Il cantiere della violenza
Il poliziotto nel cantiere è incazzato. “Se fai le foto diccelo, che ci spostiamo”. Non vuole apparire nell’inquadratura. E’ stato un caso, ha girato l’angolo di un trailer al momento sbagliato ed è finito davanti all’obiettivo della macchina. Gli altri agenti arretrano. Nemmeno gli operai vogliono essere fotografati. “I traditori, i crumiri” (metà di loro è della valle). Niente volti, soltanto foto di spalle o da molto lontano per non essere riconosciuti mentre sono al lavoro – mentre, cioè, stanno aprendo un cunicolo geognostico in una piega della Val di Susa per capire se la ferrovia Torino-Lione può passare di lì. E nemmeno i soldati vogliono foto, mentre salgono lemmi lemmi i tre tornanti e sguazzano con cautela nella mota, a gruppi di quattro e con gli zaini per darsi il cambio alle postazioni di guardia.
Madonna di Chiomonte, Val di Susa. Il poliziotto nel cantiere è incazzato. “Se fai le foto diccelo, che ci spostiamo”. Non vuole apparire nell’inquadratura. E’ stato un caso, ha girato l’angolo di un trailer al momento sbagliato ed è finito davanti all’obiettivo della macchina. Gli altri agenti arretrano. Nemmeno gli operai vogliono essere fotografati. “I traditori, i crumiri” (metà di loro è della valle). Niente volti, soltanto foto di spalle o da molto lontano per non essere riconosciuti mentre sono al lavoro – mentre, cioè, stanno aprendo un cunicolo geognostico in una piega della Val di Susa per capire se la ferrovia Torino-Lione può passare di lì. E nemmeno i soldati vogliono foto, mentre salgono lemmi lemmi i tre tornanti e sguazzano con cautela nella mota, a gruppi di quattro e con gli zaini per darsi il cambio alle postazioni di guardia. “Le forze di occupazione”. “Perché sai… – dice l’ingegnere mentre anche noi stiamo con i piedi piantati nel fango della primavera più piovosa di sempre – … con quello che è successo al camionista una settimana fa”.
Per entrare nel cantiere della linea Torino-Lione si prende l’autostrada che torna indietro da Oulx verso il fondovalle, in una galleria c’è una corsia sottratta al traffico normale; sterzata fra i coni verso destra, cancellata d’ingresso chiusa. La garitta è nascosta e ti osserva grazie a uno specchio, i militari hanno avuto in anticipo dalla questura e dalla compagnia il numero di targa dell’automobile. Teli neri per proteggere i movimenti interni dagli occhi all’esterno. Poliziotti e finanzieri sono attorno ai furgoni e dentro e fuori i trailer che li ospitano, “no, non servono per dormirci di notte. Stanno lì. Aspettano. Quando ci hanno attaccato sono usciti fuori”. Passa un veicolo: è un blindato Lince. Come ci siamo ridotti così? Perché i lavori preliminari di una linea ferroviaria hanno bisogno di precauzioni che stanno tra il derby ad alto rischio e la guerra messicana al crimine?
Martedì a notte fonda hanno tagliato la recinzione in un angolo poco sopra il parapetto che affaccia sull’imbocco del tunnel, con tre tronchesi – lasciati sul posto, per non dover spiegare perché ne hai uno nello zaino alle cinque del mattino in caso di fermo durante il viaggio di ritorno. Pochi minuti prima avevano chiuso il cancello con una catena antifurto da moto, per bloccare gli inseguitori. Hanno sparato bengala infilandoli in un paio di rudimentali puntatori, uno era legato a un ramo, un altro era un tubo di metallo, quello che poi è diventato il “mortaio”. Avevano almeno una maschera antigas per il fumo e i lacrimogeni. Avevano una torcia accesa, per dare fuoco più velocemente alle bottiglie molotov – è da imbranati stare lì chini con gli accendini Bic quando hai fretta. Hanno fatto cadere le bottiglie sui macchinari vicino all’ingresso della galleria. Una non è bruciata, per fissare il tessuto al collo della bottiglia avevano usato tre giri di fil di ferro, un lavoro fatto con acribia. Birra Moretti, 0,33 cl.
“Gente che viene da fuori”, è la risposta unanime a Chiomonte, un paese delizioso a mezzo chilometro da uno degli accessi al cantiere, nello sforzo costante di dividere la protesta legittima fatta di cene al sacco e gare podistiche attorno alle reti dai violenti che guastano le ragioni del movimento. “Chi manifesta qui lo fa guardando in faccia, quegli altri non sono di qui”. Però ieri, dopo che la procura di Torino ha detto: “Tentato omicidio”, il movimento No Tav è uscito sul suo sito con un comunicato assolutorio, che non fa più differenze tra violenti e non violenti e che minimizza il raid notturno: “La realtà è che non ci sono stati feriti e l’attacco è avvenuto alle cose e non alle persone. Un compressore annerito è l’unico ‘ferito’. Un po’ poco per giustificare un ‘tentato omicidio’ a meno che anche il compressore sia considerato un operaio del cantiere. Ribadiamo che tagliare le reti e colpire macchinari sono azioni non violente”. Un blog simpatizzante commenta così il salto operativo: “La lotta No Tav, sempre all’avanguardia rispetto al resto del paese, è oggi anche la prima realtà ad ampio spettro ad abbracciare, finalmente, il property damage (danneggiamento, attacco alla proprietà) come efficace strategia di lotta, inserendosi in un percorso che, a voler avere una visione globale, affonda le sue radici nei fatti di Seattle e nella pratica della green anarchy”. Invece un operaio che quattro giorni fa c’era commenta così: “Stavamo lavorando al turno di notte, il tunnel si è riempito di fumo, le molotov sono cadute all’ingresso. La polizia ci ha messo venti minuti a intervenire, venti. L’idrante non funzionava, non so perché, forse una batteria scarica, abbiamo bagnato le maglie e ce le siamo messe davanti alla faccia per respirare” (non è stato sentito al cantiere, dove non c’erano accordi per fare interviste durante il sopralluogo, ma fuori). L’ingresso del tunnel è proprio sotto al parapetto da dove sono state lanciate le molotov, il motocompressore bruciato è ancora lì, a 5-6 metri dall’imbocco. Il raid non è stato così chirurgico. Eppure nel movimento non si aspettavano che la procura di Torino tirasse fuori il capo d’accusa più punitivo e rendesse così rischioso giocare alla guerriglia. A seconda delle circostanze, la differenza di pena tra il reato di danneggiamento e il tentato omicidio vale tra i sette e i dodici anni in più di carcere.
Giovedì scorso un operaio è uscito dal cancello che si immette sull’autostrada al volante di un’autocisterna, lo hanno attaccato in quattro, con i cappucci, hanno sfondato il finestrino a pietrate, lui s’è piegato sul sedile a destra e ha guidato via. Ora è a casa con tagli al volto e un trauma al torace. E’ dal febbraio 2012 che si sente minacciato. Una domenica mattina sua moglie ha trovato un biglietto sul parabrezza: “Sappiamo dove vivi” (Property damage?).
Novanta metri a perpendicolo sopra le nostre teste scorre il traffico merci sull’autostrada Torino-Bardonecchia a bordo dei Tir, sono migliaia ogni giorno ed è difficile non averne uno davanti e un altro dietro. Definire quel segmento di autostrada un’infrastruttura è riduttivo, è un capolavoro d’ingegneria, due corsie che escono e rientrano nel fianco della montagna e descrivono una accanto all’altra due curve che paiono infinite – novecento metri di raggio di curvatura costante – con campate a intervalli regolari di cento metri. E più in là c’è un ponte autostradale gemello, per risolvere un dislivello simile. Sono stati costruiti vent’anni fa, tra il 1987 e il 1992. Quaggiù, dove si lavora alla galleria come figurine di nani tra i piedi giganti dell’autostrada, oggi quei vent’anni fa sembrano un’epoca completamente differente.
Arriva l’estate, e come in ogni guerriglia di montagna si sta riaprendo la stagione degli scontri: questo primo cantiere della Torino-Lione è il bersaglio che magnetizza e attrae la voglia di menare le mani fino da molto lontano, da tutto il territorio nazionale (e ci saranno scossoni anche nella politica istituzionale. Il ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi, promette di portare in Consiglio dei ministri la conferma dell’impegno tra Italia e Francia sulla ferrovia, ma è una questione un po’ dura per un governo nato gracile). Ecco un’annotazione, da un esperto locale di violenza organizzata. Sulla Valsusa, il settimanale della valle, c’è l’intervista a Ugo Berga, un ex partigiano e commissario politico della 106esima brigata e ora accanito No Tav: “… Noi facevamo saltare ponti e strade, ma ci battevamo contro un potere illegale… esponenti No Tav giustificano o minimizzano gli episodi di violenza, che vanno condannati. Lo dico come uno che l’ha utilizzata, la violenza. Negli anni Quaranta serviva. Qui non serve”.
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