Il tornado

Oklahoma City è arcaica e dignitosa, umile, dura e sciagurata

Stefano Pistolini

Quando qualche anno fa, per ragioni che non sto a spiegare, un club professionistico di basket si trasferì dalla postmoderna Seattle alla Oklahoma City di cui nessuno parlava mai, in tutti i bar americani si fecero battute: cosa viene in mente ai businessman dello sport d’andare a mettere radici in quell’angolo dimenticato della nazione? La squadra di Oklahoma City comunque partì, prese sberle per anni, fu la Cenerentola del torneo col nome poco profetico di Thunder che s’era data, poi poco alla volta cominciò a migliorare e a vincere, scelse gli uomini giusti e adesso è una corazzata del campionato. Alle partite dei Thunder c’è sempre il tutto esaurito.

    Quando qualche anno fa, per ragioni che non sto a spiegare, un club professionistico di basket si trasferì dalla postmoderna Seattle alla Oklahoma City di cui nessuno parlava mai, in tutti i bar americani si fecero battute: cosa viene in mente ai businessman dello sport d’andare a mettere radici in quell’angolo dimenticato della nazione? La squadra di Oklahoma City comunque partì, prese sberle per anni, fu la Cenerentola del torneo col nome poco profetico di Thunder che s’era data, poi poco alla volta cominciò a migliorare e a vincere, scelse gli uomini giusti e adesso è una corazzata del campionato. Alle partite dei Thunder c’è sempre il tutto esaurito (sfido, dicono sempre i commentatori: che diavolo altro c’è da fare, la sera, a Oklahoma City?). Fanno un tifo d’inferno per i loro ragazzi e quando arrivano le finali si vestono tutti, in ventimila, dello stesso colore, e quell’arena diventa un mare azzurro che suscita l’impressione di compattezza e sforzo comune che qui sono il culto predominante. Certo, poi ci sono le sfighe, che da queste parti sono moneta corrente, mica come a L. A., dove il terremoto deve sempre arrivare, ma intanto si fa la bella vita costruendo ville sulla faglia.

    Questa è una terra diversa, umile e dura, strappata coi denti agli indiani che ci si erano arroccati dentro e che hanno mollato la presa solo agli sgoccioli dell’Ottocento. Ci sono arrivati tedeschi e irlandesi e hanno cominciato a scavare una terra dura da vincere, ma che alla fine dava da campare. Oklahoma City ha un secolo di storia, frutto degli insediamenti incoraggiati dal governo che regalava appezzamenti a chi primo arrivava, e ci arrivarono in tanti e presto la comunità è cresciuta. Gente senza grilli per la testa, tutta aratro e chiesa, lo spirito degli “Okies”, per la maggior parte cristiani evangelici che credono nella congregazione, nel mutuo soccorso e venerano la decenza e per l’umiltà. Cosa che salta all’occhio se per caso qualcosa vi porta per le strade di Oklahoma City, nel downtown desertificato, perché se ne sono andati tutti, anche gli homeless, ci sono solo stradone dritte vuote, empori gestiti da asiatici e uffici del business che nel frattempo è venuto qui, perché dopo la Grande depressione hanno trovato il petrolio, quasi quanto nel sottostante Texas, e le cose sono cambiate, i soldi sono arrivati ma le abitudini sono rimaste le stesse, tutto dentro casa, anche il lusso e la fortuna, niente di ostentato, sempre con pochissime parole di contorno. Qui cultura e showbiz sono termini visti con scetticismo.

    Questa è la vera terra del pragmatismo americano, coi piedi per terra e col più profondo e repubblicano dei distacchi verso le proposizioni della lontanissima Washington. Anche quando arrivano le disgrazie, anche quando Obama dichiara lo stato di calamità naturale, o come quando nel 1995 quel pazzo estremista di Tim McVeigh fece saltare per aria l’edificio federale Murrah (“federale”, si badi bene), ammazzando 168 persone, nel peggiore atto di terrorismo interno della storia americana. Era una vicenda di confusione, nevrosi, ignoranza ed esaltazione. Finì con la sua esecuzione, l’11 giugno del 2001 – un mondo lontano visto dall’oggi. Oklahoma City si rinchiuse presto su se stessa, non concesse più del minimo essenziale alle cronache, ricostruì quel che c’era da ricostruire, pianse i morti e ricominciò la sua testarda corsa dentro la normalità, con quello stile di vita che qui è una regola, e che il resto d’America guarda con commiserazione. La passione degli americani per la propria occasione d’essere eccezionali tra i popoli, mal viene a patti con questo prodotto che ha l’odore sia del calvinismo che del fatalismo pellerossa, nella più strana e arcigna delle miscele immaginabili. Posti a cui si appartiene o dove si resta perennemente forestieri, come sanno gli americani, che a Oklahoma City si trattengono solo lo stretto necessario, anche se poi basta un attimo per scoprire che questa è una delle culle del fenomeno chiamato filantropia americana.

    Adesso è tornata la natura a lanciare misteriosi avvertimenti a questa città e al suo stato, come capitò negli anni Trenta, quando esplose il terribile fenomeno del Dust Bowl, le tempeste di sabbia provocate dalle tecniche agricole sbagliate, quelle raccontate da Steinbeck in “Furore” e incarnate da Henry Fonda con lo sguardo mansueto ma fiero, alle prese con una terra troppo sfruttata, che diventa polvere, su cui venti, che tirano come demoni, fanno il resto.
    Adesso ci ha pensato un tornado a dar monito agli Okies, facendo strage di decine di persone e distruggendo case, scuole e chiese, l’ossatura e il senso di luoghi senza monumenti, almeno fisici o visibili. Al di là delle cronache, laggiù lo prenderanno come un terribile messaggio, un segno che impone di chinare il capo, pensare ai propri errori, espiare e cercare d’essere migliori. Un modo arcaico ma dignitoso di confrontarsi con sciagure così. Tanto in città come Oklahoma City non hanno dubbi: bisogna aiutarsi da soli, stringersi con la propria gente, parlare solo con Dio e tirare dritti. Senza fare commenti.