La regina delle farfalle

Annalena Benini

Quando Francis Scott Fitzgerald, luogotenente di fanteria e aspirante scrittore, regalò le sue mostrine a Zelda Sayre, dopo una sera trascorsa a Montgomery a ballare e flirtare (le occupazioni preferite di Zelda, diciassette anni assai compiuti), lei le mise dentro una scatola per guanti, insieme a decine di altre. Tutti i luogotenenti, i sottufficiali e gli studenti che passavano da Montgomery, Alabama, nel 1918, si innamoravano di Zelda, dei suoi capelli biondi e del suo sguardo blu, di quell’aria pigra che hanno le donne belle quando sanno di non dovere fare nulla per essere rincorse. Lei a volte li baciava, spesso li prendeva in giro, ma li usava per specchiarsi, per ridere di loro, per esistere. “Non c’è molto altro oltre che bere e amoreggiare”, diceva.

    Quando Francis Scott Fitzgerald, luogotenente di fanteria e aspirante scrittore, regalò le sue mostrine a Zelda Sayre, dopo una sera trascorsa a Montgomery a ballare e flirtare (le occupazioni preferite di Zelda, diciassette anni assai compiuti), lei le mise dentro una scatola per guanti, insieme a decine di altre. Tutti i luogotenenti, i sottufficiali e gli studenti che passavano da Montgomery, Alabama, nel 1918, si innamoravano di Zelda, dei suoi capelli biondi e del suo sguardo blu, di quell’aria pigra che hanno le donne belle quando sanno di non dovere fare nulla per essere rincorse. Lei a volte li baciava, spesso li prendeva in giro, ma li usava per specchiarsi, per ridere di loro, per esistere. “Non c’è molto altro oltre che bere e amoreggiare”, diceva. Era la spuma sulle onde, la ragazza che scappava dalla finestra, brava a ballare, brava a nuotare, brava a dire cose sconvenienti e a fare tutto quello che le pareva, un po’ prima delle altre, e con più eco. Una ribelle, ma mai fino al punto di cercare un lavoro. Come per le falene attirate dalla luce, Zelda aveva il talento e la precisa intenzione di diventare luce e attirare gli sguardi di chi le passava accanto. Ernest Hemingway la detestava, odiava quegli occhi splendenti che lei gli ficcava in faccia, e la ritenne la rovina del grande scrittore con cui si sentiva in gara: “Il povero Scott Fitzgerald” (lo chiamò ne “Le nevi del Kilimangiaro”, nel 1936, e c’è un telegramma di Fitzgerald, pubblicato dalla figlia Scottie in un libro, “The Romantic Egoists” fatto di appunti, lettere, fotografie e note spese dei genitori, che fa così: “E’ una bella storia – una delle tue migliori – ma ti prego di togliere il mio nome, non voglio amici che pregano a voce alta sopra il mio cadavere. Tuo amico per sempre, Scott”, ma l’amico Hemingway non tolse mai quel “povero Scott”). Zelda Sayre, sposata a New York nel 1920, non fu la rovina di Scott Fitzgerald, fu invece la sua luce azzurra, il sogno già infranto verso cui tendere le braccia, e gli permise, con quella “fiamma più intensa di quanto io l’abbia mai avuta” che li bruciava entrambi, di diventare lo scrittore delle illusioni perdute. Perché fu lei stessa un’illusione. Di continua leggerezza, bellezza e meraviglia, anche quando quella meraviglia cadeva nella disperazione e nell’incapacità di vivere e di crescere una figlia (“Eppure, Zelda, non daresti qualsiasi cosa, per tornare indietro, all’inizio, per essere di nuovo come allora e avere davanti un futuro così promettente che pare impossibile non farlo andare per il verso giusto?”, scrisse Scott a Zelda, ricoverata per sua volontà nell’ultima clinica psichiatrica, quella che andò a fuoco: lui aveva un’altra donna accanto, una vita tranquilla, un po’ di fama e molto fallimento, ma tendeva ancora le braccia verso di lei, la sua età dell’oro finita in un manicomio di lusso).

    Si ama di slancio Zelda Fitzgerald, anche a un secolo di distanza, anche dopo avere letto il suo non memorabile romanzo “Lasciami l’ultimo valzer”, anche dopo avere visto le foto di lei, trentenne in tutù, presa dall’ossessione per la danza classica, convinta di essere una grande ballerina, oppure una grande pittrice, oppure una gran signora bisognosa di un nuovo viaggio in Francia, di un altro cappello, di un nuovo spasimante. La si ama perché si inventò la vita e poi l’abbandonò, si adattò a essere l’ispirazione per un altro, e continuò a esserlo per sempre. Sacrificò tutto all’idea di un personaggio letterario. E per questo la fatuità esibita, le crisi di nervi, l’incapacità di trovare una sua vera strada o anche solo di restare accanto alla figlia diventano i dettagli epici della grandiosità di un fallimento, grandioso almeno quanto l’età dell’oro in cui a New York ballavano tutti, come scrive Fitzgerald. Tiziana Lo Porto, insieme con Daniele Marotta, ha scritto per minimumfax “Superzelda, la vita disegnata di Zelda Fitzgerald”, bello e accurato, adesso pubblicato anche in America, dove Zelda è disegnata e raccontata come la supereroina delle farfalle, teorizzatrice della guerra alla noia (“voglio sposare Scott perché i mariti spesso sono troppo mariti e io ho bisogno di sposare un amante”), protagonista dell’impresa eccezionale di non essere mai normale, così adatta al ruolo di illusione perduta che davvero non importa se alla fine Zelda abbia perso tutta la lucentezza del vivere, e sia tornata ad abitare con la madre, giorni interi seduta sotto il portico, e poi di nuovo in clinica, e poi l’incendio: aveva quarantotto anni e la riconobbero da una pantofola non del tutto carbonizzata. Da una pantofola! Avrebbe odiato che si sapesse che una farfalla indossava pantofole, e forse anche per questo preferiva scrivere, da lontano, le lettere in cui poteva mettere tutto il suo mondo immaginario: “Goofy, tesoro mio, non è stata una giornata deliziosa? Mi sono svegliata stamani e il sole era posato sul mio tavolo come un pacchetto di compleanno, così l’ho aperto e tante cose felici sono uscite svolazzando nell’aria”. Era già in clinica, e nelle cliniche si fa una passeggiata in giardino e si prendono pasticche, si viene visitati dai dottori, si indossano abiti comodi e brutti, senza piume, e non si va a feste fino all’alba, ma Zelda era la regina anche delle bugie, capace di costruire ovunque un regno meraviglioso e segreto, un ballo a cui lei sola era invitata. Teneva tutti a distanza, così poteva non smettere di essere un chiaro di luna (“tu sei stata la più bella, cara, tenera, splendida persona che ho mai conosciuto, ma dir questo è ancora dir poco”, la ringraziava Scott, finalmente lontano da lei, dalla fiamma che brucia, finalmente libero e quindi molto più disperato).

    I capricci di Zelda, tutti quei bicchieri di gin e quelle stanze d’albergo sfasciate dalle feste e dalle liti furono insieme la spuma sopra le onde e la realtà profonda di una vita immaginata e vissuta per essere scritta. Zelda l’aveva già deciso: “Tra cento anni magari i giovani si chiederanno se avevo gli occhi azzurri o marroni. Naturalmente, non sono né l’uno né l’altro”, e Scott, del resto, si presentò a Zelda a quel primo ballo dicendole che le avrebbe mandato il primo capitolo del suo primo romanzo (nessuno ancora l’aveva pubblicato), “così potrà dire di essere stata tra le prime a leggere il fenomenale libro di Francis Scott Fitzgerald”. Erano in Alabama, avevano pochi anni e il bisogno assillante che il mondo li celebrasse. Lei era perfetta per lui, perché tutti la volevano e perché non aveva fatto altro che ballare e farsi corteggiare fino ad allora, perché era abituata ai desideri esauditi. La deliziosa incarnazione di un’illusione, e dell’attrazione di Fitzgerald per il luccichio delle cose lontane, come era, allora, il sogno di diventare uno scrittore importante. Lui doveva diventare famoso per conquistare lei, e doveva conquistare lei per diventare famoso. E perché era impossibile non amare pazzamente la regina delle farfalle. “Sei affascinante. E bella – e sbrini il frigo almeno una volta alla settimana, almeno credo”, disse lui in un’intervista del 1923, quando erano già una coppia alla moda, quando la pettinatura di Zelda era la pettinatura delle ragazze spudorate di New York e tutte volevano essere la protagonista di “Di qua dal paradiso” (ma la protagonista era solo Zelda: quel libro era stato terminato e pubblicato per convincere il padre a dare il permesso al matrimonio), quando tutti li invitavano alle feste e Zelda, ventitré anni, rispondeva così al marito che le chiedeva: “Come dovrebbe essere la tua giornata ideale?” (lui adorava ascoltarla parlare di frivolezze), “pesche a colazione, sarebbe un buon inizio, no? Poi golf. Poi una nuotata. Poi oziare e basta. Senza mangiare, né leggere, soltanto starmene tranquilla ad ascoltare suoni piacevoli – e non il silenzio assoluto. Il pomeriggio? Ritrovarmi con amici e gente brillante, mi sa”. “Che cosa faresti se dovessi guadagnarti da vivere?”, le chiedeva di nuovo Scott, al massimo dell’orgoglio e del compiacimento, estasiato dallo sfarfallio di Zelda. “Ho studiato danza. Cercherei un posto come ballerina alle Follies. O proverei col cinema. Se non dovessi riuscire, proverei a scrivere”. Lui intervistava lei, l’ammirava, l’amava, la trasfigurava nel personaggio di ogni suo romanzo e intanto si specchiava in quell’allegria sempre un po’ forzata, e nella vita facile che lui non aveva avuto, ma aveva a lungo desiderato e infine raggiunto (il sogno americano, la giovinezza, la libertà, la bellezza: tutto era racchiuso nel viso pieno di cose splendenti di Zelda Fitzgerlad e nei suoi passi di danza). Lei era lì, adesso, così vicina da poterla toccare, così brillante e ciarliera e aggraziata da farlo sembrare un grande uomo. Come ha scritto Pietro Citati in un libro di qualche anno fa intitolato proprio “La morte della farfalla” (Mondadori), dedicato ai due romantici egoisti, come li chiamava la figlia Scottie, “erano la stessa persona, con due cuori e due teste; e questi cuori e queste teste si volgevano appassionatamente l’una verso l’altro, l’uno contro l’altro, fino ad ardere in un unico rogo”.

    Jay Gatsby era diventato ricco per riconquistare Daisy, e Fitzgerald era diventato Fitzgerald per sposare Zelda, il suo primo sogno, arrivato contemporaneamente al sogno di scrivere un grande romanzo. Lo poteva fare solo con lei accanto, che disegnava i personaggi, lo ascoltava leggere i capitoli, si lasciava saccheggiare i diari e le lettere, gli dava dolore e lo faceva infuriare. Lei era come un ornamento, come un incendio, come una condanna alla malinconia e alla musica delle cose perdute: perdute come la loro felicità. Ma a Zelda piaceva che lui diventasse triste a causa sua: “Sei così dolce quando sei malinconico. Amo la tua triste tenerezza – quando ti ho ferito”. La prima volta che lo ferì, fu forse per sbaglio, ma forse no. Fitzgerald non aveva ancora conquistato il suo sogno, il diritto a sposare Zelda in quanto scrittore ben pagato, e lei andava in giro per tornei di golf, e flirtava come sempre. Un giovane campione le regalò il suo distintivo, come pegno amoroso, come le mostrine che le regalavano i luogotenenti e che lei metteva nella scatola dei guanti. Lo diceva sempre e lo scriveva anche a Scott (“tutto quello che voglio è essere sempre molto giovane e irresponsabile e sentire che la mia vita è mia soltanto. Vivere ed essere felice e morire in un modo mio per far piacere a me stessa”), quindi non doveva sentirsi in colpa di un flirt con un campione di golf. Invece Zelda si pentì e pensò a Scott lontano, in qualche topaia a riscrivere il suo romanzo, e a mandarle regali bellissimi: un ventaglio di piume, un pigiama di seta e costosi telegrammi d’amore (“Questo mondo è un gioco, e finché mi sento sicuro di te amore tutto è possibile. Sono nella terra dell’ambizione e del successo e la mia sola speranza e fiducia è che il mio cuore adorato sarà presto con me”). Così decise di rispedire indietro il distintivo, con qualche spiegazione sentimentale e gentile che rendesse affascinante anche un rifiuto, ma contemporaneamente scrisse una delle sue magnifiche lettere d’amore a Scott, lettere capolavoro, le lettere di una farfalla. E sbagliò, oppure lo fece apposta, a infilare i fogli nelle buste. Così Scott ricevette la lettera e il distintivo destinati al campione di golf, e il campione di golf la lettera d’amore (che gentilmente rispedì al vero destinatario). Fitzgerald, racconta Citati, impazzì di gelosia, si ubriacò per settimane, la lasciò, poi la implorò di sposarlo, prese il primo treno per Montgomery e si ubriacò di nuovo con lei, piangendo e baciandola. Avevano entrambi bisogno del dramma, per sentirsi davvero speciali, per essere i personaggi di un romanzo: come quando Zelda gettò dal treno l’orologio di platino che Scott le aveva regalato, come quando piangeva fortissimo perché lui le aveva detto che in fondo il suo collo non era così lungo, come quando lei si tuffava dagli scogli e non riemergeva mai per spaventarlo. Non voleva fare spazio alla realtà misera delle cose, alla banalità di una casa o di un tradimento, così quando arrivò a New York, dove non era più la reginetta di bellezza di Montgomery, e dove Scott stava diventando importante e corteggiato, perché le donne volevano incontrare e baciare sulla bocca quest’uomo malinconico, Zelda si tuffò nella fontana di Union Square, di notte, davanti a tutti, e decise che Fitzgerald sarebbe stato per sempre anche il suo nome, e avrebbe dovuto evocare cose folli e meravigliose, sospiri di invidia e desiderio di emulazione. “Non voglio tornare in Alabama”, gli disse una delle prime notti a New York, “però tu non dimenticare mai quello che mi hai detto”. “Che cosa ti ho detto?”, “che hai fatto tutto questo solo per avere me”. Daisy di Gatsby, a questo punto, ricevuta la carezza sulla propria vanità, si sarebbe sentita appagata e non le sarebbe importato più di nulla. La differenza con Zelda, adesso che Gatsby torna al cinema ancora più luccicante, è questa: Zelda fu un’illusione, ma un’illusione vera, non fasulla. Sacrificò la sua vita, senza nemmeno dirlo, senza farsene un cruccio, al sogno di grandezza di lui. Gli diede il materiale di cui lui aveva bisogno, cioè se stessa, oltre a un amore smisurato che non finì mai, e gli diede la cognizione del dolore. “Come sempre, anche oggi mi sento più vicino a lei che a qualunque altro essere umano”, scriveva Fitzgerald anche dopo essersi allontanato da lei, che docilmente aveva scelto di starsene in una città fantasma e lasciare liberi tutti di continuare a vivere a modo loro. Diceva di volere pensare soltanto a sé e alle sue gambe lisce, ai suoi bei capelli, invece pensò sempre a lui, anche quando fingeva di combatterlo per affermare la sua identità, anche quando le veniva l’eczema in tutto il corpo perché Time Magazine definiva i suoi quadri “il lavoro di una moglie” e il suo romanzo “un curioso pasticcio”. La regina delle farfalle era afflitta dalla pesantezza del vivere, da fallimenti sempre nuovi, dall’impossibilità di splendere ancora. In una delle prime lettere gli aveva scritto: “Non voglio che tu mi veda diventare vecchia e brutta. So che tu sarai un bel vecchio romantico e sognatore e io probabilmente sarò troppo prosaica e piena di rughe. Noi dobbiamo assolutamente morire a trent’anni”. Le cose andarono diversamente, e la vita non fu mai più quella che avevano sognato,“non riusciamo più a essere noi, ma dove siamo finiti? perché è tanto difficile trovarci?”. Quando Fitzgerald le mandò per i suoi quarant’anni in clinica una grossa scatola di dalie e gladioli, Zelda gli scrisse: “Grazie per avermi salvato. Un giorno ti salverò anch’io”. La regina delle farfalle aveva capito e accettato con generosità che in fondo la vera farfalla era stata, sempre e soltanto, lui.

    • Annalena Benini
    • Annalena Benini, nata a Ferrara nel 1975, vive a Roma. Giornalista e scrittrice, è al Foglio dal 2001 e scrive di cultura, persone, storie. Dirige Review, la rivista mensile del Foglio. La rubrica di libri Lettere rubate esce ogni sabato, l’inserto Il Figlio esce ogni venerdì ed è anche un podcast. Ha scritto e condotto il programma tivù “Romanzo italiano” per Rai3. Il suo ultimo libro è “I racconti delle donne”. E’ sposata e ha due figli.