Il capitalismo e l'industria sono roba di banditi! Ma Squinzi tace e acconsente
I silenzi del patron della Mapei e dell’industria italiana sono ermetici e incomprensibili, per non parlare delle elusioni dei giornali cosiddetti borghesi e della classe dirigente (esclusi solo i tecnici oggi malfamati della compagine di Mario Monti)
I silenzi del patron della Mapei e dell’industria italiana sono ermetici e incomprensibili, per non parlare delle elusioni dei giornali cosiddetti borghesi e della classe dirigente (esclusi solo i tecnici oggi malfamati della compagine di Mario Monti). Il cazzone gergale che è in me direbbe che questi silenzi sono assordanti. Non voglio fare il bastian contrario, però mi domando se il capo di Confindustria non avesse il dovere di interrogarsi e di interrogarci sulla questione Ilva. Secondo Giorgio Squinzi l’unica vera ricchezza italiana, alla fine, e l’unica che può riportare ad altezze compatibili con un qualche benessere l’indice della ricchezza nazionale prodotta (il Pil), è il settore manifatturiero. Senza la ripresa della manifattura, niente ripresa in generale. Nella manifattura la produzione dell’acciaio ha un suo senso, un suo peso se non una sua centralità. Niente, non una parola sull’Ilva in rotta. E’ l’analogo del silenzio di Squinzi sulla Fiat, che sta comprandosi la Chrysler e sta emigrando non solo fiscalmente dall’Italia, dopo essere emigrata proprio da Confindustria perché l’organizzazione padronale è giudicata troppo corporativa e concertativa, inabile a un sistema di relazioni sindacali in grado di aumentare la produttività di lavoro e capitale e di sottrarsi, come per l’Ilva, al nuovo metodo regolativo delle sentenze e ordinanze e decreti della magistratura.
Non credo che abbiano ragione Sofri e Viale o i più radicali tra i movimentisti che intendono cambiare di brutto il sistema industriale, prodotti e modi di produrli. E’ una vecchia questione, che dura dalla fine degli anni Sessanta. C’è chi pensa, anche molto autorevolmente, anche con argomenti solidi, che si debba modificare nel profondo il cosiddetto modello di sviluppo sulla base del quale l’occidente capitalistico aveva stabilito i suoi primati. Non solo i suoi profitti d’impresa, anche i suoi primati d’un tempo nella struttura dei salari, nei diritti sindacali, nel benessere di grandi masse venute dalla povertà rurale precedente ai consumi, ai mercati liberi e aperti eccetera. Negli anni Sessanta questo era un modo di vedere le cose mutuato dalla tradizione socialista e marxista aggiornata al presente, e si poneva una questione di potere costituente, un tema rivoluzionario e di sovversione del rapporto sociale particolare che è il capitalismo moderno. Oggi la stessa cosa si ripropone entro nuovi schemi, con gli accenti e le ragioni di un’utopia concreta fondata sull’ecologia del pianeta, la custodia del creato, il rispetto della salute come bene comune e pubblico.
Le coordinate sono sempre le stesse, ma il linguaggio, se non anche lo scopo, è cambiato. I comunisti movimentisti (non il Partito comunista) volevano abbattere l’animale del profitto d’impresa, i socialdemocratici (e in questo il Pci era industrialista e socialdemocratico fin da allora) volevano tosarlo. Ora l’idea di fondo è che l’animale sia morto di febbre finanziaria, e che si debba generare, con furia riformatrice e umanitaria, con argomenti spesso di devastante potenza, un nuovo animale mitico, il cui codice genetico però è sconosciuto, e che non trova posto in un mondo in cui l’oriente (ex comunista) e il mondo che una volta si chiamava “terzo” si sono affiancati in gara mortale all’occidente, in un ciclo privatistico e produttivistico che subisce fallimenti ma è, come si dice, ormai globale.
Non potendo sapere che cosa ne pensano gli industriali, perché attraverso Squinzi e Confindustria gli industriali hanno smesso di pensare, ho letto con scrupolo e amicizia raddoppiati le potenti analisi e le conclusioni di Sofri sull’Ilva (Repubblica di sabato scorso), così come spesso leggo con altrettanto scrupolo quelle di Viale sulla Fiat (il Manifesto, e talvolta anche il Foglio). Il segno del tutto, passando senza paraocchi e pregiudizi dentro le loro argomentazioni, è tuttavia questo, ed è rinunciatario ed evanescente sul piano storico e politico e sociale: la produzione dell’acciaio è fottuta, se stiamo alla giusta critica materiale e giuridica del pm di Taranto che la sta decomponendo nei suoi particolari, e che con l’ultimo sequestro simbolico ha qualificato come fuorilegge, punto e basta, la più grande impresa europea degli acciai, un colosso italiano che crea molto lavoro ma è concepito in termini di diritto come una fabbrica di ingiustizia e di morte; bisogna passare ad altro, con i soldi dello stato che non ci sono, e questo altro non si sa che cosa sia; e il grande esproprio ecologico-proletario dovrebbe allargarsi a tutto il resto, sempre in nome di un’idea regolativa di tipo umanitario di quel che è il lavoro, di quel che è la salute, di quel che è il ciclo della produzione industriale; e l’aggressione liberatrice dovrebbe, perché no?, raggiungere anche la lepre di Marchionne, il quale cerca con una certa lungimiranza di sottrarsi alla malattia italiana, semplicemente diventando americano. Nelle loro parole il capitalismo è fottuto, anche per decreto giudiziario superiore alle sentenze della Corte costituzionale e alle leggi dello stato, e senza che si sappia che cosa mettere al suo posto, come letteralmente combinare il pranzo con la cena per milioni di persone.
Avranno torto, i vecchi movimentisti, ma non è il silenzio di Squinzi e dei soliti economisti, sociologi e intellettuali e chierici traditori a potersi porre come interlocutore fattivo e serio e responsabile di una procedura, forse astrattamente giusta, che a me pare negli esiti follemente nichilista. Il capitalismo, se c’è, batta un colpo e si dia da fare, oppure si rassegni a essere rilevato e sovvertito da una nuova cultura che tratta come banditi le industrie e i capitali.
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