Cinquanta sfumature di grigio

Il cacciavite e il martello. Letta, Renzi e la sfida dagli undici metri

Claudio Cerasa

Più che i paragoni con Mario Monti, più che le similitudini con Beniamino Andreatta, più che gli accostamenti con Giulio Andreotti, più che i confronti con Pier Luigi Bersani, più che i parallelismi con Ciriaco De Mita e più che le analogie con Romano Prodi, il modo migliore per iniziare un articolo sulla storia di Enrico Letta senza aprire la bocca e cominciare subito a sbadigliare è quello di chiudere per un attimo i libri di politica, aprire al volo l’almanacco delle figurine Panini, andare alla lettera “T” e segnarsi rapidamente su un foglietto di carta un nome che tutti conoscerete e che ci tornerà utile per capire qualcosa in più sul percorso che ha portato il nostro presidente del Consiglio a guidare la prima grande coalizione della nostra repubblica: Giovanni Trapattoni.

    “La politica è come il Subbuteo. Chi ha la mano pesante perde”.
        Enrico Letta, 29 agosto 2007


    Più che i paragoni con Mario Monti, più che le similitudini con Beniamino Andreatta, più che gli accostamenti con Giulio Andreotti, più che i confronti con Pier Luigi Bersani, più che i parallelismi con Ciriaco De Mita e più che le analogie con Romano Prodi, il modo migliore per iniziare un articolo sulla storia di Enrico Letta senza aprire la bocca e cominciare subito a sbadigliare è quello di chiudere per un attimo i libri di politica, aprire al volo l’almanacco delle figurine Panini, andare alla lettera “T” e segnarsi rapidamente su un foglietto di carta un nome che tutti conoscerete e che ci tornerà utile per capire qualcosa in più sul percorso che ha portato il nostro presidente del Consiglio a guidare la prima grande coalizione della nostra repubblica: Giovanni Trapattoni.

    Trapattoni, lo sapete, è uno degli allenatori più famosi del mondo, ha trascorso svariati anni sulle panchine di Juventus e Inter, ha allenato la Nazionale, ha girato molti paesi, ha vinto più o meno tutto quello che c’era da vincere e ha passato una vita a dare una certa forma di legittimità popolare a quello schema ruvido, contestato ma terribilmente vincente che il Trap scopiazzò dai suoi avi pallonari e che oggi, in perfetto stile post democristiano, è diventato il vero filo conduttore del governo Letta: la tattica del catenaccio.

    Le metafore calcistiche, si sa, sono un grande classico della politica; e anche Letta, spalleggiato in questo dal suo vice Angelino Alfano (che venerdì scorso, ricorderete, ha esultato per “il primo goal segnato dal governo sull’Imu”), non ha resistito alla tentazione di chiedere alla sua “squadra” di andare in “ritiro” per fare “spogliatoio” e concentrarsi per dare rapidamente “il calcio d’inizio alla legislatura” e “portare presto a casa il risultato”. Oltre alle semplici metafore però, per un vecchio giovane democristiano come Letta, il catenaccio applicato alla politica è qualcosa di più di una banale allegoria, ed è qualcosa di più simile a una filosofia di vita, e in certi casi, come da tradizione Dc, a un preciso stile di governo. Uno stile in cui i difensori contano più degli attaccanti, il gruppo conta più dei singoli, la tattica conta più delle individualità, i fenomeni si tengono in panchina, le personalità si diluiscono, la squadra addormenta la partita, lo stopper butta spesso la palla in tribuna, i centrocampisti non superano mai la metà campo, gli avversari vengono congelati, i giocatori si preoccupano prima di tutto di non prenderle, e dove però alla fine, quando gli spettatori si sono rassegnati al più grigio degli zero a zero, l’attaccante scatta sul filo del fuorigioco e incredibilmente, quasi di nascosto, di rapina, e zitto zitto, la butta in rete. Ecco. In un certo modo, chiudendo l’almanacco e tornando alla politica, la storia di Letta, e del suo governo – che come ammesso mercoledì da Dario Franceschini, in perfetto stile trapattoniano, “deve mettercela tutta per ottenere i risultati senza cercare applausi” – è quella di un catenacciaro di successo che dopo aver giocato una vita sul filo del fuorigioco si ritrova a guidare una squadra in cui gli stopper buttano la palla in tribuna, i fenomeni rimangono in panchina, l’allenatore chiede di non sbilanciarsi, la squadra addormenta la partita ma in cui le condizioni del terreno di gioco dicono nuovamente che l’unico schema per buttare la palla in rete oggi è proprio questo: il catenaccio.

    Dunque, perché non provarci? “Tornate all’antico e sarà un progresso”.
        Giuseppe Verdi, 1871


    Il film della convocazione in prima squadra di Enrico Letta comincia a Pisa il pomeriggio del tre maggio del 1990 (quando Letta mette per la prima volta il suo piede in un’istituzione, allora era il comune di Pisa). Termina a Roma la sera del 26 aprile 2013 (quando a Letta viene comunicato dal Quirinale –  mentre era a Roma, a Testaccio, a cena al ristorante la Torricella, a pochi metri dal proprio appartamento, con la moglie Gianna Fregonara, caporedattore del Corriere della Sera – che Napolitano aveva scelto di puntare su di lui e non su Amato; e il che significa che la mattina del 27 aprile quando Letta arrivò al Colle sapeva già da ore di essere stato scelto dal presidente della Repubblica). E passa per una serie di piccole scene che messe insieme l’una con l’altra danno l’idea di come si è andato a comporre il mosaico di questa grande coalizione e di questa nuova stranissima maggioranza. A volerla far breve – prendete fiato! – la storia di Letta è quella di un consigliere comunale nipote di un esponente democristiano (Gianni Letta), figlio di un professore pisano (Giorgio Letta, docente di Calcolo delle probabilità), figlioccio di un politico anch’esso democristiano (Beniamino Andreatta). Che a diciotto anni prende la tessera dei giovani democristiani (negli stessi anni in cui la tessera la presero Angelino Alfano, Dario Franceschini, Lapo Pistelli, Giampiero D’Alia, oggi tutti al governo); a ventiquattro arriva al comune di Pisa (qui conoscerà il suo primo maestro Simone Guerrini, oggi dirigente di Finmeccanica); a venticinque diventa presidente dei giovani democristiani europei (ci resterà fino al 1995); a ventisette diventa capo di segreteria di un ministero importante (quello degli Esteri, guidato nel 1993 da Andreatta); a trentuno diventa vicesegretario di un partito di peso (i Popolari, il segretario era Marini, l’altro vice era Franceschini); a trentadue diventa per la prima volta ministro (delle Politiche comunitarie, con D’Alema); a trentatré diventa per la seconda volta ministro (dell’Industria, sia con D’Alema sia con Amato); a trentotto arriva al Parlamento europeo (in tandem con Bersani); a quartanta arriva a Palazzo Chigi (come sottosegretario di Romano Prodi); a quarantuno si candida alle primarie del Pd (arriverà terzo, dietro Veltroni e Bindi); a quarantatré diventa vicesegretario del Pd (segretario Bersani); e a quarantasei (dopo la roulette russa al Quirinale) torna a Palazzo Chigi, ma stavolta da presidente del Consiglio.

    Tutto ciò per quanto riguarda la semplice cronaca e il nudo curriculum di Letta. Ma dietro a questo percorso e dietro a questo profilo si nascondono una serie di temi cruciali per capire qualcosa di più non solo sull’uomo che oggi sta guidando il governo, e non solo sull’origine politica di questa pazza maggioranza, ma anche su una certa rivoluzione a metà tra la politica, la sociologia e l’antropologia vissuta dal nostro paese. Qualcosa che naturalmente riguarda la storia di Letta ma anche qualcosa che riguarda i veri temi che si leggono in controluce dietro la pellicola del governo: il significato culturale della grande coalizione, il futuro possibile del centrosinistra, il destino politico del centrodestra, la sfida dei teorici della scomposizione, la battaglia dei romantici del bipolarismo, l’origine dello spirito di pacificazione, lo scontro filosofico tra il “modello martello” e il “modello cacciavite” e il senso della prima (e forse ultima) sfida di una nuova generazione di politici cresciuti negli anni seguendo insieme la filosofia del catenacciaro e il mito dell’artificiere. Già, ma come si è arrivati fin qui? Come si è arrivati alla grande coalizione?

    “Ho la coscienza di essere di statura media, ma se mi giro attorno non vedo giganti”.
        Giulio Andreotti, 1973


    A quasi un mese dalla sua nomina a presidente del Consiglio, oggi si può dire senza paura di essere smentiti che le ragioni che hanno portato Enrico Letta a essere considerato da Giorgio Napolitano il perfetto punto di equilibrio per guidare un esecutivo di larghe intese sono principalmente quattro e sono più o meno queste. Primo: il curriculum. Secondo: la trasversalità. Terzo: la rete di rapporti. Quarto: la carta d’identità. La trasversalità di Enrico Letta – che non è solo un gene del Dna democristiano – è stata apprezzata da Giorgio Napolitano durante i famosi sessanta giorni di consultazioni bersaniane. E in particolare in quei momenti in cui Letta, mentre lo smacchiatore di giaguari prometteva che mai e poi mai il Pd avrebbe rinunciato a smacchiare il giaguaro, si sforzava, come imponeva la logica e come suggeriva la matematica, di tenere un filo di dialogo con i giaguari brutti e cattivi. Era Letta che parlava con Alfano quando Bersani giurava che il Pd non avrebbe mai fatto un governo con il Pdl. Era Letta che parlava con Napolitano quando Bersani prometteva che il Pd non avrebbe seguito strade diverse dal governo di minoranza. Era Letta che provava a convincere Bersani che a certe condizioni una grande coalizione con il Pdl sarebbe stata più opportuna di una grande coalizione con Casaleggio. Era Letta che provava ad aprire canali di dialogo con la Lega per costruire le condizioni per un improbabile governo di minoranza. Era Letta che organizzava gli incontri con Berlusconi e Bersani. Era Letta che organizzava le consultazioni con Alfano. Ed era Letta l’esponente del Pd che dal 25 febbraio in poi si era sforzato (anche su suggerimento del Quirinale) di convincere il suo partito che tornare a votare con questa legge elettorale sarebbe stato semplicemente suicida.

    Oltre a questo però una delle ragioni che hanno convinto Napolitano a pescare il nome del vicesegretario del Pd dal mazzo dei papabili per Palazzo Chigi è legata prima ancora che alla famosa rete di rapporti (ci arriveremo, la storia è interessante) e prima ancora che alle doti di Letta, alla sua carta d’identità. E la carta d’identità dice questo: venti agosto 1966.

    Un quarantenne al governo, naturalmente, non è una novità assoluta per un presidente del Consiglio italiano (Goria, nel 1987, arrivò a Palazzo Chigi con un anno in meno di quelli di Letta), e non è questa la chiave per capire il senso della rivoluzione generazionale iscritta nel Dna di questo governo. La chiave è un’altra e riguarda il significato che per il nostro paese ha un politico che arriva a Palazzo Chigi senza aver partecipato direttamente alla guerra civile italiana, senza aver vissuto in modo diretto la stagione del ‘68, senza avere avuto un ruolo politico negli anni del terrorismo.

    Giorgio Napolitano, nei suoi colloqui privati, definisce spesso i “ragazzi” nati negli anni Sessanta come i figli dell’era della pacificazione. E tra le molte ragioni che hanno spinto Letta sulla strada di Palazzo Chigi, e che hanno portato il capo dello stato a scegliere lui piuttosto che, per dire, Giuliano Amato, c’è anche questa. L’età. Gli anni Sessanta. La rottamazione morbida. Già, ma in che senso? Il discorso non è facile e il rischio di scrivere banalità è grosso; ma andando a curiosare nel mondo dei quarantenni più vicini al presidente del Consiglio il tema della generazione della pacificazione, o degli “artificieri” come ripete spesso Letta, è un tema che ha un suo peso e una sua consistenza. Filippo Andreatta, figlio di Beniamino Andreatta, maestro politico di Letta, conosce da tempo il presidente del Consiglio: è nato nei suoi stessi anni (1969), ha una formazione simile al capo del governo, insieme con Giulio Napolitano (figlio di Giorgio) è uno dei quarantenni con cui Letta è più legato, e conversando con il Foglio Andreatta Jr. prova ad affrontare il tema e ci offre il suo punto di vista. Seguiamo il filo. “Io – racconta Andreatta – sono convinto che dal punto di vista simbolico il fatto che la nostra generazione sia arrivata al governo costituisca una grande chance per imporre un regime di pacificazione culturale. La missione è complicata ma bisogna dire che chi, come me ed Enrico, è nato negli anni Sessanta arriva da un percorso particolare: non è cresciuto con il mito della contestazione, è maturato facendo a meno della filosofia dell’occupazione, non ha avuto un rapporto conflittuale con l’autorità, non ha ingoiato gli ingredienti delle vecchie ideologie, ha osservato da ventenne la caduta del Muro di Berlino, ha vissuto come il vero momento formativo della propria vita la caduta di un altro muro, la creazione dell’Unione europea, e in questo senso, se il termine mi è consentito, il quarantenne di oggi è davvero il simbolo della prima vera generazione post-ideologica. Vedete, qui non si tratta soltanto di un dato culturale, si tratta proprio di un dato politico e quasi statistico: oggi le persone nate dopo il 1960 sono la maggioranza del corpo elettorale; e se nel paese si avverte questa voglia di pacificazione la ragione diciamo che è legata anche a questo fattore qui”.

    La cultura della pacificazione è stata anche una delle lezioni politiche che Letta ha appreso da Andreatta senior. Ed è significativo che Letta, oltre ad aver ereditato da papà Beniamino la guida dell’Arel, abbia scelto di adottare per i suoi campus estivi un paese come “Dro”. Un paese che si trova a pochi chilometri da una città simbolo della pacificazione come Trento dove Andreatta fondò con Bruno Kessler (storico politico trentino) la prima Facoltà di Sociologia italiana, dove si ritrovarono a insegnare insieme, nella stessa università, capitalisti e anti capitalisti, rigoristi e anti rigoristi, manager e terroristi, comunisti e anti comunisti, democristiani e anti democristiani, e quindi Renato Curcio e Norberto Bobbio, Margherita Cagol e Pietro Scoppola, Mauro Rostagno e Giorgio Galli, e così via. L’università, già. Il “potere” di Letta, infatti, e la sua capacità di costruire relazioni pesanti e di alimentare la sua rete nell’establishment, nasce soprattutto all’interno dei mondi accademici. E se da una parte Letta è legato all’università dove è cresciuto e maturato, la Sant’Anna di Pisa (dove lavora la mamma di Letta, dove insegna uno dei consiglieri di Letta, Andrea De Guttry, e dove Letta ha pescato un ministro importante del suo governo, Anna Maria Carrozza, rettore della Sant’Anna e oggi ministro dell’Istruzione); dall’altra parte la vera enclave del lettismo si trova nella capitale, in quella Roma Tre diventata un piccolo feudo lettiano, dove insegnano due cari amici di Enrico (Giulio Napolitano e Andrea Zoppini) e dove a guidare l’università è un altro amico di Letta: Guido Fabiani, cognato del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (ha sposato la sorella di Clio). Come Filippo Andreatta (docente anche lui, ma a Bologna, insegna Scienze politiche), anche Giulio Napolitano (che a Roma insegna Diritto pubblico) fa parte della stessa generazione di Letta (è nato nel 1969). E come Filippo Andreatta e come Enrico Letta, anche Giulio Napolitano (secondogenito del capo dello stato) considera i nati negli anni Sessanta i figli della così detta “generazione artificieri”. Già, ma in che senso?

    “I quarantenni di oggi che frequentano il mondo delle istituzioni, della politica e dell’accademia – dice al Foglio Giulio Napolitano, che oltre a essere amico di Letta è stato anche suo consulente giuridico, e che tra il 2006 e il 2008 è stato anche ghost writer del futuro presidente del Consiglio – forse hanno in comune lo sforzo di avvicinarsi ai problemi del paese in modo non aggressivo, ma ponderato, cercando di entrare il più possibile nel merito delle singole questioni. Generalizzare ovviamente sarebbe sbagliato. A me sembra però che i nati negli anni Sessanta abbiano imparato a guardare chi la pensa diversamente in termini politici o culturali come semplici avversari e non come nemici. Ciò significa che anche dai rivali si può imparare qualcosa, tentando di valorizzare gli elementi di innovazione presenti nel loro pensiero e nella loro azione. Mi spiego. I nostri anni di formazione sono stati quelli in cui a imporre l’agenda erano la Thatcher e Reagan. Chi la pensava diversamente, se davvero voleva compiere un passo in avanti, non poteva operare in una logica di mera rimozione, illudendosi di poter cancellare con un tratto di penna tutto quanto fatto negli anni Ottanta. Dovevi prendere il meglio di quelle esperienze, accettare l’inevitabile, provare a raddrizzare e correggere, individuare nuovi indirizzi di politica economica e istituzionale. Il discorso valeva per Reagan, come fece Clinton; valeva per la Thatcher, come fece Blair. Un’analoga problematica si poneva anche in Italia nella seconda metà degli anni Ottanta e all’inizio degli anni Novanta. Noi ragazzi, allora, non eravamo figli di una particolare ideologia. Gli anni peggiori del terrorismo erano passati. Per questo sentivamo il dovere di combattere quella tendenza alla demonizzazione dell’avversario: allora, per una parte della sinistra, l’obiettivo principale era Craxi, molto più che i leader democristiani”.

    Giulio Napolitano fa un esempio. “Quando ero ragazzo a Roma frequentavo il liceo Visconti e qualche volta mi è capitato di partecipare ad alcune riunioni della Lega degli studenti medi, allora associata alla Federazione dei giovani comunisti italiani. Ricordo il documento politico in discussione: una sorta di bilancio critico-manifesto programmatico. Ebbene non erano quasi mai citati in positivo leader o pensatori della sinistra. Mentre era continuamente ripetuto, e sempre in modo ostile, il nome di Bettino Craxi. Feci notare che era una vera e propria ossessione. Il ‘capo’ presente alla riunione mi diede ragione. Ma il documento ovviamente non fu cambiato di una riga. Ecco. Diciamo che noi siamo figli dell’età post ossessioni ideologiche. Un’età in cui la cultura della conciliazione, grazie anche alla nascita e al consolidamento dell’Unione europea, ci ha aiutato a seguire un percorso autonomo e a formare individualità meno marcate in termini ideologici, anche grazie al fatto che molti di noi sono maturati all’interno di esperienze aggregative diverse dalle sezioni e dai circoli di partito. Insomma: chi è nato prima di noi, il collante ideologico se lo ritrovava cucito già addosso; chi è nato nei nostri anni il collante politico-culturale se l’è dovuto costruire, analizzando problemi giuridici, economici, sociali. E chissà – conclude con un sorriso il professor Napolitano – magari la partecipazione – talora compulsiva – a centri di ricerca, uffici studi, fino ai famigerati think tank, nasce proprio da qui”.

    “Il mio stile è sempre stato quello di estendermi, in ogni campo, più che salire. Per me la scala del successo era più laterale che verticale”.
        Andy Warhol, 1971


    I think tank, sì. Ovvero i centri studi. Ovvero le fondazioni. Ovvero le associazioni. Ovvero le piccole lobby. Ovvero Enrico Letta. Tutti sappiamo che una delle peculiarità del lettismo – e forse andrebbe coniata sul dizionario una voce ad hoc – è quella di essere diventato sinonimo di una straordinaria capacità di cucire rapporti, tessere relazioni, costruire reti, creare aggregazioni e dar vita a un collante relazionale tra persone provenienti da varie esperienze culturali. Il tutto mettendo insieme, tra un aperitivo e un altro, trentenni e quarantenni (e qualche cinquantenne) ognuno con un profilo diverso (professori, accademici, politici, imprenditori, manager, consiglieri d’amministrazione, economisti, giornalisti, intellettuali, addetti stampa, futuri capi di gabinetto, consiglieri politici, consiglieri giuridici, avvocati, notai, scrittori) e ognuno con una storia diversa. E però tutti accomunati dall’idea di voler creare un collegamento, un “link”, tra persone desiderose di andare oltre il “partito del cazzotto” e manifestare un proprio preciso tratto identitario: l’essere trasversali. Il profilo di Enrico Letta, in questo senso, è esemplare. E lo stesso presidente del Consiglio non fa mistero (lo scrive persino nel suo curriculum) di aver messo insieme in questi anni delle esperienze importanti non solo nel mondo della politica ma anche nel settore del “networking”. Dall’Aspen Institute (dove è vice dell’ex ministro Giulio Tremonti); all’Arel (dove è segretario generale e dove Filippo Andreatta è vicepresidente); passando per il British Council (dove è “co-chairman” insieme con Christopher Francis Patten, rettore dell’Università di Oxford e presidente della Bbc); per la Trilateral (dove dal 2006 ricopre il ruolo di componente italiano, e la Trilateral è così segreta che i nomi di tutti i membri si trovano su Internet); e per ItalianiEuropei (dove è membro del Consiglio d’amministrazione insieme con Massimo D’Alema e Giuliano Amato).

    Al percorso relazional-politico va poi aggiunto quello creato dai due network lettiani, come 360 gradi (animato da Monica Nardi, oggi capo ufficio stampa di Letta a Palazzo Chigi, e dal consigliere politico di Letta, Marco Meloni, che è un po’ il Gianni Letta di Enrico Letta) e come Vedrò: il think tank bipartisan nato nel 2005 a Dro, in Trentino, coordinato da Benedetta Rizzo, e diventato, tra un aperitivo con Angelino Alfano, un’iniziativa con Nunzia De Girolamo, un cocktail con Maurizio Lupi, un panel con Andrea Orlando, un workshop con Corrado Passera, l’epicentro della trasversalità politico-imprenditoriale italiana: una sorta di Große Koalition in formato bonsai. Ecco. Se la politica del think tank viene spesso analizzata da molti smanettoni a Cinque stelle come il simbolo di chissà quale potere oscuro – er birdbergg! – che da dietro le quinte, e nel mistero più fitto, guida come una mano invisibile il governo del nipote del capo italiano di Goldman Sachs (i forum grillini sono uno spasso) il vero elemento da analizzare per spiegare l’ossessione da think tank è proprio il ragionamento offertoci da Napolitano junior sui quarantenni alla Letta: una generazione deideologizzata che ha cercato negli anni un collante diverso dalle sezioni di partito e che quel collante l’ha trovato in una zona grigia a metà tra la politica e la non politica: in quelle reti di relazione (che a volte naturalmente diventano anche reti di protezione) che ti permettono di creare contatti, di rompere il ghiaccio con le persone giuste, di riempire di bigliettini da visita i taschini del portafoglio e di avere una sorta di partito-ombra alle spalle, unito dall’inno alla trasversalità, e sul quale poter contare nei momenti di necessità.

    Nulla di male. Nulla di strano. Nulla di sospetto. Tutto alla luce del sole. Tutto più trasparente di una riunione tra grillini. Solo un modo diverso di fare politica, di trovare un collante, di costruire un’identità. “Il sistema del networking – racconta al Foglio Alessandro Alfieri, consigliere regionale lombardo, ex lettiano, oggi renziano – non ha niente di misterioso ma costituisce un modo preciso di intendere la politica. C’è chi, come Renzi, crede che il modo migliore per fare le cose in Italia sia quello di rompere, di imprimere delle rupture vere nei meccanismi del paese, e c’è chi invece, come Enrico, crede che per poter risolvere i problemi occorra fare tutto in modo pacato, sereno, silenzioso, senza strappi, senza forzature, cucendo invece che rompendo, e usando insomma non il martello o il trapano ma semplicemente il cacciavite. Per dirla in maniera più chiara: da una parte, e parlo di Renzi, c’è un modello che punta a spezzare anche in modo violento i vecchi equilibri, e dall’altro, e parlo di Letta, c’è un modello che punta invece a cambiare le cose senza traumi eccessivi, agendo con tatto, con il guanto, con delicatezza, e operando solo dopo aver messo in circolo il liquido anestetico. Cioè. Con il dialogo. Con la pazienza. Con la calma. Con le carezze, non con gli schiaffi. E con un’incessante e generosa creazione di tante e microscopiche e capillari grandi coalizioni quotidiane. Funzionerà?”.

    “Se l’unico attrezzo che possiedi è un martello, allora tratta ogni cosa come se fosse un chiodo”.
         Abraham Maslow, 1954


    Naturalmente, prima ancora della rete di rapporti trasversali costruita dal presidente del Consiglio nella quotidianità delle relazioni extra istituzionali, al centro della “Letta via” ci sono altri due elementi importanti che non possono essere tralasciati se si vuol capire qualcosa di più sulla natura del lettismo. Il primo elemento riguarda la famiglia politica, il secondo riguarda la famiglia europea. La facilità di Letta nel costruire relazioni anche al di fuori dei confini del nostro paese deriva non solo dal network creato dal premier attraverso think tank e associazioni politiche ma anche da un’esperienza apparentemente di secondo piano vissuta da Letta all’inizio degli anni Novanta, ai tempi della sua militanza nei giovani democristiani, quando, tra il 1991 e il 1994, i vertici della Dc gli offrirono la possibilità di presiedere l’internazionale giovanile democristiana. In quegli anni, quando in Europa nella pancia della balena bianca le famiglie democristiane, sia quelle più orientate a sinistra sia quelle più orientate a destra, erano ancora unite sotto un unico tetto, Letta ebbe l’occasione di costruire rapporti importanti (in tandem con Francesco Guerrini, suo amico e primo maestro politico, con cui Letta ha vissuto a Roma a metà degli anni Novanta in un piccolo appartamento a Trastevere), conobbe in Europa alcuni senior non di secondo piano (come Wolfgang Schäuble ed Helmut Kohl), e molti di quei contatti oggi stanno tornando utili al presidente del Consiglio nei suoi tour europei.

    Quanto alla famiglia politica, Letta ha cominciato a costruire il suo network interno solo in una fase relativamente recente, e al termine delle sue prime esperienze di governo. Dopo la partecipazione come ministro ai governi Prodi, D’Alema e Amato tra il 1996 e il 2001, Letta alle elezioni del 2001 non riuscì a portare alcun “suo” deputato in Parlamento e fu a quel punto che si rese conto che anche per un “politico tecnico” che ha costruito la sua carriera sul confine tra la militanza interna ed esterna al partito sarebbe stato necessario radicarsi in profondità nel tessuto della politica. La corrente di Letta nasce nel 2002 quando Enrico porta con sé all’Arel due punti fermi della sua nuova famiglia, Meloni e Nardi, e quando a poco a poco si uniscono alla compagnia alcuni volti chiave del lettismo: Francesco Sanna (vecchio amico di Letta, oggi suo consigliere per gli affari politici), Francesco Boccia (che Letta ha conosciuto ai tempi del movimento giovanile Dc) e Benedetta Rizzo (capo di Vedrò). La squadra ha il suo primo contatto con gli ambienti governativi quando Letta prende il posto dello zio Gianni a Palazzo Chigi come sottosegretario alla presidenza del Consiglio, e in quell’occasione, in un modo o in un altro, con una consulenza o con un incarico, tutti i lettiani doc cominciano a prendere dimestichezza con la macchina dell’esecutivo. L’anno successivo, poi, Letta, che nel frattempo ha dato il via libera alla nascita di Vedrò (2005) e 360 gradi (2007), decide di misurarsi con il consenso interno al centrosinistra, e nel 2007 si candida alle primarie del Pd, sfidando Walter Veltroni e Rosy Bindi, raccogliendo l’11 per cento e classificandosi terzo. Il risultato non è granché ma permette a Letta di strutturare la sua corrente e di allargare la rete anche all’interno del Pd. Oggi i lettiani in Parlamento sono ventitré (non molti) ma al di là dei singoli nomi può essere utile capire chi sono le persone più vicine e legate politicamente al presidente del Consiglio. C’è Francesco Boccia, naturalmente, oggi presidente della commissione Bilancio della Camera, e marito della “vedroide” Nunzia De Girolamo (Pdl, ministro dell’Agricoltura, e più giovane esponente del governo). C’è Marco Meloni, mente politica dei lettiani. C’è Andrea de Guttry, docente di Diritto internazionale alla Sant’Anna di Pisa, che ha seguìto Letta sia nella sua tesi di laurea sia nel suo dottorato, che è stato già capo dell’ufficio legislativo ai tempi del ministero delle Politiche comunitarie, e che oggi è consigliere del presidente del Consiglio. C’è Luigi Ferrara, 43 anni, dirigente dello stato, già vicecaposegreteria di Letta ai tempi della prima esperienza di Palazzo Chigi, vero deus ex machina dei lettiani, e oggi vicesegretario generale di Palazzo Chigi. C’è Pierpaolo Tognocchi, consigliere regionale toscano, che ai tempi della candidatura a Firenze di Renzi ebbe un ruolo importante nel dare al rottamatore un piccolo aiuto alle primarie. C’è Paola De Micheli, ruspante deputato Pd, 39 anni, all’inizio osservata con circospezione da Letta ma oggi diventata per la piccola corrente dei lettiani un punto di contatto importante sia con il mondo della Lega (è amica di Giancarlo Giorgetti) sia con il mondo della grande impresa pubblica (Eni, Ferrovie dello Stato, Enel) sia con il mondo dell’imprenditoria lombarda (De Micheli è amica intima anche di Fedele Confalonieri). Tutti nomi che hanno fatto del loro essere trasversali una cifra politica e che hanno acquistato peso negli anni anche grazie al tentativo di trasformare in “policy” il sentimento politico della pacificazione. Tutti nomi che in questi anni si sono specializzati nell’essere equidistanti dagli estremismi politici. E tutti nomi che hanno permesso al catenaccio di Enrico Letta di arrivare sulla panchina di Palazzo Chigi, di scendere in campo e di provare a guidare il paese.

    “Accettare la pace a condizioni gravose è come dar da mangiare a un coccodrillo sperando che mangi noi per ultimi”.
        Winston Churchill, 1945


    Il profilo da grande coalizzatore, da perfetto uomo di mediazione e da punto di equilibrio tra tutte le forze presenti in campo è ovviamente uno dei particolari che ha contribuito a convincere Giorgio Napolitano a puntare sull’ex vicesegretario del Pd come capo del governo di larghe intese. Letta, in fondo, è il punto di incontro perfetto tra Amato e Renzi, tra rottamatori e anti rottamatori, tra Berlusconi e Bersani, tra vecchie generazioni e nuove generazioni. Ma a pensarci bene è anche l’unico interprete possibile di quello spirito grancoalizionista e pacificatore sperimentato senza troppo successo dal Quirinale con il governo Monti. Le difficoltà del governo guidato dal prof. bocconiano, come è noto, sono state legate anche al fatto che il tentativo di depoliticizzare la politica italiana è stato affidato ai tecnici, e non ai politici: e non è un caso che in campagna elettorale i partiti non ci hanno messo molto a rinnegare l’esperienza tecnocratica. In questi mesi, Napolitano ha capito che l’unico modo per introdurre uno spirito di pacificazione non transitoria, ma definitivo, era quello di coinvolgere in prima persona i partiti e di caricarli di responsabilità. Ed è per questo che ogni volta che ne ha occasione il presidente ripete che il governo è politico al cento per cento, e che essendo tale non può che assumersi le sue responsabilità. Bene. Ma quella che per noi sembra solo una clamorosa anomalia del sistema, la grande coalizione, uno sgorbio delle istituzioni, il mostro di Loch Ness della politica italiana, negli ultimi anni è diventata in realtà un’esperienza diffusa nelle democrazie europee. E in un certo senso è quasi naturale che i due principali partiti italiani – in una fase come questa in cui i nemici sono gli stessi, Grillo, i populisti, la Merkel, i signori dell’austerity – siano stati costretti a deporre le armi e a ingerire l’anticorpo della grande coalizione.

    In Olanda, in Belgio, in Lussemburgo, in Austria e in Svizzera – vuoi per combattare la frammentazione eccessiva di un sistema politico, vuoi per far fronte comune contro le forze anti europeiste, vuoi per limare le differenze etniche e religiose tra le varie anime culturali di un paese – le grandi coalizioni sono ormai all’ordine del giorno. In Grecia è arrivata lo scorso anno; in Germania c’è stata tra il 2005 e il 2009 (e non è escluso che torni a esserci a settembre); e anche in Inghilterra il premier conservatore David Cameron è stato costretto a stringere un’inedita piccola Grosse Koalition con i liberaldemocratici. Le grandi coalizioni, però, oltre che aiutare i partiti a trovare una medicina per combattere le gravi malattie di un paese, offrono alla fine della loro esperienza offrono due diverse strade da percorrere. La prima è quella legata alla formazione di un bipolarismo nuovo (come accaduto nel Regno Unito dopo il 1945 quando dopo una lunga fase di tripolarismo provvisorio il paese prese la strada del bipolarismo, prima tra conservatori e liberali e poi tra conservatori e laburisti). La seconda è quella legata, come già successo in Austria e anche in Israele (ricordate Kadima?), a una nuova forma di tripolarismo: dove il partito di governo dopo aver tagliato le ali dà vita a un nuovo blocco e si trasforma in un partito vero. Scomposizione o ricomposizione. Diciamo pure che è questa la chiave per capire cosa rimarrà di questo governo una volta che questo governo non ci sarà più. Ed è anche questa la vera sfida che si intravede all’orizzonte tra i due gemelli diversi della sinistra italiana: Matteo Renzi ed Enrico Letta. Ovvero tra il martello e il cacciavite. Ovvero tra il prudente e infallibile catenaccio alla Trapattoni e e lo spericolato e spettacolare tridente alla Guardiola.

    “Quello che voi siete noi abbiamo contribuito a farvi essere e quello che noi siamo voi avete aiutato a farci essere”.
        Aldo Moro, 1977


    “Bisogna dire la verità – ci dice ancora Andreatta – e bisogna dire che pensare di costruire una Terza Repubblica finché ci sarà in campo Silvio Berlusconi mi sembra impossibile e io sono convinto che fino a quando il Cavaliere farà politica ci sarà una certa forma di bipolarismo coatto. Detto questo, bisogna anche riconoscere che l’esperienza di questo governo potrebbe aprire nuovi spazi e nuovi giochi. La sfida è quella di trovare, sia per il Pd sia per il Pdl, un nuovo collante politico, un nuovo tratto identitario che sia da un lato diverso dall’anti berlusconismo sfrenato e dall’altro dal semplice culto del berlusconismo: e un governo di grande coalizione a questo può servire. Bisogna però anche essere onesti e dire che questa sfida è complicata, e che per come stanno le cose oggi è probabile che alle prossime elezioni i soggetti che si presenteranno saranno diversi da quelli che si sono presentati qualche settimana fa”.

    Già. Il problema è sempre quello: scomposizione o ricomposizione? Nuovo tratto identitario o nuove identità politiche? Vecchi partiti rinnovati o nuovi scenari con nuovi partiti? La questione non è semplice da spiegare ma ci sono alcuni fatti che meritano di essere raccontati per capire per quale ragione, sia a destra sia a sinistra, giorno dopo giorno aumentano i sospetti che il partito della pacificazione portato da Enrico Letta al governo possa trasformarsi (non necessariamente per volontà di Letta) in qualcosa di più di un partito virtuale. In che senso? Vediamo.

    Nel centrodestra il ragionamento, per quanto inconfessabile, è lineare e può essere sintetizzabile con una perfida battuta offerta al cronista da un importante esponente del Pdl appena qualche ora dopo la formazione del governo. “Controlla i nomi dei ministri e scoprirai che quasi tutte le persone mandate al governo dal Pdl corrispondono a nomi dei politici non allineati, diciamo così. Quei ministri stanno su un aereo: se l’aereo arriva a destinazione Berlusconi è felice; ma se l’aereo perde quota il Cavaliere ci mette un attimo a fare la stessa cosa fatta con il governo Monti: far finta di non averli mai sostenuti”. La ricostruzione forse è esagerata (anche perché al governo c’è Angelino Alfano) ma ci aiuta comunque a capire i due atteggiamenti con cui il centrodestra segue e osserva l’esperienza del governo Letta. Atteggiamento numero uno: noi siamo pronti ad andare alle elezioni in qualsiasi momento e per farlo saremo disposti a scaricare anche i nostri amici del governo. Atteggiamento numero due: noi sosteniamo questo governo e sosteniamo il progetto di Berlusconi, ma sappiamo che quando Berlusconi uscirà di scena un partito-governo come quello di Letta è il nostro modello di partito ideale.

    E nel centrosinistra? Qui la partita è meno lineare ma gli scenari che si aprono nel Pd al tempo del governo Letta sono due, e sono interessanti. Scenario numero uno: Letta incarna l’impronta riformista suggerita al Pd da Giorgio Napolitano, costringe il suo partito a entrare in un nuovo perimetro, allontana il Pd dalle istanze della sinistra alla Rodotà (tà-tà), ingloba il centro e dà vita al vero Pd a vocazione maggioritaria: un partito cioè capace di raggiungere quantomeno quel 34 e rotti per cento ottenuto dalla sinistra non certo per caso nelle uniche due occasioni in cui la gauche ha messo in campo una sottoforma di pacificazione con il nemico (il Pci di Berlinguer nel 1976, il Pd di Veltroni nel 2008). Scenario numero due: Letta prova a incarnare l’impronta riformista suggerita da Giorgio Napolitano, il progetto però riesce solo a metà e il centrosinistra si ritrova nella stessa situazione del 1996: formalmente con un solo partito in campo ma in realtà con tre partiti di fatto: la nuova Margherita guidata da Letta e Franceschini, i nuovi Ds guidati dalla Cgil, il nuovo Asinello virtuale guidato da Renzi. Fantapolitica? Forse sì. Forse no.

    “Iodice al Foglio Arturo Parisi, prodiano, pasdaran del maggioritario – ho la massima stima di Enrico Letta e mi sembra la persona ideale per guidare un governo come questo. Detto ciò occorre riconoscere che la cultura politica di cui è espressione questo governo è la negazione del bipolarismo, è incompatibile con esso, e rischia di trascinare il paese verso una pericolosa scomposizione. Voglio dire: la grande coalizione ha senso se ha la funzione di una safety car che costringe tutti a far abbassare i giri del motore e permette poi alle macchine di tornare a viaggiare alla giusta velocità di crociera una volta finita la fase di emergenza. Le spinte però che si indovinano in questo governo mi portano a sospettare che il riconoscimento reciproco degli opposti non sia solo il preludio a un futuro bipolarismo più sano ma a un futuro in cui il bipolarismo verrà definitivamente negato. Kaput!”.
    Le parole di Parisi, naturalmente, sono le parole di un magnifico giapponese del bipolarismo che osserva con sospetto tutte le pulsioni centripete che potrebbero favorire la nascita di una nuova formazione politica in grado di seppellire il precario bipolarismo italiano (precario, ma non morto: provate a pensare che fine hanno fatto tutte le persone che hanno sfidato il bipolarismo, da Fini a Casini passando per Monti e Rutelli).

    Eppure, nella critica mossa da Parisi, una critica che ha una sua cittadinanza anche nel Pd, esiste un elemento importante che aiuta a capire meglio il senso culturale della sfida tra il martello di Renzi e il cacciavite di Letta. La questione è semplice: Renzi, pur con tutti i suoi limiti, ha sempre affermato che l’Italia ha bisogno di imporre un bipolarismo maturo che possa favorire la formazione di due grandi partiti capaci di andare all’attacco, di rinunciare al catenaccio, di distruggere le forze di centro e di offrire agli elettori, attraverso l’imposizione di leadership forti, carismatiche e dunque divisive, un quadro politico semplificato: o stai con me o stai con loro. Letta invece – pur essendo uno dei fondatori del Pd, pur essendo uno dei più convinti sostenitori del progetto democratico e pur essendo stato in questi anni uno degli esponenti del Pd che ha sempre creduto nel progetto di aggregazione del Pd – è portatore di un’idea politica diversa, in cui la formula del bipolarismo non esiste più ed è sostituita da un concetto diverso: il tripolarismo, ovvero la definitiva e forse risolutiva separazione dell’elettorato italiano in tre grandi vasi non comunicanti. Letta lo ammette con onestà nel suo saggio-manifesto, scritto nel 2008 per Mondadori (“Costruire una cattedrale”), e di quel libro ci sono tre passaggi che meritano di essere riportati. Pronti? Via.

    Passaggio numero uno: “Con le elezioni regionali del ’95 il sistema politico italiano cambia sotto il segno del bipolarismo. Con le elezioni del 2008 questo equilibrio ha iniziato a scricchiolare e per la prima volta in quindici anni si è registrato un primo movimento dell’elettorato rispetto al bipolarismo. Tanto che oggi il sistema politico italiano fatica a reggere la pressione dell’elettorato e della società verso nuovi modelli di aggregazione. E’ come un vestito vecchio che ci si ostina ad adattare a un corpo che cambia. Il vestito non ci sta più, si strappa, va sostituito”.

    Passaggio numero due: “L’impressione è che dal bipolarismo imperfetto sperimentato fino a oggi si stia gradualmente entrando in uno scenario diverso, ben più fluido, favorito dal passaggio da una legge elettorale con collegi uninominali all’attuale sistema proporzionale. Così la società italiana pare frazionata in tre grandi segmenti: progressisti, moderati, populisti. I tre segmenti si equivalgono, nessuno è prevalente”.

    Passaggio numero tre: “La marginalizzazione della componente estrema e la sua esclusione dal Parlamento hanno, comunque, assegnato al Pd un compito più pesante di quanto si potesse prevedere: rappresentare, contemporaneamente, le istanze di sinistra, orfane della componente massimalista, quelle genericamente progressiste e quelle più moderate, che sono state determinanti per le due vittorie del centrosinistra degli ultimi quindici anni. Un compito straordinario, forse eccessivamente oneroso per un partito solo. Perché l’articolazione della rappresentanza pare troppo complessa per essere ridotta a una sola voce”.

    Intendiamoci: Letta, anche se all’epoca del libro l’espressione “populisti” era sinonimo di Pdl, aveva previsto che lo scenario futuro sarebbe stato caratterizzato da una ripartizione in tre grandi blocchi – conservatori (Pdl), progressisti (Pd), populisti (Movimento 5 Stelle) – e non tra una forza di centro, una di sinistra e una di destra. Eppure, così ragionano in molti nel Pd, il solo fatto che nella testa di Letta ci sia una suddivisione del paese in tre scompartimenti stagni non aiuta a tranquillizzare i romantici del bipolarismo sul futuro della sinistra nel dopo governo Letta. E se il Pd costringesse Letta a trasformare il governo in un partito? E se Letta, come diversi suoi predecessori, fosse tentato dal dare una nuova forma di cittadinanza allo spirito di pacificazione di questo governo? Il punto è sempre quello. Composizione o ricomposizione? Martello o cacciavite? Catenaccio o tridente? Letta o Renzi?

    Non insegno chimere, le lascio a Sacchi. Icaro volava, ma Icaro era un pirla”.
        Giovanni Trapattoni, 2001


    Nella storia di Enrico Letta, e in tutte le cinquanta sfumature di grigio che compongono il mosaico del lettismo di governo, quello che manca, tra una relazione e un’altra, un network e un altro, un’intesa e un’altra, un’amicizia e un’altra, è una figura che solitamente semplifica la vita dei cronisti quando si ritrovano a scrivere il ritratto di una persona famosa: il nemico. Con un nemico infilato all’interno della fabula è più facile descrivere il profilo di un politico: si costruisce la scena di una battaglia, si ripercorrono le differenze, si studiano le storie parallele, si fa scorrere un po’ di sangue, e insomma viene meno complicato raccontare un personaggio. Enrico Letta, invece, a differenza di quasi tutti, anzi, probabilmente tutti i leader del centrosinistra, ha come caratteristica quella di non aver mai avuto dei veri nemici (a parte Rosy Bindi – ma chi nel Pd può, anche con affetto, dirsi non bindiano?). E parte del percorso dell’ex vicesegretario del Pd è stato semplificato anche da questo particolare non di poco conto. Oggi che però Enrico Letta è arrivato a Palazzo Chigi (e oggi che il Cencelli di governo ha sfamato gli appetiti di tutte le correnti di Pd e Pdl) per la prima volta nella favola lettiana si indovina quello che nei prossimi mesi sarà il vero e naturale avversario del compagno Enrico: Matteo Renzi.
    Tra Renzi e Letta – pur provenendo entrambi da famiglie politiche identiche, pur avendo militato entrambi negli stessi partiti, e pur essendo passati entrambi prima dai giovani democristiani, poi dai Popolari, quindi dalla Margherita – vi è la stessa differenza che esiste nel calcio tra i teorici del catenaccio e i fanatici del tridente. E non è difficile indovinare che l’antagonista principale di questo governo, prima ancora di Berlusconi, sarà proprio il sindaco di Firenze. Che nonostante la giovane età (nove anni in meno di Letta) sa che la propria freschezza rischia di essere inversamente proporzionale alla durata di questo governo. Ecco. Renzi oggi dice di voler essere fedele a Letta, Letta crede che a Renzi non convenga far cadere il governo, i renziani dicono che Matteo non ha intenzione di fare scherzi all’amico Enrico, i lettiani dicono che il futuro del Pd si chiama Matteo, gli amici di Renzi dicono che il percorso dei due è sovrapponibile eccetera eccetera. Ma la verità è che al di là delle buone intenzioni ciò che preoccupa Renzi (che è consapevole del fatto che più questo governo durerà e più ci saranno buone possibilità che Letta sia il suo rivale quando si andrà a votare) riguarda un sospetto che il sindaco, come molti bipolaristi del Pd, ha dal giorno del giuramento di governo, e dalla nascita ufficiale a Palazzo Chigi del “dorolettismo”: che questo esecutivo, per uno strano gioco di debolezze incrociate, non abbia la forza per permettersi strappi e che sia destinato a governare, governare, governare.

    “Il doroteismo – dice a Marco Damilano in ‘Democristiani immaginari’ Ruggero Orfei, storico consigliere di Ciriaco De Mita – si adegua, si adagia alla realtà, accompagna i fenomeni, si adatta alla società come un guanto alla mano. Il doroteismo è un micidiale smussatore di differenze, un gigantesco puff di ovatta su cui anche il siluro più distruttivo è destinato a impattare, un coccolino ammorbidente di ogni contrasto. Con una dedizione feroce, però, alla conquista e al mantenimento del potere”.  D’altronde, il democristiano, giovane o vecchio che sia, è storicamente specializzato nell’arte dell’essere eternamente in bilico, ed eternamente al comando. E chissà, come sussurra oggi con malizia qualche amico di Enrico, che Letta in questo campo non abbia imparato qualcosa dallo zio e da quella simpatica storia che nella famiglia Letta nessuno ha dimenticato. Di quando cioè Gianni, prima di diventare il Letta che tutti conosciamo, arrivò a Roma a Largo Chigi, salì al primo piano del Tempo, si insediò nel suo ufficio da direttore e scrisse il suo primo editoriale. Era il 1973 e in quell’occasione Letta utilizzò le stesse parole utilizzate anni dopo dalla plancia di comando del governo da suo nipote: “Sono provvisorio”. Quattordici anni dopo però Letta era ancora lì.

    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.