Se Erdogan perde la testa
Finché c’è la Turchia, con il suo miscuglio di islam e democrazia, c’è speranza per il medio oriente: se regge il modello creato da Recep Tayyip Erdogan, l’islam al potere continua ad avere la sua chance. La comunità internazionale s’è aggrappata al premier turco, l’ha nominato suo broker mediorientale, corteggiandolo maldestramente con una membership europea mai davvero voluta, e ignorando i lati oscuri dentro la Turchia degli ultimi dieci anni – i blitz contro il potere laico incarnato dai militari, i processi ai tycoon legati all’élite kemalista, la minirivoluzione islamica nelle università e nei centri culturali, contro i giornalisti e gli scrittori “critici”, le revisioni costituzionali, tutti quei veli nelle foto ufficiali.
Finché c’è la Turchia, con il suo miscuglio di islam e democrazia, c’è speranza per il medio oriente: se regge il modello creato da Recep Tayyip Erdogan, l’islam al potere continua ad avere la sua chance. La comunità internazionale s’è aggrappata al premier turco, l’ha nominato suo broker mediorientale, corteggiandolo maldestramente con una membership europea mai davvero voluta, e ignorando i lati oscuri dentro la Turchia degli ultimi dieci anni – i blitz contro il potere laico incarnato dai militari, i processi ai tycoon legati all’élite kemalista, la minirivoluzione islamica nelle università e nei centri culturali, contro i giornalisti e gli scrittori “critici”, le revisioni costituzionali, tutti quei veli nelle foto ufficiali. La presenza della Turchia nella Nato ha trasformato Ankara nell’alleato più importante nella regione mediterranea, per la sua posizione – è lo sbocco di tutte le risorse energetiche in arrivo dall’Asia – e per la sua politica “neottomana” di dominio ma anche di stabilità inaugurata da Erdogan poco dopo il suo arrivo al potere. La Turchia è stata decisiva nella guerra in Iraq per gli americani, li ha grandemente illusi quando ha pensato di diventare la madrina della gran pace con l’Iran nucleare, ed è poi diventata centrale per Barack Obama. Il presidente americano è persino riuscito a convincere uno tosto come il premier d’Israele Benjamin Netanyahu a scusarsi con Erdogan per i morti della Mavi Marmara (la nave battente barriera turca che voleva violare l’embargo dal mare imposto da Israele ai palestinesi e arrivare a Gaza: 9 morti nel blitz delle forze speciali israeliane, alla fine del maggio del 2010) mentre il segretario di stato, John Kerry, un globetrotter che da gennaio è già stato tre volte in Turchia, modella la sua strategia in medio oriente – soprattutto in Siria – sull’intelligence raccolta dai turchi, e sulle loro ambizioni.
Per questo Kerry è intervenuto di persona, due sere fa, sulla piazza turca e sulle proteste che vanno avanti dalla sera del 28 maggio, esprimendo “profonda preoccupazione”: soltanto tre settimane fa Erdogan era a Washington per portare le prove dell’utilizzo delle armi chimiche in Siria e discutere del futuro (della conferenza stampa congiunta forse ricorderete solo il marine che teneva l’ombrello sulla testa di Obama). Il presidente americano è davvero preoccupato: non può permettersi di ritrovarsi un’altra volta dalla parte sbagliata della piazza – come accadde in Egitto, e ancora prima della primavera araba al voto in Iran, nel 2009 – né può perdere il suo migliore (unico?) alleato del mondo islamico. Soprattutto il pragmatismo che permea tutte le decisioni di Washington si regge sullo status quo: ogni cambiamento è visto con terrore dall’ex re del cambiamento. E più Obama si preoccupa, più Damasco ride.
Non ci fossero dietro quasi 100 mila morti e un governo che da più di due anni reprime il suo popolo con violenza crescente, le dichiarazioni che arrivano da Damasco sarebbero davvero divertenti. Il ministero degli Esteri siriano ha rilasciato un comunicato che dice così: “Consigliamo ai cittadini siriani di non viaggiare in Turchia in questo periodo perché temiamo per la loro incolumità, a causa delle condizioni di sicurezza deteriorate in alcune città turche dopo gli ultimi giorni e dopo la violenza praticata dal governo di Erdogan contro le proteste pacifiche”. Il ministro dell’Informazione siriana, Omran al Zoubi, è andato persino oltre: ha condannato l’uso della violenza “eccessivo” da parte delle forze di sicurezza di Ankara e ha dichiarato che Erdogan dovrebbe fermare la violenza, lasciare il paese e cercare l’esilio.
Il regime change a Damasco è una delle due grandi ambizioni di Erdogan (la seconda è far fare la pace ai palestinesi tra di loro e poi con gli israeliani, il suo tanto anticipato viaggio a Gaza è in realtà stato posticipato sotto le pressioni degli americani: è previsto comunque entro giugno, dicono le fonti turche) ma ha anche esposto la Turchia a pericoli finora evitati. James F. Jeffrey e Soner Cagaptay hanno pubblicato un minisaggio per il Washington Institute for Near East Policy con un capitoletto dedicato alle “conseguenze non volute”: Ankara ha deciso di sostenere i ribelli contro Bashar el Assad, ma per farlo “la Turchia ha lasciato che combattenti stranieri, inclusi i jihadisti, entrassero in Siria per indebolire il regime di Damasco. Questo pone un grave rischio per la Turchia. I jihadisti che transitano sul territorio turco lasceranno inevitabilmente il segno, con i contatti personali e i network che si sono creati, con le abilità logistiche sviluppate in loco (come i conti correnti sotto falso nome per finanziare le operazioni o come gli investimenti in strumenti di comunicazione) e con l’attività di arruolamento e proselitismo”. C’è il rischio che questi fondamentalisti un giorno decidano di attaccare la stessa Turchia, e non sarebbe la prima volta che al Qaida compie operazioni sul suolo turco.
Assad, con i suoi alleati (Iran, Hezbollah e Russia), gioisce nel vedere la crisi di Erdogan, non soltanto perché così diminuisce l’influenza del suo peggior nemico nella regione, ma anche perché si allenta la pressione occidentale che passa per la Turchia. Per tutti gli altri la crisi del modello turco è la crisi dell’unica esperienza di islam al potere di un certo successo.
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