Mr Twitter Pepys

Stefano Di Michele

Ora che il “buco della serratura” che fu si è dilatato in una sorta di enorme “buco nero” planetario, che la povera vanità personale sovrasta ogni personale esigua qualità – nel reciproco, continuo, assillante spiarsi e dichiararsi e insultarsi su Facebook e su Twitter, piazze pseudo-democratiche e orinali stracolmi di risentimento: tu venduto, tu cornuto, tu servo, datte foco!, ladro e spia e frocio e sacco di merda e vaffanculo: il cinguettare come un ringhiare di cani (alla catena, però) – va almeno reso onore e memoria all'uomo che prima di ogni altro, secoli fa, fece feroce autovivisezione di sé e ferocissima vivisezione degli altri, e ne lasciò testimonianza in centinaia e centinaia di pagine: Samuel Pepys

    “In fondo è davvero un mondo pazzo quello nel quale viviamo…” (Samuel Pepys, 23 ottobre 1668, “Diario 1659-1669”).

    Ora che il “buco della serratura” che fu si è dilatato in una sorta di enorme “buco nero” planetario, che la povera vanità personale sovrasta ogni personale esigua qualità – nel reciproco, continuo, assillante spiarsi e dichiararsi e insultarsi su Facebook e su Twitter, piazze pseudo-democratiche e orinali stracolmi di risentimento: tu venduto, tu cornuto, tu servo, datte foco!, ladro e spia e frocio e sacco di merda e vaffanculo: il cinguettare come un ringhiare di cani (alla catena, però) – va almeno reso onore e memoria all’uomo che prima di ogni altro, secoli fa, fece feroce autovivisezione di sé e ferocissima vivisezione degli altri, e ne lasciò testimonianza in centinaia e centinaia di pagine (accuratamente copiate, rilegate, affidate ai posteri: se non ha avuto la rapidità del digitale, certo ha mostrato la durata nei secoli): Samuel Pepys. Fu funzionario statale di primaria importanza, fece parte dell’establishment più influente nell’Inghilterra seicentesca di Carlo II e di Giacomo II, fu infine membro del Parlamento. Era corrotto, era una sorta di molestatore sessuale, era insensibile. Raccoglieva tangenti, frustava e bastonava la servitù, tradiva la moglie, contava i soldi, soffriva di stitichezza, faceva ricatti – e ogni tanto la morale a qualcuno: in nome di Dio, del re, della personale sua convenienza. Aveva spiccate qualità che predisponevano (predispongono) alla politica – e politica fece. Era anche curioso, bibliofilo (lasciò alla sua morte oltre tremila volumi: un’immensità, per l’epoca), appassionato di musica. Era cinico – il cinico perfetto, quello che non pensa di esserlo, il cinico inconsapevole: così che del suo cinismo fece il capolavoro (l’unico possibile) della sua vita. Il suo “Diario”, che copre in pratica dieci anni – tra il 1659 e il 1669 – ha appunto questa qualità di assoluto cinismo: siccome Pepys niente nasconde, e di nulla si fa scrupolo, diventa la sua perfetta testimonianza, con il ritmo e il distacco di un verbale di questura. C’è tutto, senza veli. Quasi come su Facebook e Twitter: dove c’è tutto, ma senza vergogna.

    Il re sciocco e incapace che si perde tra le sue amanti e la caccia mentre il paese sprofonda nella miseria e la guerra con l’Olanda volge al peggio, le trame dei consiglieri, la peste di Londra, il grande incendio che distrugge la città. La purga che non funziona, i pidocchi nella parrucca e nella camicia, le “mammailles” delle innumerevoli amanti, gli occhi che ancora giovane gli affaticavano scrivere e leggere. Un quasi perenne priapismo, “sono andato a Westminster poi dalla signora Martin dove ho fatto tout ce que je voudrais avec elle… Nella serata ho trovato modo di andare dalla Begwell e lì… ho fatto tutto ciò che volevo”, il perenne contare e ricontare i suoi soldi, dei quali dà puntuale conto nei “Diari”, “facendo i miei conti mi accorgo che posseggo oltre 6.200 sterline, per la qual cosa sia benedetto il Nome del Signore!”, il perenne annotare i pasti e il vino e le tristi notti coniugali, “a mezzanotte sono andato a letto e, poiché mia moglie aveva preso una purga, è stata molto disturbata durante tutta la nottata” – perfetto anticipo della valutazione sul matrimonio, oltre due secoli prima, di Maupassant, quale “scambio di cattivi umori di giorno e di cattivi odori di notte”. Ciò che vede e ciò che fa, Pepys annota: completamente sincero, completamente impunito, in qualche modo completamente e paradossalmente e ipocritamente innocente, “ella è venuta e si è seduta al mio fianco mentre io la baciavo. Intanto le ho dato i migliori consigli che potevo, esortandola a temere Iddio…”. Non ha pudore, non ha misura, non ha vergogna, Samuel Pepys – carogna non più di altri, ma carogna splendidamente rivelata. Sono, i suoi “Diari” (su qualche bancarella di libri usati si trova ancora l’edizione Bompiani dei primi anni Quaranta, una sintesi a cura di Milli Dandolo degli otto volumi complessivi), nella loro meravigliosa spudoratezza, sorta di annuncio dei social network che verranno – con questa sostanziale differenza: che Pepys sapeva di essere orrendamente normale (“ha voluto farmi salire sulla torretta di dove si vedono penzolare le teste di Cooke e di Harrison decapitati per tradimento ed esposti ai due angoli del palazzo di Westminster. Li ho veduti proprio bene e ho potuto anche dare un’occhiata al panorama di Londra. Da un paio di giorni mia moglie è molto tormentata dai foruncoli”), i cinguettatori attuali ritengono spesso di essere piacevolmente migliori. Sa di non avere gloria, il dottor Pepys, né prova a darsela – oltre ai soldi e alle donne e ai traffici frivoli e loschi della corte: “Tornato a casa ho fatto un po’ di riassunto di questa giornata di contentezza e di malinconia, come quasi tutte le giornate della mia vita”.

    E i servi (del potere, dell’altrui parte politica, del padronato) di cui con avidità moralizzatrice vanno a far mattanza in rete, l’uomo che teneva la contabilità della marina di Sua Maestà li picchiava direttamente, con carognesco disappunto: “Stamattina mi sono accorto che la ragazza di servizio non aveva disimpegnato alcune faccende secondo il mio desiderio; allora ho preso una scopa e glie ne ho dato tante da farla gridare. Le sue grida mi hanno un po’ seccato…” (1° dicembre 1660). “Ho appreso da mia moglia e dalle fantesche alcune marachelle del ragazzo; così l’ho fatto chiamare e con la frusta l’ho picchiato finché non è stato più in grado di muoversi… Alla fine, non volendogliela dar vinta, gli ho tolto la giubba e la camicia e l’ho frustato di nuovo… Sono andato a letto col braccio che mi doleva dalla stanchezza” (21 giugno 1662). “Stamattina ho dovuto frustare il ragazzo con tanta forza da sentire due o tre volte il bisogno di riposarmi per riprender fiato” (24 aprile 1663). “Stamattina non ho trovato una chiave al suo posto e ho dovuto aspettare cinque minuti il mio servo che non era pronto; allora mi sono lasciato trasportare dalla collera e l’ho preso a pugni…”. (6 giungo 1666). Insomma: un grande stronzo, un sadico manesco – persino e ben oltre i tragici rapporti di classe di allora – che fa preciso resoconto delle frustate date e del dolore dei suoi muscoli, del pasticcio di fagiano servito a tavola, di quanti scellini ha speso nella taverna, dei “noiosi sermoni” domenicali a cui assiste, noia peraltro compensata dalla visione impura e irresistibile del profano ben più del sacro. Chiesa di San Dunstan, giorno del Signore (18 agosto 1667): “Ero in piedi accanto a una bella ragazza, dall’aspetto assai modesto: ho cercato di prenderle prima le mani poi di stringerla alla vita ma lei si allontanava sempre più da me facendomi capire che non desiderava esser disturbata. Alla fine l’ho vista prepararsi con uno spillo, pronta a pungermi qualora avessi rinnovato uno dei miei tentativi. Naturalmente me ne sono astenuto, ben felice di aver sorpreso il suo malefico disegno. Allora mi son messo a fissare un’altra ragazza in un banco vicino e i miei sguardi sono stati ricambiati. Fatto ardito le ho preso una mano ed ella non si è scostata…”.

    Il “Diario” di Samuel Pepys è oggetto di un piccolo culto in rete. Come un vasto mare che tutto contiene: dove gli scrittori con pretese letterarie minacciano sempre di mettere a nudo la propria anima, dove i cinguettatori di oggi assicurano sempre di voler mostrare la propria indignazione, Mr Pepys è il suo corpo (avido di sesso, di cibo, di soldi soprattutto) che spoglia ed esibisce e quasi ci fa annusare. Nessuna morale: è questo che lo rende insuperabile. Ci avrebbe altrimenti lasciato pedenti annotazioni sulla crisi della sua società, sul declino dei costumi, ammonimenti per figlioli (che non ebbe) ed esortazioni per i posteri (che di solito se ne disinteressano). Invece, facendo semplicemente la nuda cronaca di se stesso, ha tramandato l’esatto ritratto di un’epoca – esatto fino ai pidocchi, fino alle uova di pidocchi nella parrucca, ai cessi e alle coliche, ai grandi libri (“dal mio libraio dove ho acquistato gli ‘Essais’ di Montaigne, in inglese”) e ai libri di devozione (“sono tornato dal libraio per comperarmi ‘Il libro dei Martiri’”) fino ai libri che sollazzano la sua fantasia di pornografo e di incontenibile sessuomane – godere e subito dopo incenerire. “Sono stato dal mio libraio e ho acquistato il volume ‘L’escholle des filles’. Ne ho preso una copia senza rilegatura perché ho intenzione di distruggerlo appena letto, perché non è libro che può figurare in un elenco senza portar vergogna a chi lo possiede”. E il giorno dopo (9 febbraio 1668, rubricato quale ‘giorno del Signore’): “‘L’escholle des filles’ è certamente un libro impudico, ma è bene che un uomo timorato lo legga perché si renda conto della cattiveria del mondo, e a titolo di informazione… Ho finito di leggerlo in serata e l’ho bruciato subito perché non si trovi fra gli altri libri di mia proprietà”. Sempre Pepys si muove – senza crisi esistenziale né vergogna, piuttosto con disincanto e un po’ di noia – tra apparenza della virtù e sostanza del vizio. “Sono andato alla Taverna del Cigno a bere e a divertirmi un poco con Francesca la sguattera. Sono poi andato in chiesa ma non ho visto niente di straordinario perché non hanno fatto che celebrare una messa cantata”. Del resto, di Dio l’onorevole funzionario dell’Ammiragliato doveva avere particolare visione – che fosse di manica piuttosto larga con le sue opere e le sue intenzioni: “Ho preso la purga e Dio mi perdoni, ho passato la giornata leggendo qualche romanzetto francese”. “Ieri sera ho preso una pillola prescrittami da Holliard, e così stamattina sono andato di corpo due volte, e non mi sono potuto recare in chiesa”. Nessun rimorso, mai, nessun timore di Dio stesso, nessuna intima lotta, segnalava Emilio Radius nella prefazione dall’edizione del 1942: “Niente di tutto ciò: debole superstizione, invece, ed abitudine. E desiderio di conciliare il pacifico soddisfacimento dei piaceri col rispetto del dio nazionale mezzo biblico e mezzo britannico, moltiplicatore puntuale dei patrimoni dei buoni sudditi inglesi” – erano, peraltro, quelli gli anni nostri della Perfida Albione.

    Comunque, non c’è quasi giorno in cui Pepys nel suo “Diario” non parli di qualche avventura – poco galante, di solito: sveltine negli anfratti delle bettole, toccamenti nelle mercerie, molestie alle mogli altrui, rapidi assalti nel suo ufficio, palpeggiamenti alle serve di casa (pre o post bastonatura). E dame di compagnia, cameriere, lettrici, mogli di impiegati, donne rimorchiate per strada o in chiesa. “Ho trovato in ufficio la domestica di Griffin che faceva la pulizia, e, Dio mi perdoni, che desiderio mi ha preso di lei”. “Pioveva, così sono entrato in una birreria e ho abbracciato più volte la ragazza che serviva”. “Mentre Deb mi pettinava e io ne approfittavo per toccarla con le mie mani col più grande piacere”. “Una dispendiosa scostumatezza”, fu appunto scritto. “Dal barbiere ho rivisto Jane e l’ho accarezzata. In ufficio ho fatto parecchi affari che spero mi renderanno bene; poi è venuta la moglie di Bagwell e l’ho baciata ripetutamente”. Pochi giorni dopo, stessa scena: “Sono poi andato all’ufficio dove mi aspettava la moglie di Bagwell. L’ho molto accarezzata e la trovo sempre più arrendevole, forse in virtù della promessa di trovare un posto di lavoro a suo marito”. Scrupoli a intermittenza, mai capaci di prevalere: “La poveretta mi guardava con occhi pietosi e io mi vergognavo un poco di ciò che facevo, ma poi dopo molte insistenze e molte proteste da parte sua sono arrivato con gran piacere a far ciò che desideravo”. Esito finale: “Oggi sono entrato dalla signora Bagwell (era già notte) e ho fatto ciò che ho voluto, però con qualche perplessità perché mi ha detto che la sua domestica è morta di peste…”. E la consorte del povero Mr Bagwell, certo destinato a diventare cornuto oltre che a farsi forse stipendiato, non è l’unica a subire questo trattamento. C’è una certa signora Lane, merciaia. “Nel negozio ho infatto comprato dei pizzi, poi mi sono un poco divertito con lei e le ho promesso di fare qualche cosa per suo marito”. Ancora: “Ho potuto sbaciucchiarla a mio piacere e fare tutto ciò che volevo con lei… eccettuata… l’ultima cosa”. Dalla stiratrice anziché la madre trova la figlia, “potrei benissimo amarla”. Arriva una certa signora Clerk di Greenwich, con sua figlia, “che aveva bisogno di parlarmi. Ho condotto la giovane signora in camera mia. Si trattava di far ottenere a suo marito una ordinazione per un nuovo battello di piacere. Ho avuto l’occasione para baiser elle et toucher ses mamelles…”. E’ la volta della “piccola signora Tooker che ha consentito a cenare con me. L’ho trattenuta fino a tardi, mi son fatto pettinare e ho finito per fare quello che volevo con lei”. Dalla cena della sera alla colazione del mattino, un’identica pulsione: “Mi sono alzato e mi sono fatto pettinare dalla mia piccina con la quale sono stato amabile fino a porre le mani sulle cose del suo seno…”.

    Spesso, resocontando i particolari delle sue avventure sessuali, Pepys usa uno strano linguaggio – un misto di diverse lingue, vere e di sua invenzione. “Nel pomeriggio ho fatto una passeggiata e mi sono incontrato con le signore Bagwell, madre e figlia: sono andato con loro, in casa della figlia e lì faciebam le cose que ego tenebam a mind to con elle”. Dove non arriva con le mani – quando non ha da molestare serve o bottegaie – Mr Pepys arriva con la fantasia. Così, “la notte ho sognato che me la spassavo, a letto con Lady Stewart”, e persino “nella notte ho sognato di essere a letto con la Regina”. Sua moglie ogni tanto gli dice il fatto suo – dopo averlo trovato a smanettare tra le tette di una serva, “lei è andata su tutte le furie e mi ha insultato chiamandomi cane, mascalzone e farabutto. Siccome sapevo di meritare tutto, sono stato zitto…”. Zitto, ma sospettoso. Così, conoscendo per pratica esperienza la disponibilità delle signore londinesi, è preso da attacchi di gelosia nei confronti della sua, di moglie – sottoposta, pertanto, a curioso controllo. “Questa gelosia che mi tormenta è un vero flagello. Mi vergogno di dover ammettere che mi sono curvato per vedere se mia moglie portava come al solito le mutande, o se vi fosse cosa che potesse dar corpo ai miei sospetti”. “La gelosia mi ha spinto fino a sorvegliare se i letti erano in disordine”. “Ho sorvegliato mia moglie mentre si vestiva per vedere se metteva le mutande – cosa che ha fatto, poveretta…”. E intanto: “Mia moglie mi ha mandato a chiamare dall’ufficio per mostrarmi la bella dama di compagnia che ha deciso di assumere. Non mi pare una gran bellezza, ma è molto graziosa, troppo per la verità. Temo che le sue grazie mi costringano ad occuparmi troppo di lei, a danno della mia tranquillità coniugale”. E si ricomincia…
    Ancor più sfacciato il resoconto preciso – le somme, l’occasione, il luogo – delle tangenti percepite: “Lì è venuto a trovarmi il giovane capitano Beckford, il rigattiere, e mi ha presentato una borsa con dell’oro, dicendomi che me ne faceva un dono per fine d’anno… Dopo reiterate insistenze non ho potuto far altro che accettare; e così dopo abbiamo parlato dell’affare che lo interessava e ci siamo quindi separati”. “… mi ha voluto regalare un magnifico catino d’argento…”. “Mi ha anche confessato di aver guadagnato cinquemila sterline col bottino turco promettendomi una percentuale pari a quella che aveva Povy prima di me”. “… egli si è impegnato ad assicurarmi 500 sterline di guadagno per la vendita del bottino di guerra”. “L’affare del vettovagliamento va secondo i miei desideri. Ora devo pensare al modo di trarne qualche profitto…”. “C’è stato un trattenimento assai piacevole, dopo di che avendo ottenuto da lui la promessa di denaro che ero venuto a cercare…”. “… è venuto a casa e ha depositato sulla mia scrivania venti pezzi d’oro che non ho rifiutato, ma che mi aspettavo fossero assai di più. Del resto è meglio che niente…”. “Dopo cena Luellin mi ha portato in un’altra stanza e mi ha dato 50 sterline per il piacere che gli devo fare…”. Conta e riconta, come un Arpagone di Sua Maestà, i piatti e i bicchieri d’argento, “ne ho due dozzine e mezzo”, conta e riconta le monete, le sterline e i pezzi d’oro. Conta, infine, anche i pidocchi che lo affliggono, “da sei o sette giorni ho dei fastidiosissimi pruriti. In definitiva mia moglie si è accorta che avevo dei pidocchi: ne avevo una ventina fra grandi e piccoli sul corpo e in testa”. Si concede il lusso surreale di qualche impennata moralistica – “a Corte c’è un sistema di vita fatto di vizio, di leggerezza, di indolenza, e tutte le persone ben pensanti prevedono la rovina del Regno. Da questo Dio ci preservi!”: e esattamento in quel sistema di vizio e indolenza, apparentemente deplorato, Pepys si specchia e si riconosce.

    Poi i suoi occhi cominciano a faticare sempre di più, “mi dolgono terribilmente”, inizia a vedere confusamente. Neanche “il nuovo sistema di tubi di carta” (gli occhiali di allora) aiuta. E dopo dieci anni chiude il suo strepitoso “Diario” – la testimonianza più credibile di un Regno in dissoluzione e di un uomo che in questa dissoluzione accumula, gode e un po’ si dispera. “E chiudo. E’ un poco come se vedessi il mio cadavere scendere nella tomba. A questo e a tutti i malanni che accompagneranno la mia cecità, Dio voglia rendermi preparato!”. Così uscì da Twitter Mr Pepys, che tanto bene aveva frequentato: ancora invocando Dio, ancora lodando il re, ancora passando le monete tra le mani e ancora – e sempre passando le mani tra i seni di qualche povera serva.