Indecisi a tutto
L'immobilità italiana, l'assenza di una classe dirigente che guidi il paese e l'esempio di Necci
L’uscita del libro di Luigi Bisignani ha spinto i media a scatenarsi per l’ennesima volta sul tema dei “poteri forti” e dei “poteri occulti”. La lettura è sempre la solita: l’Italia è in crisi perché c’è chi ha accumulato troppo potere e lo usa per farsi i fatti suoi. Peccato che il problema italiano sia, al contrario, la debolezza, per non dire l’inesistenza, dei poteri. A cominciare da quello politico e istituzionale, marchiato a fuoco da un tasso di indecisionismo senza eguali nei paesi più avanzati. E per finire con il potere economico e finanziario, piegato da vecchie guerre intestine, dalla scomparsa dei grandi gruppi e da una crisi recessiva senza precedenti. Poteri deboli, non forti.
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L’uscita del libro di Luigi Bisignani ha spinto i media a scatenarsi per l’ennesima volta sul tema dei “poteri forti” e dei “poteri occulti”. La lettura è sempre la solita: l’Italia è in crisi perché c’è chi ha accumulato troppo potere e lo usa per farsi i fatti suoi. Peccato che il problema italiano sia, al contrario, la debolezza, per non dire l’inesistenza, dei poteri. A cominciare da quello politico e istituzionale, marchiato a fuoco da un tasso di indecisionismo senza eguali nei paesi più avanzati. E per finire con il potere economico e finanziario, piegato da vecchie guerre intestine, dalla scomparsa dei grandi gruppi e da una crisi recessiva senza precedenti. Poteri deboli, non forti. Altro che P2 e P4, qui il problema è che non comanda più nessuno, non c’è verso di prendere una decisione. L’unica scelta che funziona è l’esercizio del diritto di veto. D’altra parte, la politica è screditata, le istituzioni sono deboli e in conflitto tra loro, la burocrazia è sorda e cieca, il capitalismo è rimasto senza capitani, le parti sociali sono ferme a vecchie liturgie: se l’Italia declina è perché manca una classe dirigente autorevole capace di esercitare il potere – democratico, s’intende – senza il quale c’è spazio solo per il populismo (che alligna a destra) e la retorica massimalista (che sta a sinistra).
Affronto questo tema indotto anche e soprattutto dalla ricorrenza della morte di Lorenzo Necci, avvenuta sette anni fa esatti. E siccome Necci era “un uomo ad alta velocità” che viveva in un paese che già allora, e da molto tempo, era “bloccato”, rievocarne la figura, come fa un bel libro (“Memento. La mia storia”, edito da Magi in collaborazione con l’agenzia Dire) e come è stato fatto in un incontro promosso dalla Fondazione Necci gestita dalla figlia Alessandra, non può che aiutarci a trovare il bandolo della crisi italiana. Perché, in effetti, la figura di Lorenzo Necci incarna alla perfezione la dicotomia tra una visione innovativa e dinamica del futuro, come era la sua e come ci vuole se s’intende uscire dall’impasse strutturale in cui siamo, e la difficoltà di realizzare qualunque progetto in un paese “indecisionista” come è l’Italia. Non è un caso che Necci seppe conquistarsi un ruolo da prim’attore negli anni 80 e nella prima parte del decennio successivo, rinnovando in modo significativo settori produttivi strategici come quelli della chimica, dell’energia, dei trasporti e della logistica. Poi quando la narrazione (per dirla con Vendola) prese il posto del pragmatismo, e alla condanna della politica (Tangentopoli) si accompagnò la gogna per i manager pubblici ribattezzati “boiardi di stato”, ecco che il “padre della Tav”, chi aveva trasformato le vecchie Fs in una moderna società per azioni e guardava a una trasformazione dell’intero sistema ferroviario, fu bloccato. Convinto sostenitore delle infrastrutture materiali e immateriali, Necci aveva ideato un progetto che prevedeva non solo la rete ferroviaria ad alta velocità capace di inserirsi nei grandi corridoi europei, ma anche treni dedicati ai pendolari e cargo all’interno di un sistema integrato che facilitasse la mobilità delle persone e delle merci per rilanciare la competitività del sistema-paese. Ma nonostante questi straordinari obiettivi, anzi proprio perché li aveva, nel 1996 è stato bloccato con un arresto dalle modalità spettacolari, un vergognoso abuso delle intercettazioni e accuse tanto disparate quanto fumose, fino a essere costretto alle dimissioni in carcere, aprendo un calvario di accuse e archiviazioni (42) che si sarebbe concluso solo dopo la sua morte.
Il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, ha ricordato pochi giorni fa quanto gli investimenti in opere pubbliche siano decisivi per la competitività del paese e per la sopravvivenza delle imprese. L’Italia va ripensata, modernizzata, secondo criteri di efficienza e sostenibilità, asciugando le autonomie locali e ridando credibilità allo stato. Ma per farlo occorre “sbloccare” il paese, restituirgli la capacità di prendere decisioni – sapendo che la peggiore delle decisioni è non decidere – e di inserirle in una visione di lungo periodo che discenda da un’idea di paese, da un progetto di respiro strategico. “Molto lontano a est si arriva a ovest”, amava dire il riformatore e visionario Necci. Ricordarne la figura e riflettere sul perché (anche a lui) gli vennero tagliate le ali, è un buon modo per provare a rimettere insieme i cocci di un paese “indeciso a tutto”.
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