Gli smutandati di Bisi

Stefano Di Michele

I morti, hanno parecchia importanza per i vivi. Non le pagine dell’economia, meno che mai quelle della politica, delle cronache giudiziarie per carità: la pagina dei necrologi, iuttosto. E’ quella che dà il ritmo, indica la direzione, segnala la postazione da occupare. Chi sa, lì scruta – mica chi è dipartito, casomai chi si duole. Pubblicamente si duole, e dunque pubblicamente si segnala. Una piccola briciola di pane, da raccogliere al volo prima che passi un uccellino rapace, così da non finire spersi come Pollicino. E’ in quelle pagine tra bronzi e cere, noiose e ipocrite – “piangiamo”, “ricordiamo”, “non dimentichiamo”: macché! – che a volte si nasconde (in bella vista, e quindi invisibile ai più, come la famosa lettera di Poe) la mappa del potere.

    “Chi fa sogni di potenza, non russi forte” (Stanislaw J. Lec, “Pensieri spettinati”).

    I morti, hanno parecchia importanza per i vivi. Non le pagine dell’economia, meno che mai quelle della politica, delle cronache giudiziarie per carità: la pagina dei necrologi, piuttosto. E’ quella che dà il ritmo, indica la direzione, segnala la postazione da occupare. Chi sa, lì scruta – mica chi è dipartito, casomai chi si duole. Pubblicamente si duole, e dunque pubblicamente si segnala. Una piccola briciola di pane, da raccogliere al volo prima che passi un uccellino rapace, così da non finire spersi come Pollicino. E’ in quelle pagine tra bronzi e cere, noiose e ipocrite – “piangiamo”, “ricordiamo”, “non dimentichiamo”: macché! – che a volte si nasconde (in bella vista, e quindi invisibile ai più, come la famosa lettera di Poe) la mappa del potere. E’ l’indicazione che Licio Gelli dava al giovanotto Luigi Bisignani, volenteroso di apprendere. Stava lì, il Venerabile, con il Messaggero aperto appunto sulla pagina dei necrologi. “Mi disse che bisognava sempre annotare i nomi di quelli che partecipano alla scomparsa di un morto importante, perché da lì si parte per una ‘schedatura’ degli amici del morto che può sempre venir comoda”. Del resto, anni dopo, Giulio Andreotti – Faro e Maestro e Nave Scuola del Bisignani mai sazio di acquisire – faceva notare, a proposito dell’importanza di Gianni Letta, che quasi non c’era giorno in cui non apparisse sui giornali nella pagina dei necrologi, condolente per qualche illustre trapasso: a riprova, oltre che di opportune condoglianze, di vaste conoscenze. C’è molto da divertirsi, a leggere il libro intervista di Bisignani con Paolo Madron, “L’uomo che sussurra ai potenti” (Chiarelettere) – e non serve stare lì a misurare, col metro della banalità, quanta verità c’è e quanta menzogna, che spesso sono i libri che assoluta verità propongono (sacra sempre, e peste colga chi la mette in dubbio!) quelli più pesantemente infarciti di bugie e tossine. Figurarsi se uno può mai scambiare le amabili chiacchiere di Bisignani per la Rivelazione – e paradossalmente, a scorrere giornali come il Fatto e la Repubblica, i più delusi sembrano proprio quelli che minore considerazione, se non decisa disistima, ancor meglio maltrattenuto disgusto, mostrano nei suoi confronti: sorpresi, si dicono, di non aver trovato la Verità là dove nemmeno per un minuto hanno pensato che Vera Verità fosse. Vittime perfette, costoro, per l’abile giochino del “c’era questo, c’era quello” messo in pagina da Bisignani.

    E’ il sussurro, è il venticello – mozartiana menzogna o refrigerante ponentino – il bisi-bisi come il pissi-pissi, l’incontrarsi e il lasciarsi, l’algebrica romana fatica di sentire tutti, vedere tutti, osservare tutti, in ogni dove essere, inventarsi una capacità di bilocazione come un sant’Antonio da Padova o un san Giuseppe da Copertino, avere sempre una parola da dire e due o tre da ascoltare. Ci vuole predisposizione, tenuta fisica e psichica e di stomaco (per certe colazioni con i potenti, fossero papi o fossero malfattori, sempre debitamente resocontate: di sicuro accrescevano l’autostima, ma pure favorivano l’insorgere impellente di una diarrea che costringeva alla rapida ricerca del primo cesso a portata di mano). Luigi Bisignani sta, nelle trecento pagine del libro come “La Cosa” nei fumetti della Marvel: roccioso e dai confini indefiniti. Ma è pure, e soprattutto, un tipo che più italiano non si potrebbe – un po’ (esagerando) mini Mazarino, un po’ Alberto Sordi, un po’ affollarsi di felliniani sogni di mostri morenti in spiaggia e preti agonizzanti in passerella, un po’ (per stare all’attualità cinematografara) Jep Gambardella, un po’ Enrico Lucherini: né il caso è caso né la coincidenza è coincidenza, anche se tutto attentamente preparato perché ognuno pensi, o possa almeno poter illudersi, che è solo caso, che è solo coincidenza.

    In Bisignani vede il paradiso chi invidia, scruta l’inferno chi disprezza. Ma è così dentro una maschera italiana, Luigi detto Luigino detto Gigi, che tutta la sua conversazione è disseminata di elementi della migliore commedia all’italiana: la mamma, sempre cara la mamma; il terrazzo, sempre un terrazzo da dove il potente osserva il tramonto (suo) o l’alba (altrui) e le voci ancor meglio si perdono e l’orecchio più sottilmente si presta, come nel film di Ettore Scola (pur se là era terrazza democratica, non terrazzo andreottiano); il carabiniere, ché c’è sempre un ufficiale della Benemerita, mai meno che generale, che instrada e consiglia; e quindi il cibo, tavolate di sobrio mangiare e di pettegolezzi spolpati. E appunto, memoria dei morti come certezza per i vivi. Un tipo molto italiano nella particolare conformazione romana, il Bisignani – a vederlo in televisione, l’altra sera, con un singolare problema di sudorazione sul mento e l’aria di  chirurgo plastico di buon successo: viene, vede, fa subito amicizia. “Mio caro – dice a Madron – lei è veneto e non può avere la piena percezione di quanto Roma sia un ventre molle che smussa tutte le differenze”.

    Tende l’orecchio, tende lo sguardo, tende la mano, Bisignani. Si tende sempre, fino allo spasimo, si fa arco e insieme freccia e pure arciere: sapere, sapere, far almeno finta di sapere. E infatti, a centinaia e centinaia di domande mai che risponda: non so, non ricordo, non c’ero. Sa, sa, sa – sempre sa. “Vuole la storia vera?”. “Le dirò com’è andata...”. Il vero, il verosimile, l’impossibile pure, la svista magari (a pag. 48 ecco il vivido ritratto di Moro che va da Pietro Sette, presidente dell’Iri che aveva bloccato i fondi neri, “a protestare a nome del partito”, e già che c’era chiese pure l’assunzione del nipote del segretario amministrativo della Dc. Ma era il ’79, e un anno prima il giovin Bisignani, redattore dell’Ansa, riceveva le telefonate degli assassini di Moro stesso, che informavano su dove ritrovare i loro deliranti comunicati). Il monumento che a se stesso Bisignani ha eretto, e che ancor di più i suoi detrattori hanno innalzato, ha nel libro il suo definitivo taglio del nastro, il varo ufficiale. Si lagnano, quelli che la mano tesa di Bisignani non stringerebbero mai (o che hanno ripetutamente stretto, così adesso lo sconsiderato arto, tra sensi di colpa e sensi di convenienza, fanno mostra di voler recidere da ogni rimembranza, ripetutamente e vigorosamente e pubblicamente ripulito: come dei Furtwängler dopo aver sfiorato l’artiglio di Hitler), che non c’è abbastanza, che non c’è tutto, che ci sono pettegolezzi, che ci sono aneddoti, che alcuni personaggi sono assenti, che con altri si eccede, che è smutandamento, questo, non storico analizzare. Insomma, tutta una serie di ottime ragioni per leggere “L’uomo che sussurra ai potenti”,  sorta di contro-galateo da comodino, di perfetta impeccabile sceneggiatura. Divina, altro che Divo! E se a essere smutandati, capitolo dopo capitolo, sono a volte i potenti dell’economia e a volte i giornalisti, magistrati e preti vanitosi, grillini visionati dagli yankee e militari non proprio temerari, più vacuo mostrarsi che mostrine, non è male e non è poco divertente – essendo peraltro di solito, alcune di queste categorie, addette al quotidiano altrui smutandamento.

    E’ piena di momenti di vera letteratura popolare, la rievocazione bisignaniana. Come il racconto (di terza mano, ma di primario godimento), di un ex amministratore della Banca Commerciale, Carlo Bombieri, che a Varsavia condusse in un bordello un giovane Enrico Cuccia. “Mentre Bombieri era già all’opera, si presentò al suo cospetto il giovane Enrico chiedendogli: ‘Ma non è che si saprà in Italia?’”. O Lino Jannuzzi, condotto in Turchia con bellissimo aereo privato su bellissimo yacht dell’immobiliarista Orazio Bagnasco per una bellissima vacanza gratuita. Generoso e danaroso, “poi però pretese 300.000 lire per le spese telefoniche con il satellitare di bordo, usato da Lino per cercare, insieme ai condomini del suo palazzo vicino al Pantheon, il gatto che si era perso sui tetti”. O Berlusconi che, al termine di un incontro a Palazzo Chigi con l’uomo più ricco del mondo, Carlos Slim, gli dona un album fotografico della sua ultima villa costruita ai Caraibi. “La consideri sua quando ci vuole andare, ci sono mi sembra una ventina di stanze”. E quello: “Grazie, ma per me è troppo grande, tranne che con figli e nipoti non saprei proprio come riempirla”. Poi, tese a sua volta all’ospite un volume: il catalogo del Museo Soumaya creato a Città del Messico per ricordare la moglie defunta. “Caro presidente, il mio regalo è molto meno glaumor del suo. Nel volume sono rappresentati alcuni dei settantamila oggetti, tra cui opere di El Greco, Rubens, Tintoretto, Murillo e la più grande collezione privata di Rodin…”. O il democristiano in fuga da Tangentopoli tra le montagne svizzere, “girava in mezzo alla neve con un vestito blu da assemblea della Banca d’Italia”. O Andreotti capo del governo che cerca un sistema per far arrivare la mattina di buon’ora, alle 8 e 59, al Consiglio dei ministri, i socialisti piuttosto inclini a tirar tardi in discoteca. “Una mattina mi disse a bruciapelo: ‘Finalmente ho capito come svegliarli. Metto al primo posto dell’ordine del giorno le nomine, tanto a loro interessano solo quelle’. Effettivamente da quella volta la pattuglia di sonnambuli si trascinava dentro la sala del consiglio, qualche volta anche in anticipo e con la barba lunga”. Ecco Licio Gelli che si aggira, in nome e per conto della Permaflex, nelle camere da letto di Pio XII e Paolo VI, “per prendere le misure dei materassi”. O la botola segreta scovata dalla Finanza a Mediobanca, e la parete mobile invece sfuggita, dietro la quale “si costudivano altri segreti”, e quella notte Vincenzo Maranghi “dovette organizzare un pulmino che portò via tutte quelle carte dal contenuto inquietante e che non erano state scoperte” – oh issa, uomini di fatica!

    E’ dappertutto Bisignani. Di suo analcolico e sempre all’erta, come leprotto e come ghepardo, cacciatore oppure preda. Pure nelle stanze del comando generale dell’Arma, in mezzo a generali tra di loro in cagnesco, a tracannare per opportuno compiacimento bicchierini di Fernet, amaro per militi rocciosi, e a osservare il panorama dal “terrazzo mozzafiato” del comando stesso. Al cinema con Ciampi. A salvare a Manila il governatore della Banca d’Italia Baffi, “noto per il suo rigore e la sua galanteria”, che stava per infilarsi distrattamente in un taxi con un trans, davanti all’edicola dell’Hilton dove incontra Cossiga, nella parrocchia di San Bellarmino di cui era titolare il cardinale Bergoglio, che “scendeva dall’autobus a piazza Quadrata”. Oppure bimbetto, “Leopoldo Pirelli, che mi ha tenuto sulle ginocchia” (come fece Mike Bongiorno con Walter Veltroni), da Aldo Moro due giorni prima che le Br lo sequestrassero, testimone di nozze al matrimonio del fratello di Passera. E  Letta Gianni? “A presentarmelo fu mia madre che, come tutte le mamme, quando lo incontrava esaltava le qualità del suo figliolo più giovane”. E il Cavaliere? “A casa di mia madre gli feci incontrare per la prima volta, nel 1980, il neo direttore generale della Banca d’Italia, Lamberto Dini”. Ah, la mamma! Ah, la mamma! Ma pure tra i barboni dello Scalo di San Lorenzo con Madre Teresa. E alle terme di Casamicciola con Ilda Boccassini s’incontrò, assicura, e dice pure che la precedenza all’idromassaggio galantemente concesse. Pranzo col ministro Stammati a casa Angelli, “un uovo sodo in un minuscolo letto di spinaci, quattro ma proprio quattro paccheri al sugo di pesce e un piattino di frutta cotta composto da sue prugne e mezza pesca sciroppata” – e prima di passare a riferire ad Andreotti sosta in un bar per tramezzini e toast, ché Stammati “moriva di fame”. Ma almeno il desinare dell’Avvocato non provocava inconvenienti. Andreotti, all’alba, andò da Wojtyla in Vaticano. “Dopo una cerimonia intrisa di misticismo, a colazione avevano servito fagioli, zuppa di cipolla e frittata di patate. Lui era abituato a un cappuccino e mezzo cornetto. Wojtyla, da vecchio minatore polacco, pretese che assaggiasse tutto”. L’esito fu pubblicamente compiaciuto, ma privatamente devastante. Tornato in ufficio, Andreotti “scese dalla macchina pallido in volto e con le mani sullo stomaco e si precipitò in bagno”. Anche al momento dell’accusa di finanziamento illecito ai partiti, Bisignani era al posto giusto: altrove. “La mia non fu una fuga dall’Italia. Mi trovavo già infatti a Baltimora, al John Hopkins Hospital, per un controllo oculistico dopo un trapianto di cornea. Da lì proseguii per un’isola dei Caraibi…”. Si mutò in scrittore argentino che doveva finire un romanzo, un Borges in sedicesimo con le sue poco letterarie finzioni, “ma quei bagni nelle acque limpide dei Caraibi, mangiando spare ribs, costolette di maiale, durarono poco…”. Rientrò, Di Pietro alla scaletta dell’aereo, un detenuto napoletano che gli preparava “spaghetti di Gragnano, condendoli con il miglior sugo di pomodoro che abbia mai assaggiato”.

    Perché Bisignani, si sa, quel mondo non solo bordeggiò, ma in quel mondo s’immerse – come nelle acque dei Caraibi, più limacciose che limpide, però. E la sacralità del detto che comandare è meglio che fottere – l’uomo che ha dato vita, assicura, a una ramificata stirpe di “Bisi boys” – rivendica e gratifica. E i mille intrighi e voci, la tavola delle tabelline para-massoniche, P2 (zeppa di militari e gran commis di stato perché “sono ambienti dove domina una continua ansia di promozione e trasferimenti”: appunto, commedia all’italiana: Alberto Sordi alle prese con la forfora del capoufficio massone) e P4, Enimont e il conto Jonas… Smentisce, precisa, ammette. Rivendica, soprattutto – ché nella rivendicazione è la soddisfazione. Scuote la testa: “Poteri occulti, Chiesa, finanza, servizi segreti deviati: tutti luoghi comuni che hanno alimentato dietrologia e ossessione per il complotto, e che hanno contribuito a cucirmi addosso una storia davvero inverosimile…”, ma forse se ne compiace: perché ciò che appare, nessuno come Bisignani così bene lo spiega, a volte è meglio di ciò che davvero è. Se poi ciò che appare è anche davvero ciò che è, forse è solo pericolosa perfezione che i margini di manovra divora. Galleggiano, nelle cronache dei giornali e nelle pagine del libro, lo champagne scalfariano come le conversazioni debortoliane come le delusioni geronziane, “Vaticano che ora vede malinconicamente dalla terrazza del suo ufficio di presidente della Fondazione Generali”.

    “Il segreto è questo: avere l’idea giusta e l’uomo giusto”, spiega a Madron. Aggirarsi nei pressi. Fiutare le tracce. Osservare il terreno – un pattugliamento sfiancante e ossessivo. E parole, parole, parole. Frasi evocative, il tutto e il nulla in un pronunciamento: “Il mio segreto è che rimango sempre a disposizione dei miei amici”. Lobbista non gli piace, come definizione. “Non lo sono”. Faccendiere? “Neppure”, vade retro. “Chaperon di politici troppo furbi o troppo imbecilli” – scrive Repubblica, e chissà. Coach, per esempio, gli aggrada di più come definizione. Triangolatore pure. Persino sul Fatto ha scovato qualcosa di suo gradimento: “L’uomo dei collegamenti”. Lui vorrebbe essere considerato “un battitore libero senza padroni né padrini”, ma forse troppa grazia sarebbe. Un cardinale lo definì, e giustamente se ne commosse, “stimolatore di intelligenze” – proprio così, disse il sant’uomo.
    Cerca l’uomo giusto da combinare con la giusta idea, Bisignani. Magari pure il temerario con l’idea pericolosa. E’ un po’ il principio andreottiano di ergersi non perché gigante, ma perché si osserva un panorama di nani. Dispone (a volte) e accudisce (più volte) – Luigino che fu tale nella Prima Repubblica, mutato in Gigi nella Seconda: così che qualcuno può intenderlo burattinaio e qualcun altro scambiarlo per una sorta di geisha del potere, sempre una leggera carezza (in pugno). Col risultato di ritrovarsi come in quell’istruttiva storia Sufi, dove in una voliera vengono costretti un pappagallo e un corvo. E pensava il primo: “Il destino mi è proprio ostile, se mi mette vicino a questa sudicia bestiaccia!”. E pensava il secondo: “Questo pappagallo emana un odore fetido… Che disgrazia, condividere la stessa gabbia!”. Magari a volte Bisignani si è solo fatto custode della voliera, o forse semplice intrattenitore dei due litigiosi volatili. O magari è il pappagallo. Oppure il corvo. “Il palcoscenico è troppo vasto per calcarlo tutto. E noi siamo dei piccoli spettatori solo un po’ curiosi”, dice. Solo spettatore molti non credono – ma il piacere supremo, soprattutto di fronte a tanti con così tante ingiustificate ambizioni, è anche far apparire possibile e reale ciò che la logica voleva impossibile e il buon senso irreale. Questo, almeno questo, a Bisignani va riconosciuto. Perché in fondo, queste sue confessioni sono una forma di rendiconto esistenziale (anche per certe assenze sottratte, ma si sa: la vastità del palcoscenico…). E soprattutto, proprio mentre il libro stava per prendere la strada delle librerie, è morto Giulio Andreotti – il filo conduttore di quasi ogni pagina. “Il sigillo della porpora”, scrisse anni fa Bisignani in versione, si compiace il diretto interessato, di “Ken Follett italiano”. Il dissolversi di Andreotti: come sigillo finale impossibile trovarne uno più suggestivo e definitivo. E la porpora: niente male – pure come colore.