Fiat barcolla, ma gli Agnelli scommettono (la cassaforte) su Marchionne
Da ieri tutto cambia. Sia per Exor, la finanziaria di casa Agnelli, sia per Fiat. Ma anche per il numero uno della dinastia, John Philip Elkann e, naturalmente, per Sergio Marchionne. Ieri mattina, ancor prima dell'apertura delle Borse europee, un comunicato informava che Exor aveva ceduto nel fine settimana l'intera partecipazione, pari al 15 per cento del capitale, in Sgs, multinazionale svizzera della certificazione, alla holding belga Gbl per 2 miliardi di euro, con una plusvalenza a livello consolidato di circa 1,5 miliardi. In un colpo solo, Exor più che raddoppia la disponibilità liquida, già robusta (1,2 miliardi), e si caratterizza più che in passato come un gruppo che marcia a quattro ruote.
Da ieri tutto cambia. Sia per Exor, la finanziaria di casa Agnelli, sia per Fiat. Ma anche per il numero uno della dinastia, John Philip Elkann e, naturalmente, per Sergio Marchionne. Ieri mattina, ancor prima dell’apertura delle Borse europee, un comunicato informava che Exor aveva ceduto nel fine settimana l’intera partecipazione, pari al 15 per cento del capitale, in Sgs, multinazionale svizzera della certificazione, alla holding belga Gbl per 2 miliardi di euro, con una plusvalenza a livello consolidato di circa 1,5 miliardi. In un colpo solo, Exor più che raddoppia la disponibilità liquida, già robusta (1,2 miliardi), e si caratterizza più che in passato come un gruppo che marcia a quattro ruote. Ormai, nel portafoglio spicca la partecipazione nei camion di Industrial-Cnh (3,3 miliardi il valore in Borsa), seguita da quella in Fiat-Chrysler (ieri il Lingotto ha chiuso a più 3,2 per cento, in controtendenza rispetto a Piazza Affari). Solo a grande distanza seguono i servizi immobiliari dell’americana Cushman & Wakefield. In questa cornice i quattrini incassati con l’uscita da Sgs serviranno da benzina per far marciare l’acquisizione del 41,5 per cento di Chrysler, ormai imminente.
E’ assai probabile, dicono fonti americane, che l’acquisto sia concluso entro giugno, prima della sentenza del giudice del Delaware che deve pronunciarsi sul prezzo da versare al fondo Veba del sindacato: più o meno 3 miliardi di dollari, più di quanto Marchionne sperava di pagare. In cambio, il ceo di Fiat e Chrysler può contare sul sostegno delle banche, da Deutsche Bank a Bank of America, passando per Goldman Sachs, ansiose di finanziare un deal che, alla fine, mobiliterà ben di più dei 10 miliardi di dollari previsti dalle linee di credito. Una fiducia che dipende anche dall’atteggiamento del socio di maggioranza. “La posizione di John Elkann si è evoluta in questi mesi”, dice Giuseppe Berta, docente in Bocconi, esperto della storia Fiat. Il delfino dell’Avvocato si è sempre schierato, per la verità, per la scelta di restare nell’auto. Ma senza rinnegare la politica della diversificazione degli investimenti (tra cui Sgs) per non dipendere da un settore così ciclico e ballerino. Più volte si era dichiarato pronto, in caso di matrimonio Fiat-Chrysler, a scendere nel capitale a favore di altri partner, industriali o meno. Al contrario, la settimana scorsa lo stesso Elkann ha sottolineato con orgoglio ai soci che Exor avrebbe fatto fronte all’impegno da sola, anche qualora Fiat dovesse lanciare (come prima o poi dovrà fare) un aumento di capitale. Insomma, Elkann detto Jaki ha deciso di seguire le orme di William Clay Ford detto Bill, l’erede della dinastia in vetta al gruppo di Detroit capitanato da Alan Mulally. “E’ un salto psicologico importante – commenta Berta – E’ come se Elkann si fosse liberato di un blocco”. Magari anche verso Marchionne.
Sempre in occasione dell’assemblea, Elkann aveva annunciato che “Marchionne, avendo parlato con lui, sarà ancora con noi per tanti anni a venire”. Non era un passaggio scontato. Anzi. L’ad più volte ha dichiarato in passato che avrebbe lasciato la guida di Fiat nel 2016. Non solo. In più occasioni, in privato, il ceo di Fiat e Chrysler, anche non molti mesi fa, non aveva escluso l’ipotesi di un’uscita di Exor dall’auto. Oggi queste perplessità sono cadute. Anche se, come sottolinea il comunicato, Marchionne resta presidente (non operativo) di Sgs, l’azienda all’origine della sua fortuna. E’ lì che nel 2000 il suo destino si incrociò con quello di Umberto Agnelli, divenuto quasi per caso azionista al fianco del barone Von Finck che gli segnalò quel controller infaticabile, approdato a Ginevra via Canada. A Umberto, Marchionne piacque così tanto da affidargli il compito di far da consigliere del figlio Andrea, oggi presidente della Juventus, ai tempi impiegato a Ginevra presso Philip Morris. Di lì a pochi anni, nel 2004, il momento più drammatico della storia dell’impero Agnelli, Marchionne sbarcò a Torino, città dove ormai passa sempre più di rado. Nei prossimi mesi, il destino di quello che punta a diventare il quarto gruppo mondiale dell’auto si gioca su tanti tavoli, quasi nessuno italiano. Innanzitutto tra le banche di Manhattan e la Borsa di Wall Street: Marchionne, per avere la piena disponibilità del cash di Chrysler, dovrà chiudere i prestiti della casa di Detroit (più o meno 6 miliardi) e aprirne di nuovi.
Poi dovrà convincere Wall Street sulle potenzialità del gruppo, effervescente in Nordamerica (le vendite di Chrysler ieri hanno fatto segnare più 11 per cento a maggio 2013 rispetto al 2012), in frenata nell’emisfero meridionale (il nuovo impianto di Pernambuco sembra troppo ambizioso per il Brasile che rallenta), ancora in fasce in Asia e fragile in Europa. Oltre che in Italia, ovviamente, dove a maggio le immatricolazioni del Lingotto segnano meno 11 per cento. Oltreoceano però Marchionne non perde occasione per sventolare il tricolore: basti lo spot della 500L che sfreccia sulle strade di Sorrento come gioiello dell’“Italian design”. Ma quando rientra nel nostro paese, dove le promesse (vedi le agevolazioni all’export del ministro Corrado Passera) non si traducono mai in opere, l’umore cambia.
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