Bienvenue monsieur le fogliò
E’ cortese, affabile ma un po’ algido. Più che un giornalista liberale sembra un intellò de la rive gauche. Da ieri Nicolas Beytout è anche un uomo soddisfatto: “Siamo molto contenti, siamo stati accolti bene”, dice al Foglio il direttore, fondatore e principale azionista dell’Opinion, quotidiano nella doppia veste web e cartacea, dodici pagine questo primo numero di cui quattro di pubblicità, prodotti di lusso, automobili e servizi finanziari, i soli che tirano. Al prezzo di 1 euro e 50, è il primo che si riaffaccia nelle edicole da venti anni a questa parte, che hanno visto fiorire solo i periodici specialistici e i gratuiti: per i magri tempi che corrono, è più che una avventura, è una sfida.
E’ cortese, affabile ma un po’ algido. Più che un giornalista liberale sembra un intellò de la rive gauche. Da ieri Nicolas Beytout è anche un uomo soddisfatto: “Siamo molto contenti, siamo stati accolti bene”, dice al Foglio il direttore, fondatore e principale azionista dell’Opinion, quotidiano nella doppia veste web e cartacea, dodici pagine questo primo numero di cui quattro di pubblicità, prodotti di lusso, automobili e servizi finanziari, i soli che tirano. Al prezzo di 1 euro e 50, è il primo che si riaffaccia nelle edicole da venti anni a questa parte, che hanno visto fiorire solo i periodici specialistici e i gratuiti: per i magri tempi che corrono, è più che una avventura, è una sfida. Dodici a quindici milioni di capitale, quaranta giornalisti, fra cui qualche autorevole firma, tre anni per raggiungere il punto di equilibrio e generare profitti: tre anni per imporsi come quotidiano di nicchia ma di gamma alta, europeista, attento alla bussines community, portatore di idee liberali in un paese che in una maniera o nell’altra ha sempre diffidato del liberalismo. “Come modelli ci siamo ispirati all’americano Politico, mix riuscito fra carta e Internet, al murdochiano Times perché fa pagare gli accessi al sito e al vostro Foglio, che ha dimostrato che si possono fare battaglie importanti anche con poche pagine”.
Malgrado i 57 anni e una vita passata nei giornali, è emozionato: “E’ la prima volta da solo, da azionista di riferimento tra compagni di viaggio che hanno pagato un ticket d’ingresso nel capitale senza raggiungere la minoranza di blocco”. E’, sembra di capire, un che di liberatorio, le interminabili battaglie combattute su due fronti contro la prepotenza proprietaria e la resistenza umbratile di redazioni fin troppo attente a non farsi mettere la mordacchia, lo hanno sfiancato. In fondo i quindici anni in cui è stato direttore della redazione, prima dal 1996 al 2004 a Les Echos e poi, dal 2004 al 2007, al Figaro , possono essere riassunti in una lunga catena di inevitabili incomprensioni ed equivoci. Il giorno del novembre del 2007 in cui presenta a Serge Dassault le dimissioni da direttore del Figaro e gli chiede se almeno gli fosse piaciuto il giornale che aveva fatto, il vecchio patriarca rispose “proprio no, niente affatto”. D’estate quando Dassault era in vacanza e aveva il tempo di leggere il suo quotidiano dalla prima all’ultima pagina, faceva telefonate ogni dieci minuti per rampognare, spiegare come si fa un giornale conservatore e soprattutto come si deve parlare o non parlare dei nuovi Rafale, i caccia da combattimento che Dassault vende poco e male. Nemmeno le rampogne padronali sono servite a spingere definitivamente dalla sua parte i giornalisti, come si sa sempre lesti a frignare e a sbraitare contro il direttore che non è abbastanza parafulmine. E poi ci si mette in mezzo la politica, Beytout troppo vicino a Sarkozy, il sostenitore sfegatato, quello culo e camicia al punto di essere stato inserito nella lista molto esclusiva dei cinquantacinque invitati al Fouquet’s per festeggiare la vittoria, ma che ci volete fare se si conoscono da una vita, vengono dalla stessa città della banlieue chic parigina, Neuilly sur Seine, hanno idee simili su tante cose e figli che giocano a tennis insieme.
La verità è che Beytout suscita anzitutto invidia: perché per dirla con il Catalano di Indietro tutta, è meglio essere alto, elegante, capace, intelligente e molto ricco piuttosto che scarrafone, povero e magari pure coglione. Nicolas Beytout non ha colpa se il nonno paterno si chiama Pierre, è presidente dei Laboratori farmaceutici Roussel e in uno dei suoi viaggi in Africa, a Dakar, incontra una tale Jacqueline, vedova di un ricchissimo commerciante danese di arachidi e se la sposa. E non ha nemmeno colpa se questa seconda moglie del nonno non è una qualunque ma ha la tempra della grande donna d’affari, sarà la più austera, inflessibile e determinata imprenditrice editoriale e si imporrà al tout Paris come “ la mère Beytout”. Che nel 1963 sfruttando la rivalità tra due rami della famiglia fondatrice, i Servan-Schreiber, entra nel capitale di Les Echos, nel 1966 lo prende in mano definitivamente e comincia a dirigerlo facendone il più importante quotidiano economico francese e uno dei più autorevoli sul piano internazionale. Un quotidiano padronale ma senza Confindustria, senza Cnpf così si chiamava prima di ribattezzarsi Medef e soprattutto senza nessuno addaosso addosso: Jacqueline Beytout crede che la stampa debba essere industrialmente forte, finanziariamente potente in modo da poter resistere alle pressioni degli altri interessi costituiti, economici e politici: la pensa un po’ come la grande Katherine Graham, nume tutelare del gruppo del Washington Post. Appena Nicolas si diploma all’Istituto di studi politici di Parigi, Jacqueline lo mette a bottega, lo forma, ne segue la carriera. Nicolas ci tiene però a precisare che sì dalla seconda moglie del nonno ha imparato tanto ma l’essenziale della sua carriera di direttore l’ha fatta con gli inglesi. Ovvero con il gruppo Pearson, quello del Financial Times, cui nel 1989, raggiunti i settanta anni di età, la terribile Jacqueline vende tutto. E’ preoccupata per i troppi pretendenti Michelin, Havas, Hachett-Filipacchi che le ronzano attorno, teme che l’erede Nicolas possa essere costretto a vendere e magari a svendere per pagare una tassa di successione di oltre il 50 per cento: così vende tutto per un miliardo di franchi.
Dalla nonna, Nicolas Beytout ha ereditato la cospicua fortuna ma non l’estensione del talento imprenditoriale. Gli avrebbe fatto comodo ad esempio nei suoi rapporti con Bernard Arnault: il boss di LVMH leader mondiale dell’industria del lusso lo chiama nel 2007 per occuparsi del polo media del gruppo, di cui fa parte anche Les Echos ricomprata agli inglesi. Come Beytout anche Arnault è amico di Sarkozy, c’erano dunque le condizioni per una lunga reciproca storia d’amore, per un terzetto parigino. E’ andata diversamente: Sarko è crollato, Arnault ha divorziato da Beytout. Che ora è in attesa che si chiarisca la battaglia per il candidato presidente di destra del 2017: sarà Fillon o Copé? Nell’attesa il buon Nicolas ripercorre le orme della nonna, ma tenendosi in una nicchia, un po’ Politico, un po’ le Fogliò.
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