che è venduto rimarrà in mano al compratore fino all'anno del giubileo; al giubileo il compratore uscirà e l’altro rientrerà in possesso del suo patrimonio. (…) Se un forestiero stabilito presso di te diventa ricco e il tuo fratello si grava di debiti con lui e si vende al forestiero, dopo che si è venduto ha diritto di riscatto (…) facendo il calcolo con il suo compratore e pagando il prezzo del suo riscatto in ragione degli anni che mancano per arrivare al giubileo. (…) Se non è riscattato in alcun modo, se ne andrà libero l’anno del giubileo: lui con i suoi figli”. (Levitico 25,23.28.47-48.54). Il giubileo per i cristiani è diventato una remissione del peccato, il grande debito morale nei confronti della legge divina. Tuttavia è prevalso per secoli il diritto romano. Pacta sunt servanda. E chi fallisce viola gli accordi con chi gli ha prestato i quattrini, o il lavoro, la terra, gli strumenti di produzione. Dunque, deve essere punito.
Nella legge inglese, la possibilità di liberarsi dei propri debiti in modo consensuale viene introdotta nel 1705 sotto la regina Anna, l’ultima degli Stuart. Ma la vera svolta intellettuale avviene nelle colonie americane all’insegna del principio di equità. Il cambiamento di paradigma intellettuale si deve a un filosofo tedesco, Gottfried Wilhelm Leibniz, il quale oltre al calcolo infinitesimale e alla “monade senza porte e senza finestre” elaborò una teoria economica e giuridica basata sull’industria e sulla creatività del lavoro. In contrasto con il liberista John Locke, suo avversario anche in filosofia, era favorevole a un intervento dello stato per stimolare la ricchezza delle nazioni. Leibniz poneva la giustizia distributiva a un livello più alto di quella commutativa, subito sotto la giustizia universale il cui principio sommo è la pietà, basata sulla regola d’oro della Bibbia: non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te. Pienamente comprensibile che la sua teoria influenzasse i pellegrini del Mayflower in cerca della nuova Gerusalemme.
Le corti americane cominciano ad applicare questi principi già nel Diciottesimo secolo, in attesa che l’indipendenza e la nuova Costituzione regolino in maniera nuova, per i bisogni e la cultura del Mondo Nuovo, anche debiti e bancarotta. L’articolo primo, in effetti, dà al Congresso il potere di stabilire una norma valida in tutti gli stati ai quali viene comunque lasciato di regolare le cose in modo flessibile. Insomma, un principio federale applicato a livello statale.
A codificare le nuove regole sarà Joseph Story, giudice e giurista eletto alla Corte suprema. Nel 1833 scrive che tenere un debitore in ceppi finché non avrà estinto completamente il suo debito, o appropriarsi dei suoi guadagni futuri, “scoraggia lo spirito di intrapresa e toglie ogni giusta ricompensa per il proprio lavoro”. Quanto a metterlo in prigione, “viola i principi della Cristianità”. Entro la metà del secolo, tutti gli stati avranno eliminato la prigione per debiti che resta invece come suprema punizione in Gran Bretagna, come ci racconta Charles Dickens.
E’ vero, le spinte disgregatrici che portano alla Guerra civile (1861-1866) impediscono l’elaborazione di una vera legge sulla bancarotta mettendo fine così alle querelle locali. E ci vorrà la prima grande crisi del capitalismo americano, il panico del 1893, per mettere il fuoco sotto la sedia dei legislatori. Nel 1898 viene approvato il Bankruptcy Act che resta in vita finché la Grande depressione non indurrà a cambiare di nuovo.
La storia delle norme sul fallimento è affascinante perché dimostra quanto siano sciocchi i luoghi comuni. Chi parla di capitalismo selvaggio e confonde gli Stati Uniti con il mito del Far West, anzi con i film western (Sergio Leone non escluso), non conosce la storia. La legge inglese del 1800 si basava sul principio che il bancarottiere è un disonesto, quella americana sostiene che “può essere onesto, ma sfortunato” e la società deve tener conto dei rovesci offrendo all’individuo una chance per ricominciare. Così, viene consentito di rinegoziare i propri debiti con il creditore.
Fino agli anni Trenta, in ogni caso, bancarotta significava liquidazione delle attività. Le corti applicavano il principio di equità nei confronti di tutti i soggetti coinvolti e, soprattutto, “nell’interesse del bene pubblico”. Nel 1930 il presidente Herbert Hoover avvia un’inchiesta approfondita con l’obiettivo di riformare la vecchia legge. In un solo anno le perdite erano arrivate a tre miliardi di dollari e i creditori in media avevano recuperato appena l’otto per cento dei loro averi. Dunque, la prima preoccupazione è evitare questa sorta di esproprio. Ma il dibattito s’impantana.
Nel 1932 il nuovo presidente, Franklin Delano Roosevelt, incarica uno dei suoi cervelloni, il giurista Adolf Berle, e Fiorello LaGuardia, mitico sindaco di New York, allora deputato repubblicano, di rivedere in modo bipartisan la legge del 1898. E’ il primo passo di un accidentato percorso, segnato da un durissimo dibattito parlamentare e un aspro confronto intellettuale tra gli innovatori e i sostenitori di un ritorno a una linea dura all’inglese, non solo come migliore tutela dei creditori, ma come incentivo a una maggiore disciplina. La principale differenza con il passato è proprio il Chapter 11 che verrà poi rimaneggiato varie volte in particolare negli anni 70, di nuovo in relazione a un’altra grande crisi.
Un’azienda che chiede il ricorso a questa procedura, ottiene che venga congelata ogni pretesa di vedere pagati subito i debiti. Le conseguenze sono importanti. Se si tratta di una impresa che eroga servizi pubblici, vuol dire che non sarà interrotta l’erogazione di elettricità, gas o quant’altro. Lo stesso avviene nel caso di produzione e distribuzione di beni di consumo. Un po’ come accadeva in Italia con l’amministrazione controllata che però durava solo due anni. A meno che non ci siano accuse di frode, al management viene consentito di guidare l’azienda, anche se nel caso di General Motors e Chrysler, essendo coinvolti i quattrini dei contribuenti, la Casa Bianca ha preteso che cambiassero anche i gestori. L’impresa può ottenere credito per continuare l’attività e il pagamento dei nuovi prestiti diventa prioritario rispetto al rimborso dei vecchi debiti che verranno sistemati attraverso un piano poliennale concepito in modo tale da non impedire la prosecuzione dell’attività economica.
Insomma, l’idea è che solo continuando a produrre reddito futuro è possibile far fronte agli errori del passato. Un criterio fondamentale che dovrebbe essere preso in considerazione anche quando si discute sul fallimento degli stati e su come regolare i debiti pubblici. L’impostazione punitiva incarnata dalla Germania, è esattamente contraria alla filosofia del Chapter 11. Se il rigore blocca la crescita del prodotto lordo, è evidente che s’innesca un circolo vizioso.
La legge americana, dunque, non rappresenta solo un modo efficace di risolvere i problemi di singole aziende che non ce la fanno, ma applica un paradigma più generale che vede la produzione e lo sviluppo come pietre di paragone dell’economia, pubblica e privata. E l’azzardo morale? Non siamo al confine con il salvataggio universale, anche se passa attraverso il diritto privato? Non esattamente, perché la sanzione resta. Il problema è che cosa valga di più: la colpa e la soluzione finale o il pentimento e la redenzione. E qui torniamo al sottile confine tra diritto, ideologia, religione; a Leibniz e al primato della giustizia universale.
La bancarotta in Italia è sempre stata un rompicapo. Le pratiche durano un decennio se tutto va bene e i creditori ottengono quasi sempre meno di un quinto di quel che hanno prestato, mentre il 90 per cento delle aziende viene liquidato. Le regole sono cambiate prima nel 2006 poi nell’autunno scorso con un provvedimento contenuto nel decreto sviluppo, prendendo come modello proprio il Chapter 11. Il risultato è un boom di richieste, anche di grossi nomi come Seat Pagine Gialle o Miss Sixty (jeans giovanilistici). Con il risultato di salvare spesso molti posti di lavoro e garantire a un tempo il pagamento dei debiti, il coinvolgimento delle banche e l’attività produttiva.
Siamo solo agli inizi, la riforma è ancora incompiuta, sostengono numerosi giuristi. La chiave del successo è l’efficienza dell’amministrazione giudiziaria (e qui c’è un immenso punto interrogativo), ma soprattutto l’atteggiamento degli imprenditori che debbono aprire i bilanci e denunciare per tempo la loro situazione critica. La legge incentiva una operazione trasparenza, ma l’emersione dagli abissi del lavoro nero è un processo lungo e complicato.
Ciò non è vero solo in Italia. La Spagna ha introdotto una legge che consente di ristrutturare i debiti delle aziende. In Germania è diventato più facile trasformarli in azioni, ciò porta molte imprese sotto il controllo delle banche. Questa, del resto, è la tradizione del Modell Deutschland. Il limite è che nessuna delle nuove leggi va davvero fino in fondo. Anche perché ci vuole una rivoluzione culturale. Gli imprenditori italiani ed europei saranno in grado di fare il salto? E la tradizione giuridica? La classe politica? L’amministrazione pubblica abbarbicata al suo inattaccabile statalismo bismarckiano?
Lo scorso autunno, l’Istituto Bruno Leoni, roccaforte della pattuglia liberista italiana, ha dedicato il suo annuale seminario “Ludwig von Mises”, proprio al fallimento. Un rovesciamento del senso comune, una boccata di pensiero non asservito al paradigma mediatico dominante. Bancarotta: sanzione dei comportamenti passati e premessa per quelli futuri. Fallire, fallire ancora, fallire meglio, come scriveva Beckett. Ospite d’onore il filosofo Kenneth Minogue, professore alla London School of Economics, del quale l’Ibl ha pubblicato anche “La mente servile”, ideale sequel del saggio “La mente liberal” (cioè progressista). La sua idea di responsabilità individuale lo avvicina più a Locke che a Leibniz, più agli inglesi che agli americani e lo indurrebbe a considerare il Chapter 11 una sorta di pasticcio rooseveltiano. Ma se la libertà di fallire introduce un soffio di aria pura nella mefitica atmosfera dei salvataggi di stato, favorire la possibilità di ricominciare, significa valorizzare lo spirito di intrapresa che è al centro del progresso e della modernizzazione, anche come la intende un liberale alla Minogue.
E qui possiamo tornare al capolavoro di Thomas Mann. La decadenza dei Buddenbrook coincide con l’esaurirsi del loro spirito, della voglia di innovare, di intraprendere. L’essiccarsi della volontà. Il giovane scrittore era sotto l’influsso di Arthur Schopenhauer. Ma il suo romanzo in fondo diventa il modello per le riflessioni del pensatore austriaco Joseph Alois Schumpeter. L’ossessione di Tony che la porta a rompere il ménage con Bendix Grünlich e a temere che anche la sua famiglia finisca come il marito, non si basa tanto sui risultati economici della ditta di Lubecca, bensì sulla debolezza di Thomas, l’erede, sull’esaurirsi dell’energia vitale che porta a considerare una sconfitta una catastrofe: “Nell’anima sua egli sentiva il vuoto, e non scorgeva progetti appassionanti e lavori avvincenti ai quali consacrarsi con gioia e soddisfazione”. Di fronte a questo impulso, non c’è legge che tenga. Del resto non spetta alla legge sostituirsi all’individuo; semmai deve favorire le scelte responsabili. Evviva la bancarotta, per chi ha voglia di ricominciare.
Il Foglio sportivo - in corpore sano