All'assalto dei Bocconi boys
I Bocconi boys sono sott’attacco. C’era un tempo in cui sembrava che stessero prendendo in mano l’Italia per risollevarla dalle ceneri. Nella squadra di Mario Monti, ex preside dell’ateneo milanese, dovevano entrare pezzi da 90 della stessa prestigiosa università, come Guido Tabellini o Francesco Giavazzi. Adesso, sono attaccati in patria e all’estero, da destra e da sinistra, rifiutati dalle masse e sbeffeggiati dall’élite. Sì, proprio loro, i nostri bocconiani sembrano diventati nello stesso tempo i nemici del popolo e dell’accademia chic. Evidentemente, di pensiero ne circola nella cultura economica italiana alla quale un secolo fa si abbeveravano l’Europa e l’America.
I Bocconi boys sono sott’attacco. C’era un tempo in cui sembrava che stessero prendendo in mano l’Italia per risollevarla dalle ceneri. Nella squadra di Mario Monti, ex preside dell’ateneo milanese, dovevano entrare pezzi da 90 della stessa prestigiosa università, come Guido Tabellini o Francesco Giavazzi. Adesso, sono attaccati in patria e all’estero, da destra e da sinistra, rifiutati dalle masse e sbeffeggiati dall’élite. Sì, proprio loro, i nostri bocconiani sembrano diventati nello stesso tempo i nemici del popolo e dell’accademia chic. Evidentemente, di pensiero ne circola nella cultura economica italiana alla quale un secolo fa si abbeveravano l’Europa e l’America. Certo è che in questa terra di nessuno, quando tagli e tasse hanno portato alla stagnazione, ma il deficit spending resta insostenibile per mancanza di risorse, l’Italia è diventata il centro della discussione, teorica e politica.
L’ultima durissima stoccata dottrinaria viene da Mark Blyth, docente alla Brown University, che parte lancia in resta (vedi anche il Foglio del 19 aprile) contro uno studio di Alberto Alesina e Silvia Ardagna, bocconiani passati a Harvard, considerato una pietra miliare del rigore. La prima versione dello studio dei due risale al 2009 e sarebbe servita da travestimento alle scelte politiche impopolari nell’Unione europea, pesando come un macigno sull’intera crescita mondiale. E’ l’“austerità espansiva” secondo la quale i conti pubblici a posto aumentano la fiducia sia dei mercati internazionali sia degli investitori domestici, riducono l’effetto spiazzamento dei titoli pubblici rispetto al risparmio privato, e rilanciano l’economia. A condizione che venga realizzata non con aumenti delle tasse, ma con riduzioni della spesa pubblica corrente. Una precisazione spesso tralasciata dagli stessi critici più preparati. Blyth comunque, nella sua storia dell’idea di austerity, dedica un intero capitolo all’“austerità espansiva” e la imputa proprio a questi pensatori italiani. Per prendersi gioco di loro, storpia anche il noto aforisma di Milton Friedman e sintetizza così l’effetto dell’Alesina-Giavazzi pensiero: “There is no free pranzo if you skip your cena”. Il più acerrimo nemico dell’austerità, Paul Krugman, adesso ha recensito il lavoro di Blyth sulla New York Review of Books, versando ancora inchiostro a favore della sua tesi: il premio Nobel per l’Economia, infatti, la pensa esattamente al contrario di Alesina, cioè ci vogliono più spesa pubblica e anche più tasse sui ceti alti, non solo per redistribuire il reddito, ma perché la propensione al consumo è maggiore tra i poveri, quindi lo stimolo da domanda è più efficace. L’attacco ai Bocconi boys s’accompagna a quello contro il lavoro di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff e la loro regoletta: un debito pubblico superiore al 90 per cento del pil riduce la crescita di un punto percentuale ogni anno. Ma il paper di Alesina e Aragna, presentato all’Ecofin nel 2010, ha la colpa di aver conquistato i centri decisionali della Commissione europea e della Bce, tanto che l’allora presidente della Banca centrale, Jean-Claude Trichet, ha definito “scorretta l’idea che le misure di austerità possano portare alla stagnazione”. In realtà, Trichet su questo litigò con Chirac negli anni 90 quando guidava la Banque de France. Ed è stato lui nell’agosto 2007 il primo a iniettare liquidità per tamponare il crac dei subprime, mentre la Fed dormiva. Con Mario Draghi, poi, è avvenuta la svolta per la quale continua a subire gli strali della Bundesbank. E’ lì, a Francoforte, il nocciolo duro che resiste al cambio di marcia, altro che Alesina. Curioso che l’offensiva dei neokeynesiani non sia più forte ed efficace contro l’impostazione germanica.
Quando si passa dalla teoria alla prassi, la confusione aumenta. La destra, ovunque monetarista, in Italia è keynesiana. Renato Brunetta ne rappresenta il campione, sposando anche la critica all’euro tipica della scuola di Cambridge. Non si differenzia molto da lui Stefano Fassina del Pd, oggi viceministro dell’Economia (anche se ha studiato alla Bocconi non ne condivide il paradigma intellettuale). In realtà, la scuola milanese non è la scuola di Chicago. Piuttosto coltiva una nuova sintesi neoclassica secondo la quale i mercati vanno temperati, ma lasciati liberi, la Banca centrale stampa la moneta necessaria senza creare inflazione, mentre il governo fa quadrare i conti. E’ il triangolo della buona gestione. Krugman dice che non ha funzionato e la crisi del 2008 lo dimostra. Gli stati sono dovuti scendere in campo per salvare il salvabile. Ma i mercati finanziari non hanno gradito questa sottrazione di capitale. Di qui l’attacco ai debiti sovrani. Già, i mercati. Krugman, Brunetta o Fassina non sanno come contrastarli, sperano solo che vengano placati dalla crescita futura. Il keynesismo funzionava meglio senza globalizzazione.
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