Giù dal carrozzone piagnone

Alberto Brambilla

L'atto d'accusa più drastico e definitivo a una Confindustria pachidermica e ripiegata su se stessa (un “carrozzone”), carica di conflitti d'interesse, con i sindacati e con la politica, ed eccessivamente allarmista sullo stato dell'economia (sul Foglio è stata definita “piagnucolona”) arriva da uno dei principali imprenditori italiani, Guido Barilla, presidente dell'omonimo gruppo alimentare conosciuto in tutto il mondo per la pasta secca e i prodotti da forno. In un'intervista pubblicata sulla Stampa di ieri Barilla attacca, pungola, critica, prende letteralmente a cazzotti l'associazionedegli imprenditori guidata da Giorgio Squinzi.

    L’atto d’accusa più drastico e definitivo a una Confindustria pachidermica e ripiegata su se stessa (un “carrozzone”), carica di conflitti d’interesse, con i sindacati e con la politica, ed eccessivamente allarmista sullo stato dell’economia (sul Foglio è stata definita “piagnucolona”) arriva da uno dei principali imprenditori italiani, Guido Barilla, presidente dell’omonimo gruppo alimentare conosciuto in tutto il mondo per la pasta secca e i prodotti da forno. In un’intervista pubblicata sulla Stampa di ieri Barilla attacca, pungola, critica, prende letteralmente a cazzotti l’associazionedegli imprenditori guidata da Giorgio Squinzi. Un’intervista “macigno”, come l’ha definita il quotidiano torinese, che arriva da un membro fedele – fino a prova contraria – della Confindustria. La presa di posizione di Barilla cade soprattutto in un momento delicato, e cioè alla vigilia dell’Assemblea annuale di Confindustria che si è aperta ieri, con la riunione ristretta e privata della giunta cui partecipano i big dell’associazione, per concludersi oggi con una conferenza pubblica nella sede romana di Viale dell’Astronomia, la seconda che Squinzi presiede.

    Dice Barilla: “Confindustria deve rimettere al centro il prodotto, l’industria manifatturiera. Così come è oggi l’organizzazione non funziona: era nata per sostenere le imprese di prodotto, che questo fosse l’auto, la pasta o i tessuti; adesso, invece, è diventata rappresentante anche di interessi contrastanti, come quelli delle aziende di servizi alle imprese delle utilities, inciampando in un continuo e concreto conflitto d’interesse”. In sostanza, Barilla contesta a Confindustria di avere perso la sua missione di sostenere gli imprenditori per perseguire invece una logica di sistema, politica, che a nulla serve in un contesto economico deteriorato; quello di una desertificazione industriale conclamata dagli ultimi dati negativi sul calo della produzione manifatturiera in Italia. L’associazionedegli imprenditori insomma sta sprecando energie, o meglio, le utilizza per sé perseguendo un obiettivo molto distante dalle esigenze della base e cioè dalle richieste dei soci paganti, che di conseguenza non si sentono adeguatamente rappresentati. Con il preambolo iniziale, Barilla ha solo preso la mira. Poi, spara: “Non persegue l’interesse generale delle imprese, ma interessi particolari. Rischiamo di essere uguali a quel sistema politico e istituzionale che tanto critichiamo perché non riesce a esprimere una politica industriale”. E’ dunque credibile una Confindustria che attacca (spesso a ragione) l’inefficienza dell’apparato pubblico quando si comporta allo stesso modo? Questa è una critica che l’imprenditore della pasta aveva già avanzato un mese fa in occasione di un convegno all’Università Bocconi di Milano, l’ateneo “della crème” economica italiana. Allora Barilla disse che il tempo è “scaduto” ormai da “cinque anni”, anche per l’associazionedi cui fa parte e dalla quale, è utile sottolinearlo, non ha intenzione di uscire (Barilla si riferiva a uno slogan-appello – “Il tempo è scaduto” – che Squinzi aveva rivolto alle istituzioni politiche italiane, congelate dalla impasse post elettorale). L’imprenditore ha anche spiegato che il “vuoto” della politica è lo stesso “vuoto” che avvolge Confindustria e frutto di una “nebbiosa gestione” ventennale di cui l’associazione non si è ancora liberata.

    Paralisi d’interessi e abbraccio corporativo
    Il conflitto d’interessi, secondo Barilla, è palese e per di più nocivo, quasi assassino, perché Confindustria incorpora (con profitto per sé) sia le imprese produttrici sia i colossi statali: un abbraccio paralizzante e, alla lunga, mortale che è necessario spezzare per sopravvivere. “Chi fa servizi dovrebbe essere fuori da Confindustria visto che non facciamo lo stesso mestiere – dice Barilla alla Stampa – Serve una Confindustria di produttori ed eventualmente un’altra associazione che riunisca chi – come Eni, Enel o Ferrovie – fornisce servizi ai produttori”, in pratica un salvifico scorporo di Viale dell’Astronomia. “Per il nostro gruppo – spiega Barilla – lavorare in Italia significa avere ogni anno una bolletta energetica che costa 30 milioni in più di quello che ci costerebbe se fossimo, ad esempio, in Francia […] Ma chi rappresenta la Barilla e le imprese come noi, ossia proprio Confindustria, non può fare una battaglia per abbassare il costo dell’energia perché allo stesso tempo rappresenta anche chi fornisce energia alle aziende”. L’attacco di Barilla è chirurgico, punge nel vivo, e rivela il carattere sistemico di un conflitto d’interesse paralizzante per la parte produttiva del paese, quella che fa pil. “Quando le banche e le utility hanno il sopravvento sulle industrie, allora i paesi si indeboliscono irrimediabilmente. Badi – dice Barilla al giornalista Francesco Manacorda – io non ce l’ho con queste società, che fanno egregiamente il loro lavoro nell’interesse di loro azionisti. Ma farle entrare in Confindustria è stato un peccato originale dal quale non si esce”. E’ un problema d’interessi divergenti difficile da gestire per una qualsiasi lobby e, all’atto pratico, secondo l’analisi di Barilla, alquanto castrante per l’attività d’influenza politica e istituzionale propria appunto di una lobby imprenditoriale (quali interessi Confindustria preferisce tutelare? Quelli dei pochi grandi colossi parastatali o quelli dei tanti piccoli imprenditori?).

    Barilla punta anche il dito su Federalimentare, accusata di “tenere insieme” sia i produttori sia i trasformatori di materie prime, facendo in particolare gli interessi dei secondi trascurando quelli dei primi. Federalimentare è una branca di Confindustria ed è in subbuglio; l’attacco di Barilla punge, dunque, la categoria cui il pastificio emiliano appartiene pur evidenziando una strutturale pecca di Viale dell’Astronomia, che spesso subisce i caveat delle associazioni di categoria che ingloba.
    Il conflitto d’interessi di Confindustria è anche più ampio e il Foglio l’ha spesso denunciato in passato. Ad esempio, con una recente serie di articoli sul tema, a firma di Marco Valerio Lo Prete, questo giornale ha raccontato come l’abbraccio tra Confindustria e i sindacati, in particolare la Cgil, sia stato il grimaldello che ha scardinato l’accordo per l’aumento della produttività in Italia così come l’aveva pensato (e incentivato) inizialmente il governo tecnico guidato da Mario Monti. Una volta conclusa l’esperienza montiana, infatti, la Cgil ha colto l’occasione per depotenziarlo in accordo con i patronati confindustriali svuotando le intese iniziali di significato ed efficacia. E’ stato un intervento distruttivo, architettato, e preparato nei dettagli; lo dimostrano delle circolari interne alla Cgil che il Foglio ha pubblicato il 4 maggio. Insomma, anche a livello politico e di sistema l’abbraccio tra sindacati e Confindustria risulta nocivo, tanto quanto quello con le società pubbliche, perché serve solo ad accumulare consenso. Barilla era stato chiaro, anche su questo punto, durante il già citato convegno bocconiano: “Non è certo con il modello di Confindustria che noi possiamo proporci – disse Guido Barilla intervistato per l’occasione da Giovanni Minoli – [dobbiamo] disfarci di tutti i modelli e degli arroccamenti che ci hanno gestito fino a oggi; con tutti i nostri modelli lobbistici per gestire gli interessi delle varie parti. […] Un altro grande problema che ha l’Italia è il concetto del “consenso”. In Italia tutti pensano a quello che dicono per ricevere il consenso degli altri, non capiscono che ci sono delle cose che bisogna dire anche se di consenso non se ne può trarre. Ci sono molte verità che dobbiamo cominciare a raccontarci, sono difficili da comprendere e si impiegherà del tempo. E questo è un altro problema di carattere culturale e di formazione”. Oltre a uno scorporo di Confindustria, dunque, per Barilla serve anche un ripensamento della pratica lobbistica.

    Il malumore della base e le fuoriuscite
    Lo scorso autunno l’imprenditore e designer friulano, Gabriele Centazzo, fondatore di Valcucine, comprò tre pagine sul Corriere della Sera per denunciare lo stato di una Confindustria pachidermica e malfunzionante: un “carrozzone”. Era il grido disperato (e costoso, le pagine sul Corriere non sono in regalo) per portare alla luce un problema che riguarda centinaia di imprenditori dell’operoso nord-est (come sintetizzato in un altro articolo in questa pagina). L’accusa era simile a quella di Barilla ma è passata sostanzialmente sottotraccia, almeno sui grandi media. La denuncia di Centazzo ricalcava un po’ quella dei “piccioni” francesi, i piccoli impenditori d’oltralpe che, sempre in quel periodo, avevano deciso di prendere iniziative autonome (e dirompenti) per contrastare il declino industriale francese arrivando quindi a interloquire direttamente con le istituzioni politiche bypassando il Medef, l’omologo francese di Confindustria. In Italia questo non è accaduto, nonostante fioriscano associazioni autonome, forse troppo “polverizzate” sul territorio, per “fare ascoltare” la voce dei piccoli imprenditori. Il vero colpo per Confindustria era già arrivato nel 2011, quando, sotto la presidenza di Emma Marcegaglia, predecessore di Squinzi, Fiat decise di uscire dall’associazioneper gestire in maniera autonoma (dai sindacati e da Confindustria) i contratti di lavoro nei suoi stabilimenti italiani. Adesso, dopo due anni, siamo arrivati alla resa dei conti: agli operai dello stabilimento napoletano di Pomigliano è stato chiesto di lavorare anche il sabato per soddisfare la richiesta di nuovi modelli di Panda. Non è ancora chiaro se i sindacati aderiranno, ma serebbe una vittoria della linea portata avanti dall’amministratore delegato di Fiat, Sergio Marchionne; come già sottolineato sul Foglio con un editoriale di ieri (la “febbre del sabato” a Pomigliano). Sarebbe un vittoria di Marchionne sia sui sindacati sia nei confronti di una Confindustria che con essi si mischia per ottenere, come già detto, consenso politico e di pubblico. Le fuoriuscite da Viale dell’Astronomia sono un altro cruccio per Giorgio Squinzi. Ultimamente è l’associazione Centromarca, che riunisce 200 aziende e relativi marchi italiani e stranieri a meditare la fuga; indiscrezioni non confermate ufficialmente. Anche l’associazione di fornitori di materiale edile Finco si è distaccata da Confindustria, si è parlato di un’altra fuoriuscita. In realtà, la piccola Finco è stata forzata a uscire da Confindustria e si è proposta come interlocutore istituzionale sui temi dell’edilizia bypassando Confindustria stessa. Confindustria ha semmai subìto un’infiltrazione scomoda; il problema inverso. Dopo l’uscita, “la Finco non si è data per vinta, raccattando associazioni che solo marginalmente hanno a che fare con l’edilizia e tuttavia continuando a comportarsi, con i media e le istituzioni, come fosse lei la vera rappresentante dell’edilizia italiana”, scriveva in una lettera il dirigente confindustriale Catervo Cangiotti. Secondo indiscrezioni, inoltre, le aziende che sono uscite da Confindustria l’anno scorso sono solo lo 0,6 per cento delle 150 mila iscritte (con 5,5 milioni di addetti); la cifra comprende i mancati rinnovi per via di fallimenti, acquisizioni, concentrazioni o vendite. Non molto per parlare di fuga sebbene, va aggiunto, il malumore della base e di associati di peso sia un fatto conclamato.

    Il Grande Ufficiale Squinzi
    Confindustria necessita di una riorganizzazione, cui sta lavorando da un anno la commissione per la riforma presieduta dal costruttore Carlo Pesenti. E’ un problema per cui il presidente Squinzi viene spesso criticato sia da destra sia da sinistra; è il nodo fondamentale del “carrozzone”. La riorganizzazione è stata laboriosa, ma è possibile anticipare qui alcune direttrici. Il costo stimato per mantenere l’apparato confindustriale è di 500 milioni di euro l’anno, il 5 per cento serve per sostenere il “palazzaccio” e cioè la sede centrale di Viale dell’Astronomia, pari a 38-40 milioni di euro. Il resto è da imputare alle associazioni locali e di categoria. Durante l’anno scorso, inoltre, i costi di sostentamento sono stati ridotti in generale del 17 per cento, con un taglio del personale di 150 unità. Squinzi per questo è sotto assedio ma riconosce il problema e ha già parlato di un necessario ripensamento. Non è infatti a lui che Barilla imputa le inefficienze confindustriali (“durano da tempo”). Oggi Squinzi nel suo discorso insisterà nell’evidenziare il suo apporto al processo di sblocco dei crediti vantati dalle imprese nei confronti della Pubblica amministrazione. Processo avviato grazie all’intesa con il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, con un incontro a due il 13 marzo scorso. Secondo indiscrezioni, Napolitano conferirà a Squinzi, capo della multinazionale chimica Mapei, l’onorificenza di Grande Ufficiale della Repubblica il 2 giugno prossimo. Il patron del neopromosso Sassuolo calcio (Squinzi, in realtà, è anche uno sfegatato milanista) ha già ricevuto il telegramma del Quirinale.

    *Foto di Mirta Kokalj dal titolo "Santa Barilla" scattata per il progetto “Di che pasta sei fatto?” realizzato con l’Istituto italiano di fotografia

    • Alberto Brambilla
    • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.