Sognavamo Beckham

Beppe Di Corrado

E'  la fine dell'inizio del calcio contemporaneo. David Beckham chiude la sua èra, cioè questa. Si ritira dal calcio uno che è stato calciatore fino alla fine, a dispetto della letteratura che lo riguarda, del luogo comune che lo circonda, del pregiudizio che lo avvolge. “E' il momento giusto”: 38 anni, troppi per molti, non per lui. Finisce da vincente, perché lo è sempre stato: Manchester, Madrid, Los Angeles, Milano, Parigi. Una coppa in mano, bello, ricco, famoso, personaggio. Per qualcuno troppo bello, troppo ricco, troppo famoso, troppo personaggio. Beckham è nella storia del pallone: per quello che ha rappresentato come simbolo della modernità e però anche per quello che è stato tecnicamente.

    E’  la fine dell’inizio del calcio contemporaneo. David Beckham chiude la sua èra, cioè questa. Si ritira dal calcio uno che è stato calciatore fino alla fine, a dispetto della letteratura che lo riguarda, del luogo comune che lo circonda, del pregiudizio che lo avvolge. “E’ il momento giusto”: 38 anni, troppi per molti, non per lui. Finisce da vincente, perché lo è sempre stato: Manchester, Madrid, Los Angeles, Milano, Parigi. Una coppa in mano, bello, ricco, famoso, personaggio. Per qualcuno troppo bello, troppo ricco, troppo famoso, troppo personaggio.
    Beckham è nella storia del pallone: per quello che ha rappresentato come simbolo della modernità e però anche per quello che è stato tecnicamente. Chi l’ha ridotto a vip l’ha fatto per abbatterlo: lui non c’è stato, lui non ci sta. Chiedete agli allenatori. Ad Alex Ferguson, Fabio Capello, Carlo Ancelotti. Com’è David? Per loro non c’è l’immagine, non c’è il gossip, non c’è lo sponsor. C’era un piede che valeva per due, una testa, un carattere. C’era un’idea. C’era un uomo. David ha giocato, col capello sempre scolpito e col tatuaggio in mostra, ma ha giocato. Felice di vivere una vita da privilegiato e, a differenza di molti, consapevole di esserlo. S’è divertito. A Parigi, a gennaio, c’è andato gratis. Lui, simbolo del capitalismo pallonaro, simbolo del giocatore strapagato, ha scelto di fare l’ultimo pezzo di carriera regalando talento e tempo alla sua squadra, al suo mondo, al nostro mondo. Ogni altro giocatore del pianeta avrebbe avuto un monumento: santificato per la rinuncia, idolatrato per l’umanità.

    Beckham s’è sentito persino criticare. “E’ una scelta di marketing, nulla a che vedere con lo sport. E’ calcolo”. Ha vissuto l’intera carriera così, David. Col preconcetto disegnatogli su misura. Un gioco, mezzo mondo gli dovrà chiedere scusa: “Abbiamo sbagliato, non ti abbiamo capito”. Perché per vent’anni è stato trattato da figurina. Come se non fosse degno di giocare. Bastava quella definizione: “Uomo business”. Una mazzata sulla schiena. Già detto una volta, ma conviene ripetersi: l’hanno preso in giro, deriso, dileggiato. Hanno parlato della pettinatura, del tatuaggio, della nuova villa, della moglie. Sapevano tutto di tutto, ma non come giocava a pallone. Quel banale e vigliacco ritornello del ragazzo che ha fatto dell’apparenza uno stile di vita. David ha dovuto pagare, come se ci fosse qualcuno che avesse decretato il suo non essere all’altezza. Ha versato l’obolo all’invidia, ma non è bastato. Ne volevano ancora, ne volevano di più. Mai perdonato il suo modo d’essere l’ultimo degli dei del capitalismo, il simbolo della modernità che non sputa sui soldi, ma li pretende: io faccio, tu mi paghi; tu grazie a me guadagni di più, bene dammi una percentuale. David non ha preteso aumenti di ingaggi: glieli hanno dati spontaneamente. David non ha cercato il posto più ricco: gliel’hanno proposto. Ha lasciato Madrid perché lì non lo volevano più, così come lasciò Manchester perché non era più nei programmi del club. E’ arrivato a Los Angeles perché l’Europa s’è spaventata troppo della sua notorietà. Il Real lo voleva indietro, lui ha detto no: “M’avete scaricato voi, adesso io non torno più. Peccato”. Doveva sentirsi offeso David, invece s’è sentito tradito il pallone. Così l’America e la pretesa di addossargli la responsabilità del destino del soccer. Come se l’eventuale ennesimo fallimento del sistema calcio negli Stati Uniti dipendesse veramente da un solo giocatore. Lui è stato più furbo di come l’hanno dipinto e a Sports Illustrated disse: “Non sono uno sciocco, non ho la pretesa di cambiare la cultura sportiva degli americani, ma cercherò di portare la considerazione del calcio in questo paese a un livello più elevato”.

    Il suo viaggio negli Stati Uniti fu preso come una fuga. Come quelli che vanno a svernare in Qatar, negli Emirati Arabi Uniti. Però quelli non li accusa nessuno, David sì. Perché? Perché? Perché? Non ci sono risposte: nessuno ammette il pregiudizio. David ha nemici radical chic che non sopportano il suo successo planetario. Velino, gli hanno sempre detto. David è di più: volendo è pure peggio, è l’estensione massima della vita reality, con la differenza che a lui sta bene. David è coatto, tamarro, buzzurro, ma sa esserlo. Vive esagerato, indossa lo slip della moglie Victoria, si addobba con catene d’oro, però sa farlo. Cioè, qualcun altro farebbe ridere, lui no. Lui è il figlio di Sandra la parrucchiera e di Ted, l’aiutate di un installatore di gas. Lui è quello di Leytonstone, uno dei sobborghi dormitorio di Londra. Non se l’è mai dimenticato: il pallone l’ha reso uno da 70 mila euro al giorno guadagnati, però non l’ha trasformato nel ragazzo che si sente Dio. E’ questo quello che non va bene. Beckham non piace perché per i nostalgici della parabola non ha completato l’opera: doveva finire male, doveva diventare ubriaco come Best o cocainomane come Maradona. Doveva essere un problema sociale: l’esempio dell’antiesempio. Siccome invece lui si limita a vestirsi come se fosse uscito da un videogame, si permette di avere quattro figli e portarli a spasso, di presenziare alle sfilate di moda e di assentarsi per sette ore il giorno del suo matrimonio per scegliere le foto da vendere alla stampa, allora non va bene. Il guaio per i perbenisti del pallone è che i ragazzini vogliono imitarlo e nessuno gli può dire: “Guarda che David è un falso mito, dietro al suo successo c’è una persona infelice”.

    Beckham è felice. Ha una moglie ricca e famosa che lo asseconda e lo consiglia, un po’ gli rompe le scatole, ma alla fine lo aiuta sempre. Lui e lei insieme fanno soldi a ogni passo che muovono: il matrimonio, pubblicità, comparsate televisive, contratti di sponsorizzazione. Fanno affari pure con le crisi: quando venne fuori la storia di Rebecca Loos, l’amante spagnola di David, pareva tutto finito, si parlava già di un divorzio incredibile, di assegni mastodontici, di battaglie per l’affidamento dei figli. Niente: sono rimasti insieme e hanno cominciato a fatturare più di prima. Un’intervista, un’esclusiva, una battuta: “Victoria mi ha picchiato. Mi picchia sempre”. David farebbe invidia a qualunque amministratore delegato di una qualsiasi multinazionale: trasforma una potenziale fregatura, in un nuovo contratto. Trovalo uno così e trova pure una come Victoria che sa perfettamente di non valere molto senza il marito, sa che lui sa giocare a pallone, mentre lei cantava senza saperlo fare, e allora si mette in seconda fila, facendo sempre finta di essere in prima. E però non piacciono insieme. Nemmeno separati: sono sconvenienti per l’internazionale del pallone, pronta a osannare i finti umili, che dicono di giocare per la maglia e per il pubblico, per il cuore e per la passione, invece ogni mese chiedono al manager di andare a battere cassa dal presidente. David è un simbolo di massa, detestato dall’élite: l’Inghilterra lo adora, tanto da aver consentito che la sua gigantografia prendesse il posto di quella di Margaret Thatcher, alla National Portrait Gallery.

    Bisognava vederla Londra durante le Olimpiadi dello scorso anno. Aspettava Beckham. Sir David. Avrebbe dovuto giocare nella Nazionale britannica, quella con dentro inglesi, scozzesi, irlandesi, gallesi. Avrebbe dovuto essere il capitano. Invece no. Trombato per dispetto, per cattiveria, per gelosia. La più grande delusione della sua vita, fece sapere agli amici e a qualche giornale londinese. Ecco, la reazione? Silenzio. Rispetto. Perché Beckham non si sfoga in pubblico, non fa sceneggiate. E’ stato l’ultracalciatore, senza avere l’arroganza degli ultracalciatori. Per tutta la settimana precedente all’inaugurazione dei Giochi, l’Inghilterra spinse il comitato organizzatore a concedergli l’onore di essere l’ultimo tedoforo. Quello no, però Sir David è stato uno dei simboli di quella notte. Era lui quel signore in smoking sul motoscafo che volava sul Tamigi con la fiaccola olimpica accesa: lui sotto il Tower Bridge addobbato con i cinque cerchi, lui fermo col vento in faccia fino allo scambio della torcia con Steve Redgrave, un altro mito dello sport britannico, opposto a David nello stile, ma non nel risultato. A ogni immagine sui maxischermi dello stadio un boato. Perché Beckham è una faccia conosciuta in ogni angolo del pianeta. C’hanno fatto un film con l’idea di una ragazzina che sogna di diventare come lui. Piace ai giovani, che più piccoli sono più cercano di assomigliargli, complici le madri che non hanno mai smesso di pensare a David come a un bambinone tanto carino, uno che fa l’eccentrico ma è buono, gentile e generoso, uno di quelli che ti porterebbe la spesa a mano in casa. Generoso lo è davvero e questa è un’altra fregatura nel mondo dei criticoni: David dà il 5 per cento di tutti i suoi guadagni a un gruppo di associazioni che difendono i diritti dei bambini, è ambasciatore universale dell’Unicef, ha fondato la David Beckham Academy, una scuola calcio che regala a migliaia di ragazzini la possibilità di provare a diventare un calciatore vero. Non basta proprio: gli dicono bravo per la sua bontà, poi lo irridono quando confessa senza problemi di aver letto un solo libro nella vita “durante una noiosa trasferta in Moldova”. “Allora non ha letto neppure il suo, visto che l’ha scritto e l’hanno pure pagato”.

    Per raccontare la sua vita gli hanno dato otto milioni di euro in anticipo, che ovviamente avrebbe dovuto rifiutare: è assurdo pagare per scrivere uno che non ha mai letto. Perché con David non contano mai gli altri, ma bisogna sempre vedere lui: quanto guadagna senza neppure muoversi. Nessuno si ricorda di andare a controllare quanto fatturano i club che lo comprano: nei quattro anni spagnoli, per il solo merchandising di David, il Real Madrid ha incassato cinque volte di più rispetto a quanto investito per comprarlo e pagargli l’ingaggio. Prima che si trasferisse a Madrid, poteva finire a Barcellona: Joan Laporta l’aveva inserito tra i potenziali acquisti in caso di sua elezione alla presidenza. Tre giorni dopo l’annuncio era passato da terzo a primo nei sondaggi, con il sette per cento in più rispetto agli avversari. Allora David si accorse del gioco sporco e si ribellò: “Non ci sto a essere strumento di una campagna elettorale. Non sarò mai del Barcellona”. Non si sono viste campagne pro David. Mai. C’è sempre un Valdano qualsiasi pronto a trasformarlo in caricatura: “David è due persone in una. E’ una persona quando gioca e un’altra nella vita. Fuori dal campo, come certi uccelli della Patagonia, fa una cagata a ogni passo”. C’è livore, rabbia, insofferenza. Non va giù che la vita extrapallonara di Beckham sia così raccontata, ma alla fine così drammaticamente banale: si compra 46 borse Gucci in un giorno, però non fa neppure un tiro di cocaina, eccheccazzo. Che noia. A Jorge Valdano e quelli come lui fa malinconia il tipo alla Caniggia, in grado di dissipare pure il poco talento che aveva. David il suo l’ha preservato benissimo e allora il fatto incazzare: perché arrivava puntuale agli allenamenti? Perché non mandava a quel paese l’allenatore? Perché non l’hanno mai beccato con una bottiglia a canna in un locale alle quattro di mattina il giorno prima della partita? Beckham adora il calcio. Beckham ha onorato il calcio. Punto. Gli è piaciuto giocare, voleva entrare in campo, voleva mettersi sulla fascia e crossare. E’ riuscito a far cambiare idea a Capello, cioè ha fatto quello che neppure Marco Van Basten e Roberto Baggio furono in grado di fare: essere indispensabile per una squadra di Fabio. L’aveva messo fuori rosa, quello si allenò come un pazzo, fino a costringere l’allenatore a richiamarlo in squadra e a farlo giocare e a essere determinante per lo scudetto del Real.

    Voleva giocare, David. Voleva una punizione al limite dell’area, voleva fare i passi indietro e poi in avanti. Voleva il giro, il sette, il gol. Punto, di nuovo. L’ha fatto. Benissimo. E’ stato uno dei calciatori più forti del mondo, amato dai compagni e rispettato dai rivali, al di là delle critiche di George Best che prima di morire l’aveva schernito: “Non sa tirare di sinistro, non sa colpire di testa, non sa contrastare e non segna molti gol. Per il resto è ok”. Beckham ha ringraziato. Poi ha pensato: anche George è stato in America. Pure lui a Los Angeles. Pure lui a 32 anni. Pure lui fu strapagato. I soldi di Best finirono in tre anni, quelli di David non finiranno. Sono troppi e David è troppo intelligente per buttarli nel cesso. Poi a lui in fondo non gliene frega molto. Né di George, né di Diego, né di chi lo definisce un ribelle a metà. Non deve salvare se stesso, non ha bisogno di inseguire l’infelicità. Bisogna soltanto intendersi sul concetto di sobrio. Il campo è una cosa, le passerelle sono un’altra. I flash ci sono sempre, ma il resto cambia. David ha vissuto sull’uno e sull’altra, coi bulloni delle scarpe da pallone e con la vernice della stringata sotto l’abito elegante. Il gossip non se l’è mangiato: è entrato nelle stanze della sua mastodontica villa che chiamarono Beckingham Palace, è arrivato nella sua stanza da letto, ha affondato nella sua vita e nella sua anima. Non nello spogliatoio, né sul campo. Possibile? Possibile. E’ successo. David Beckham ha vinto tutto e soprattutto ha distrutto i suoi detrattori. Ci sono e ci saranno. Vedrete, leggerete, sentirete oggi: ne faranno il ritratto di un bel ragazzo, uno strafigo cresciuto a milioni, fotografie, serate glamour. E’ mezzo David. L’altra metà è stata il miglior piede destro degli ultimi quindici anni di calcio. Insieme fa un giocatore che resterà: icona del calcio e di quest’epoca. Patinato. Autentico. Segnare con i capelli scolpiti non è la sconfitta del pallone. Beckham non ha tolto, ha dato. Ha vinto lui.