Tra memo e road map

Obama ci riprova: vuole chiudere Gitmo. Hillary gli ha dato una dritta

Paola Peduzzi

Barack Obama vuole riprovarci con Guantanamo: vuole chiuderlo. L’articolo di copertina di Newsweek, firmato da Daniel Klaidman, autore di un libro bellissimo sulla guerra al terrore di Obama, “Kill or Capture”, dice che il presidente terrà, al massimo entro un mese, un grande discorso su Guantanamo (e sui droni, vasto programma) con l’obiettivo di proporre una road map di chiusura del supercarcere di Cuba. Klaidman dice che da marzo il presidente ha ricominciato a organizzare incontri su Gitmo, dando vigore a un dossier scivolato dalle priorità con naturale indifferenza. Marzo è l’altroieri, a dire il vero.

    Barack Obama vuole riprovarci con Guantanamo: vuole chiuderlo. L’articolo di copertina di Newsweek, firmato da Daniel Klaidman, autore di un libro bellissimo sulla guerra al terrore di Obama, “Kill or Capture”, dice che il presidente terrà, al massimo entro un mese, un grande discorso su Guantanamo (e sui droni, vasto programma) con l’obiettivo di proporre una road map di chiusura del supercarcere di Cuba. Klaidman dice che da marzo il presidente ha ricominciato a organizzare incontri su Gitmo, dando vigore a un dossier scivolato dalle priorità con naturale indifferenza. Marzo è l’altroieri, a dire il vero: se si pensa all’idealismo coraggioso del discorso sullo stato dell’Unione e ai primi atti di governo per la chiusura del carcere, il “trouble” del presidente a vedere i detenuti in sciopero della fame nutriti a forza con l’Ensure tra mille pene (il più delle volte i detenuti vomitavano, e si doveva ricominciare da capo) suona parecchio opportunista. Ma la “Harry Potter theory of presidency”, come l’ha definita un ex della Casa Bianca parlando con Peter Baker del New York Times, s’è autoconsumata:  resta l’eredità presidenziale da gestire.

    Come già è capitato in passato, Hillary Clinton ha fornito a Obama una via d’uscita su Guantanamo (forse per non doversi ritrovare col fardello se mai dovesse candidarsi e vincere nel 2016): prima di lasciare il dipartimento di stato, a gennaio, ha fatto consegnare al presidente due paginette confidenziali per ricordargli di procedere con la chiusura del supercarcere. Gli consigliava di mettere una persona di peso a gestire il dossier, qualcuno vicino alla Casa Bianca, e di iniziare a trasferire gli 86 detenuti pronti per il rilascio: il Congresso ha posto molte restrizioni al potere di Obama di trasferire i detenuti, ma Hillary gli dice di utilizzare “eccezioni di sicurezza nazionale” per superare il Congresso.
    Non si sa che reazione abbia avuto il presidente alla vista del memo (si sa che a molti suoi collaboratori è venuto un colpo: Gitmo, ancora?), ma il team Obama è al lavoro per preparare un discorso con una via pratica per la chiusura. Ci saranno trasferimenti e rilasci, andranno avanti i processi che già ci sono, ma il punto giuridico da sciogliere resta quello originario, lo stesso che l’Amministrazione Bush risolse creando Gitmo, e che non ha a che fare con la struttura in sé, ma con l’extraterritorialità: un piccolo gruppo di detenuti, tra cui l’ideatore dell’11 settembre Khalid Sheikh Mohammed, non può essere processato dalle corti speciali militari (tantomeno ordinarie), perché le prove non possono essere rese pubbliche.

    Se questi “enemy combatant” arrivassero in territorio statunitense, che cosa accadrebbe? Si farebbe un’eccezione al diritto ad avere un processo? Si pubblicherebbero le prove? Entrambe le ipotesi sono piene di pericoli (oltre che anticostituzionali). Ma è su questo gruppo di detenuti che Obama dovrà dare una risposta. Dopodiché la chiusura di Guantanamo sarebbe ormai auspicata da tutti: una soluzione d’emergenza non sta più in piedi dopo dieci anni, come sa bene anche Obama, che sia spinto da motivazioni liberali e di difesa dei diritti civili o da mero opportunismo politico. Cosa che non sapremo mai, a meno che davvero non decida di “going Bulworth”, come va dicendo in privato ai suoi collaboratori. Bulworth è il protagonista di un film di e con Warren Beatty del 1998, un senatore che rischia tutto, carriera e vita personale, dicendo tutto quello che pensa realmente. Non accadrà, ma sarebbe bellissimo.

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi