Cannes 2013

La Grande Futilità di Sorrentino, e la macchietta sempre uguale di Toni Servillo

Mariarosa Mancuso

Sono spariti i film futili. Magari non dal mondo intero, magari non dalle sale italiane, certamente dal Festival di Cannes anno 2013. Sono scomparsi i film che interessano solo al regista e agli amichetti. Quelli che per essere raccontati abbisognano di mezza pagina (un’altra serve per districare le metafore). Quelli che producono recensioni all’insegna dell’“intensità” e del “rarefatto”, anche nella combinazione “rarefatta intensità”. Quelli che il regista accompagna in conferenza stampa atteggiandosi a mamma dello scarrafone suo. Sono tornate le storie classiche, universali, semplici da riassumere eppure ricche di implicazioni.

    Sono spariti i film futili. Magari non dal mondo intero, magari non dalle sale italiane, certamente dal Festival di Cannes anno 2013. Sono scomparsi i film che interessano solo al regista e agli amichetti. Quelli che per essere raccontati abbisognano di mezza pagina (un’altra serve per districare le metafore). Quelli che producono recensioni all’insegna dell’“intensità” e del “rarefatto”, anche nella combinazione “rarefatta intensità”. Quelli che il regista accompagna in conferenza stampa atteggiandosi a mamma dello scarrafone suo. Sono tornate le storie classiche, universali, semplici da riassumere eppure ricche di implicazioni. I bambini scambiati, la lotta tra servi e padroni come la spiega Joseph Losey nel “Servo” con Dirk Bogarde, oppure Alexandre Kojève nei suoi saggi, non come la spiega Marx. Ricompare il diavolo, la lotta tra il bene e il male viene strappata al fantasy per tornare nel salotto di casa. Le diciassetteni magari non lo sanno, ma quando decidono di scopare a tassametro esercitano il libero arbitrio.

    Apre il giapponese Hirokazu Kore-Eda, con “Like Father, Like Son”. Storia di bambini scambiati al reparto maternità, come accade in nome della rivoluzione in “I figli della mezzanotte” di Deepa Mehta, e per un cartellino mancante in “Il figlio dell’altra” di Lorraine Levy, ambientato in Cisgiordania. Andando indietro, c’era il film di Etienne Chatiliez “La vita è un lungo fiume tranquillo”: scambia i neonati per dispetto l’amante del ginecologo, e confessa dopo dodici anni. In Giappone la rivelazione si abbatte dopo sei anni sulla famiglia benestante e la famiglia poverella, incasinata e affettuosa. L’architetto e sua moglie hanno cresciuto un figlio perfettino: gli fanno fare le prove quando a scuola deve parlare del padre che non vede mai. “Gli manca un po’ di spirito competitivo”, sostiene il genitore rampante, “avrà preso dalla mamma”. Sangue, affetti, educazione sono una mescolanza esplosiva. Trattata con ritegno giapponese, e qualche sorpresa nelle reazioni dei bambini.

    Bel dilemma morale anche nell’altro giapponese in concorso, “Shield of Straw”  di Takashi Miike. I cinefili l’hanno fischiato, come fischiarono il magnifico “Drive” di Nicolas Winding Refn (di nuovo in concorso, fa il bis pure Ryan Gosling). Il nonno miliardario e moribondo di una bambina seviziata e uccisa promette un miliardo a chi giustizierà il maniaco, che all’inizio del film sta rifugiato in una casuccia. Un amico gli porta del cibo ed estrae il piccone. Meglio consegnarsi alla polizia, pensa l’assassino vivo per miracolo. Viene affidato a una squadra che deve portarlo a Tokyo per il processo, mentre il miliardario rilancia: un bel pacco di yen a chi tenterà di uccidere il pedofilo. Dopo un certo numero di spettacolari carneficine, i buoni si chiedono se vale la pena di sacrificare altre vite per proteggere un giovane mostro ghignante. La vendetta del miliardario provoca un caos simile a quello che il Joker nel “Cavaliere oscuro” scatenava a New York, strano che i fischianti non l’abbiano notato. Salto nella Cina da poco capitalista, dove la vendetta avanza per libera iniziativa, come racconta “Touch Of Sin” di Jia Zhangke.

    Chiunque subisce un torto – purché rubricabile nella categoria “grandi emergenze sociali” – afferra un’arma e fa una tarantinesca strage.
    Il diavolo, probabilmente, sta nel film “Borgman”, anche questo in concorso e diretto da Alex Van Warmerdam. Per la gioia di Spielberg che in conferenza stampa ha confessato di non aver mai visto un film olandese: può colmare la lacuna, e magari premiarlo (se le Palme non fossero tutte prenotate dai fratelli Coen). Tre uomini armati gli danno la caccia, quando ancora sembra un povero barbone in una capanna  ben mimetizzata nel bosco. Scappa, suona il campanello di una villa, chiede “posso fare una doccia?”, come Iago con il suo fazzolettino insinua qualcosa sulla padrona di casa. Basta per far litigare i coniugi e deliziare il diavolo sterminatore che seduto a cavalcioni sulla sognatrice produce incubi. Uno spasso di inventiva e di commedia nera: del resto il regista non ci ha mai delusi (per non parlare di quel “Borgman” – il nome del perfidone – che somiglia tanto a Bergman).
    Daniel Schmidt aveva girato uno splendido film sulla notte di Valpurga, sfruttando l’usanza dei servi e dei padroni di scambiarsi i ruoli per una notte. Il libro di Emmanuel Carrère dedicato a Eduard Limonov racconta di quando il poeta russo fu accolto a New York in casa del miliardario che lo scoprì. Quando il miliardario era via, Limonov si rotolava (quasi mai da solo) nelle lenzuola di seta della stanza padronale e beveva tutto quel che trovava in cantina. A proposito, siamo sicuri che Saverio Costanzo sia il regista giusto per portare “Limonov” sullo schermo, avendo fatto l’apprendistato su “La solitudine dei numeri primi” di Paolo Giordano?

    Dormono nelle lenzuola del padrone, guardano la sua tv formato piscina, mangiano i suoi cibi costosi, scimmiottano i ricchi anche i custodi di una villa nel nord dell’Argentina, in “Los Dueños” di Agustin Toscano e Ezequiel Radusky (Settimana della critica). Si intrufolano nelle case altrui, vuote durante l’inverno, “Les Apaches”, quattro ragazzi di Porto Vecchio nel film di Thierry de Peretti (Quinzaine des réalisateurs). Frugano tra le cose degli altri – preferibilmente costose e firmate – le quattro ragazze e il maschio di “The Bling Ring”, pure loro sconvolti all’idea che Paris Hilton fa rivestire i cuscini con la sua immagine. Arredamento che rivaleggia con la mobilia di casa Liberace nel film di Steven Soderbergh “Behind the Candelabra”, dai candelabri che il pianista usava mettere sul pianoforte (lo aveva imparato da un film di Charles Vidor dedicato a Chopin: “L’eterna armonia”).
    “Sono il maggiore sostenitore dell’industria degli strass”, spiega Michael Douglas – magnifico e coraggioso, con l’eye-liner agli occhi – al giovane amante Matt Damon, che poi vedremo in perizoma nero con lustrini. Il film arriva in concorso con la sigla Hbo: nessun grande studio e nessun indipendente ha osato rischiare su tanta gaytudine, così sfacciata che negli anni 70 il dettaglio sfuggiva ai più. Il “Palatial Kitsch” californiano, ispirato a Ludwig di Baviera, contrasta con l’eleganza principesca di Castagneto Po, dove Valeria Bruni Tedeschi ha girato il suo terzo film, “Un château en Italie” (anche questo in concorso).  Autofiction, con un fratello morto di Aids, una madre che discute con la Santa Vergine, un quadro di Brueghel che richiede costosi restauri, mentre la famiglia (nel film si chiama Rossi Levi) pensa di aprire il castello ai visitatori. L’ossessione per la maternità – come nel precedente film della regista e sceneggiatrice, “Actrices” – offre le scene migliori: pensate a come potrebbe essere “Girls”, con una quarantenne per protagonista, che ha smesso di recitare “per mettere più vita nella mia vita”. Mamma Marisa Borini (un tempo compariva nei crediti come Marysa, ora pare rinsavita ma ancora si presenta sul tappeto rosso senza reggiseno) fa la parte di se stessa e dice alla figlia: “In fondo eri bravina, non proprio Anna Magnani ma bravina”. Su tutto, l’ombra di Maggie Smith in “Downtown Abbey”: fanno i conti sulle persone di servizio necessarie al castello e le pagano in franchi svizzeri. La servitù, scocciatissima, ogni volta deve andare fino a Torino per cambiare le banconote.
    Il festival si era aperto con le luminarie e le musiche del “Grande Gatsby” di Baz Luhrmann.

    Ieri sera un party organizzato da Pathé e Disaronno a Villa Oxygen di Vallauris festeggiava  la proiezione del capolavoro annunciato di Paolo Sorrentino. “La grande bellezza” è un girotondo di feste romane, sulle terrazze e in discoteca, in verità molto poco decadenti rispetto all’atmosfera da basso impero che vorrebbero suggerire. Un catalogo di belle immagini – quasi tutte con il copyright altrui, prendiamolo come un omaggio a Federico Fellini – alternate a chiacchiere, pettegolezzi,  qualche intervista, qualche performance di bambine artiste che gettano bidoni di pittura sulla tela (una scena già vista in “Una donna tutta sola” di Paul Mazursky, film del 1978 destinato a un vasto pubblico che capiva il riferimento e rideva: oggi siamo parecchio oltre la data di scadenza della gag).
    Jep Gambardella, scrittore in pantaloni bianchi e giacche colorate, non pubblica più un romanzo da quarant’anni. Forse è un bene: davvero non riusciamo a immaginare come campione di un mondo da rimpiangere uno che aveva intitolato il suo capolavoro “L’apparato umano”. Si atteggia a dandy, ma non gli esce di bocca – colpa della sceneggiatura firmata da Sorrentino medesimo con Umberto Contarello – una sola frase davvero cinica. All’epoca di “Il Divo”, toccò spiegare ai giornalisti stranieri che le battute del film, assieme alla proposta di matrimonio al cimitero del Verano, erano uscite dalla factory di Giulio Andreotti, non da quella di Sorrentino. Qui c’era da saccheggiare Ennio Flaiano. Ottima, per esempio, la frase che sempre torna in mente quando sentiamo parlare dei trans e del loro successo: “La fica non la vuole più nessuno. I pompini li fanno anche le mogli. Gli dai il culo sembra che gli dai la merda”.

    Jep Gambardella è Toni Servillo: al cinema attore di una sola parte proprio come in “La grande bellezza” risulta lo scrittore di un solo romanzo. Giudizio non condiviso dal mensile francese Première, che gli dedica un’intervista e lo chiama “camaleonte”. Troppa grazia, per un attore che sullo schermo – a teatro quando recitava Goldoni era meglio – si potrebbe teletrasportare da un film all’altro solo cambiandolo d’abito, voce e gesti rimangono identici. Ha più facce Carlo Verdone, che di Jep Gambardella è il doppio sfortunato, ancora in cerca del successo letterario da usare come pussy magnet: calamita per attirare qualche bella figliola nel proprio letto. La Santa, in un film su Roma, ci può anche stare. Sono anni che vediamo tonache svolazzanti, dipinte o fotografate: non ne subiamo il poetico fascino, ma sappiamo benissimo di essere in netta minoranza. Questione di gusti, in questo caso. Ma il personaggio della direttrice di giornale nana non è questione di gusti. La nana è davvero troppo. Con un bel paradosso, il film che vuole battersi contro la superficialità è il più futile tra quelli finora passati in concorso.