Malagiustizia nell'officina liberal
Fino a quando la democrazia italiana potrà ritenersi di “qualità”, in presenza di una giustizia sempre più “inefficiente”, oltremodo “politicizzata”, perennemente disposta a reclamare “indipendenza” ma che non assicura nemmeno controlli al suo interno? La domanda, così formulata, non è posta dall’ultimo dei circoli del Pdl, né da qualche scheggia impazzita del movimento libertario, ma emerge da un pensoso saggio appena pubblicato dal Mulino, “La qualità della democrazia in Italia”.
Fino a quando la democrazia italiana potrà ritenersi di “qualità”, in presenza di una giustizia sempre più “inefficiente”, oltremodo “politicizzata”, perennemente disposta a reclamare “indipendenza” ma che non assicura nemmeno controlli al suo interno? La domanda, così formulata, non è posta dall’ultimo dei circoli del Pdl, né da qualche scheggia impazzita del movimento libertario, ma emerge da un pensoso saggio appena pubblicato dal Mulino, “La qualità della democrazia in Italia”, frutto di “un lungo percorso di ricerca scientifica” coordinato da Leonardo Morlino (ordinario di Scienza politica alla Luiss e past president della International political science association), Daniela Piana (professore di Scienza politica all’Università di Bologna) e Francesco Raniolo (ordinario di Scienza politica all’Università della Calabria). Gli studiosi s’interrogano su uno dei temi più innovativi e affascinanti della ricerca politologica, la misurazione (anche quantitativa) della “qualità” delle nostre democrazie, considerando per “democrazia di qualità” quell’“assetto istituzionale stabile che attraverso istituzioni e meccanismi correttamente funzionanti realizza libertà ed eguaglianza dei cittadini”. Il “case study” è l’Italia dal 1992 al 2012, dunque non può mancare un capitolo dedicato alla magistratura.
Il saggio della professoressa Piana, scritto in linguaggio scientifico ma quanto mai esplicito, prende le mosse da “un apparente paradosso” dell’ordinamento giudiziario italiano: da una parte abbiamo “un sistema di governo della magistratura che ne massimizza così tanto le garanzie di indipendenza da essere considerato un modello di qualità”, dall’altra lo stesso ordinamento giudiziario “presenta livelli di efficienza e fiducia non in linea con gli standard internazionali di rule of law”. Meglio rileggere: “Non in linea con gli standard internazionali di rule of law”, dove “rule of law” è il sinonimo anglosassone di quello che chiamiamo “stato di diritto”. Infatti “sul piano oggettivo le evidenze di cui disponiamo segnalano due problemi reali, il primo relativo alla lentezza dei processi e il secondo relativo alla fiducia comparativamente bassa (rispetto all’area Ocse) dei cittadini”. L’autrice passa poi a elencare una messe di dati, tra cui quelli della Inter-American Development Bank, elaborati assieme all’Onu, che segnalano “una inflessione della indipendenza della magistratura dal 2002 al 2010 (dal 4,50 al 3,10)” e “una diminuzione della efficienza del sistema giuridico in particolare a partire dal 2006 (da 4,20 a 2,50)”. Al netto della retorica, quindi, centrodestra e centrosinistra pari sono: chiunque sia al governo, la performance dei tribunali peggiora. Il nostro resta “l’ultimo dei paesi Ocse per capacità di esecuzione dei contratti con uno scarto di 158 a 1 con il primo della graduatoria, il Lussemburgo”. Se non credete ai sondaggi, è il ragionamento della politologa di Bologna, allora guardate le “sentenze della Corte di giustizia per i diritti dell’uomo che stabiliscono l’esistenza di una violazione commessa dallo stato italiano contro il diritto a un giusto processo”. Il nostro primato in quanto a condanne ricevute dalla giustizia europea (non solo comunitaria) è indiscusso, i Radicali per primi non si stancano di ripeterlo. Il problema non sono i politici, e nemmeno i fondi a disposizione – questa la parte più originale del saggio – ma l’atteggiamento stesso dei giudici, caratterizzato da un mix di impunità, mediatizzazione estrema e politicizzazione senza simili nel mondo occidentale.
Le risorse allocate nel settore della giustizia italiana sono infatti in linea con gli altri stati europei, scrive la politologa Piana, quindi i problemi di efficienza e scarsa fiducia riscossa dalla magistratura nascono altrove. Primo: come dimostra la gestione di personale e budget delle dotazioni di uffici giudiziari, “formalmente nelle mani del ministero della Giustizia, di fatto nelle mani di quattro dipartimenti specializzati del ministero (in cui in larga misura lavorano magistrati distaccati presso il ministero)”, o anche la “progressiva espansione delle prerogative che fanno capo al Consiglio superiore della magistratura”, il problema di fondo è che “il sistema di governo della magistratura non alloca incentivi e sanzioni, vincoli e opportunità, tenendo conto delle reali situazioni di azione nelle quali i governati si trovano nel quotidiano”. Ancora: “La magistratura italiana soffre di uno sbilanciamento eccessivo in favore dell’indipendenza, senza che ad essa corrispondano meccanismi di controllo organizzativo interno”. Dietro la tanto invocata indipendenza, dunque, si celano una gestione troppo lasca delle risorse, una scarsa “accountability” del personale rispetto al proprio operato e quindi “una efficienza relativamente bassa”.
Tuttavia alla voce “cause strutturali” della malagiustizia italiana, per gli studiosi del Mulino, rientra anche un altro fattore (che molto ha a che fare con gli eventi di cronaca di queste ore): “Il punto di criticità maggiore della giustizia penale italiana – scrive Piana – è, tutto ciò nonostante, la visibilità mediatica e la personalizzazione”. Seguono nomi e cognomi, o quasi: “Soprattutto nelle grandi procure, come quella di Milano, di Roma, di Napoli, di Palermo, l’esposizione dei sostituti procuratori a cui sono assegnati fascicoli politicamente salienti perché coinvolgono esponenti della classe politica, l’altissima eco creata dai quotidiani e dai programmi televisivi di inchiesta e l’assoluta difficoltà a impedire che i risultati spesso parziali delle indagini preliminari siano diffusi presso l’opinione pubblica, rendono una immagine della magistratura particolarmente attivista”. Nelle conclusioni del libro, Piana e Raniolo – sulla scorta dell’esperienza del governo tecnico di Monti – descrivono l’anomalia di “una struttura istituzionale a chiasmo: politicizzazione delle istituzioni apolitiche e depoliticizzazione delle istituzioni politiche”. Uno squilibrio dovuto certo alla debolezza attuale dei protagonisti della rappresentanza democratica, scrivono, ma “indipendente dal fattore Berlusconi”, come dimostra per esempio il recente scontro tra procura di Palermo e Quirinale. Quest’anomalia, però, si paga cara in termini di consensi tra i cittadini: “Una democrazia nella quale la funzione giudiziaria si trova ad avere un’agenda estremamente ampia e un raggio di azione che lambisce i limiti della politica – scrive Piana – non può non rischiare di perdere in legittimità”. Fuor di gergo politologico, il magistrato che fa politica non si aspetti di essere allo stesso tempo riverito come un baluardo della democrazia. Anzi.
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