A Toro o a ragione
Comprare un canale televisivo di questi tempi è un azzardo che solo chi ama il rischio imprenditoriale poteva correre, ma paradossalmente rimettere in sesto La7 appare più facile che farsi apprezzare di nuovo dai tifosi granata. Se l’Urbano Cairo imprenditore di successo è già stato ritratto e raccontato più volte dai giornali, il Cairo presidente di calcio è quello meno conosciuto, se non per qualche sua apparizione televisiva e per la rappresentazione macchiettistica che talvolta se n’è fatta nelle trasmissioni sportive. Ed è forse il lato di sé che lui stesso ama di meno, dato che non è ancora riuscito a ottenere i risultati che in altri campi ha raggiunto.
"Chi è quello lì? E’ di ‘Piazzapulita’? Questo lavora per Cairo, avete capito? E Cairo era socio di Berlusconi…”. E’ lunedì 3 giugno. La piazza di Leonforte, in Sicilia, è piena. Lui, Beppe Grillo, attacca in diretta il cameraman di La7 che lo sta riprendendo, chiedendo alla gente di impedirgli di farlo. Poi parla direttamente al conduttore della trasmissione, Corrado Formigli: “Vermigli perché non fai un servizio sulla tua televisione? L’ha comprata un certo Cairo, ex socio di Berlusconi, in pratica lavori per il Cavaliere”. Non se ne libererà mai, Urbano Cairo, di quell’accostamento. Lo chiamano persino “Berluschino”. Eppure lui, editore piemontese di 56 anni che ha iniziato la sua carriera in Fininvest e Publitalia, con Berlusconi non ha più nulla a che fare da tempo. Certe etichette però non si tolgono più, soprattutto se uno fa molto per lasciarsele addosso. Come Berlusconi, Cairo – una volta uscito dalle aziende del Cav., licenziato da Mondadori Pubblicità nel 1995 dopo contrasti insanabili con Marcello Dell’Utri – è diventato editore, concessionario di pubblicità, proprietario di una squadra di calcio e infine di una televisione. “Quel licenziamento è stato la mia fortuna – dice sempre – mi ha fatto capire che volevo fare l’imprenditore”. Quasi vent’anni dopo, con l’acquisto di La7 Cairo prova a diventare finalmente grande, entrando nei salotti che contano grazie al biglietto da visita di una tv considerata da molti un gioiellino. Non ci era riuscito con le riviste che pubblica da anni, complice anche il fatto che si rivolgono a un pubblico troppo pop per piacere alla gente che piace, e non ci era riuscito con il calcio, che gli ha dato molta visibilità e altrettanti grattacapi. Chissà se, adesso che dovrà preoccuparsi di risanare i conti di La7 (100 milioni di perdite l’anno) avrà tempo di occuparsi di chi far giocare in attacco il prossimo anno. Chissà se lo preoccupa di più Grillo che fa oscurare le telecamere della sua tv o la curva del Torino che non gli perdona di avere lasciato andare Rolando Bianchi. Comprare un canale televisivo di questi tempi è un azzardo che solo chi ama il rischio imprenditoriale poteva correre, ma paradossalmente rimettere in sesto La7 appare più facile che farsi apprezzare di nuovo dai tifosi granata.
Se l’Urbano Cairo imprenditore di successo è già stato ritratto e raccontato più volte dai giornali, il Cairo presidente di calcio è quello meno conosciuto, se non per qualche sua apparizione televisiva e per la rappresentazione macchiettistica che talvolta se n’è fatta nelle trasmissioni sportive. Ed è forse il lato di sé che lui stesso ama di meno, dato che non è ancora riuscito a ottenere i risultati che in altri campi ha raggiunto.
C’è un aneddoto da cui partire per capire perché dopo otto anni il Torino di Urbano Cairo fatica ancora ad avere un’identità e solo da un paio di stagioni sembra avere intrapreso una strada con un orizzonte un po’ più chiaro (anche se il tifoso del Toro ancora non si fida, sa che la tragedia è sempre dietro l’angolo). Estate 2006, il Torino fallito e risorto un anno prima è tornato in serie A dopo una stagione pazza e bellissima, culminata con una finale playoff davanti a sessantamila tifosi in delirio per una squadra costruita dal neopresidente Cairo in pochi giorni, assemblando scarti di altre società, qualche vecchio e qualche giovane.
Il 2006 ha tutto per essere l’anno perfetto per il Torino e i suoi sostenitori: oltre alla serie A riconquistata, a dicembre si festeggia il centenario della squadra, si gioca nello stadio nuovo e la Juventus è appena retrocessa in serie B. Vuoi vedere che è girato il vento?, si sussurrano tra loro i tifosi granata in quei giorni. Nell’entusiasmo post promozione Cairo ha confermato quasi tutta la squadra dell’anno prima, ma ha in mente qualche colpo per rafforzare la rosa. L’allenatore del Toro, Gianni De Biasi, non sa ancora che verrà esonerato pochi giorni prima dell’inizio del campionato (per poi essere richiamato altre due volte più avanti) e dà consigli al suo presidente, pronto a spendere molto per rifare grande in poco tempo il Torino. “A Brescia c’è un giovane interessante – gli dice – si chiama Hamsik”. Cairo resta freddo, e quando – raccontano più fonti – un procuratore gli offre Hamsik (per poco più di 700.000 euro, dicono), il presidente rifiuta. Nessun giovane sconosciuto, “io vi prendo un campione del mondo”. Così, per 4 milioni di euro, arriva Simone Barone dal Palermo. Negli stessi giorni compra il trentunenne Fiore e il trentacinquenne Pancaro. Il Torino dei vecchietti giocherà una stagione mediocre salvandosi nell’anonimato all’ultima giornata grazie al ritorno in panchina proprio dell’esonerato De Biasi. Il tifoso del Torino è facilmente dedito alla depressione, e Cairo comincia a pagare il non essere riuscito a incanalare l’entusiasmo verso un progetto lungimirante.
Parlando di sé a Repubblica qualche tempo fa, ha spiegato come fece a rilanciare la Giorgio Mondadori dopo il suo acquisto, ricetta che seguirà a La7: “Rinnovare e potenziare senza stravolgere. Puntando sugli atout che già ci sono, dando mano libera ai direttori capaci e inserendo nuove professionalità al posto giusto”. Cosa che a Torino ha cominciato faticosamente a fare solo da poco. Al terzo anno di presidenza, e secondo in A, infatti, cambia ancora: De Biasi esonerato, arriva Novellino, un ex cresciuto nelle giovanili granata che ha appena fatto miracoli con la Sampdoria. Viene presentato tra i ruderi del Filadelfia, lo stadio del Grande Torino che è come una seconda casa per il cuore di ogni tifoso del Torino, sembra finalmente che la società si sia messa a valorizzare quello “spirito Toro” che da sempre è caratteristica principe dei granata. La rosa però non viene svecchiata: i giocatori “d’esperienza” che hanno fallito l’anno prima vengono sostituiti da altri coetanei.
Ancora una stagione mediocre, ancora un allenatore esonerato e ancora De Biasi richiamato. Non viene gettata nessuna base per costruire qualcosa di duraturo, i tifosi cominciano a contestare Cairo, il quale cambia collaboratori, giocatori e allenatori come se fossero figurine. Delle giovanili che un tempo erano l’orgoglio della società si è persa ogni traccia, ma la cosa che più fa arrabbiare la gente granata è il fatto di non riuscire ad approfittare delle difficoltà della Juventus per imporsi, finalmente, come la squadra di Torino. Al terzo anno di serie A, la stagione 2008/2009, il pallone si buca definitivamente: una squadra senza grinta e spesso colpita da errori arbitrali retrocede malamente in B. Quattro anni dopo aver fatto rinascere il Torino – acquistandolo per pochi euro da un piccolo gruppo di imprenditori torinesi che lo avevano salvato dal fallimento ma che non avevano i soldi per farlo sopravvivere – Cairo ha perso tutto il credito accumulato presso i tifosi, che in poco tempo sono passati dall’adorazione al disprezzo, senza mezze misure. Buona parte del popolo granata non ha più dubbi: è lui il male del Toro.
Ambizioso, preparato, oculato, attento agli sprechi e con la giusta dose di amore per il rischio, capace di sfiancare i suoi interlocutori a cui deve strappare un buon prezzo per un affare, raramente si distrae dall’obiettivo. Cairo ha pagato il fatto di essersi misurato in un campo dove tanti hanno fallito pensando di cavarsela da solo. Ma i tifosi del Torino sono più imprevedibili dei lettori di riviste patinate. Un imprenditore piemontese che lo conosce bene lo descrive come “uno serio e che sa cosa vuole”, anche nel calcio: “Prese il Torino facendo un affare, acquistando per pochi soldi una società che se ben gestita è in grado di sopravvivere senza troppi sforzi”.
All’inizio ha anche speso tanto, ma male. Molto male. Pochi affari e tanti errori: nel mondo del calcio girava voce che alcuni presidenti di serie A facessero a gara a chi riusciva a vendergli il peggior bidone al prezzo più alto. Lo ammette lui stesso: “Vincere subito al primo anno mi convinse di avere capito tutto. Poi col tempo ho imparato dagli errori”. Chi lo conosce bene conferma che furono due le motivazioni che lo spinsero a prendere il Torino: il desiderio di visibilità e la fede granata dei genitori. Sul tifo per il Torino di Cairo antecedente al 2005 ci sono poche e vaghe prove, su quello di suo padre e sua madre tutti sono pronti a giurare. Poteva essere una storia perfetta: un squadra italiana con un alto tasso di sentimentalismo tra i tifosi comprata per una questione di sentimento. Non è andata così.
Mentre inanellava successi editoriali, lo sport gli portava delusioni in serie. Bisogna dire che dopo una retrocessione come quella del 2009 – la fine di un’illusione, la squadra a pezzi e la contestazione dei tifosi – in pochi avrebbero avuto la voglia di riprovarci. “Il calcio è cambiato in questi anni – dice Cairo al Foglio, lapalissianamente – è tutto più complicato: servono soldi, tanti, e investimenti azzeccati. Mi si dia atto almeno di avere sempre rilanciato il Torino dopo ogni caduta”. Spendere molto non è sempre garanzia di riuscita, l’appena retrocesso Palermo di Zamparini serva da monito ai tifosi che credono che basti sganciare milioni per vincere, fa notare il presidente del Torino. Che comunque gestisce una società con i conti a posto e si avvia a iniziare una campagna acquisti con quasi 20 milioni da spendere – scriveva la Stampa qualche giorno fa. Eppure “tutta la sua gestione merita grandi critiche”, dice un giornalista che si occupa di cose granata da vicino e che preferisce restare anonimo. L’accusa più comune è che Cairo “ha fatto sparire il Toro da Torino”.
Effettivamente dal 2005 la città è diventata pian piano meno granata: i giocatori si allenano in un campo anonimo nei pressi dello stadio Olimpico, dietro a una grigia cancellata senza un simbolo o una bandiera che faccia capire che lì dietro c’è la squadra che porta il nome della città. Probabilmente unica società tra A e B, il Torino non ha una rivista né una radio ufficiali (per non parlare della tv), è poco presente sui social network e ha un sito internet fermo a otto anni fa in quanto a grafica, interazione degli utenti e frequenza degli aggiornamenti; la sede è un piccolo ufficio preso in affitto in centro (tutti gli affari il presidente li fa a Milano presso la Cairo Communication), la sala stampa è stata per qualche anno un container vicino al campo di allenamento (ma da quest’anno è stata spostata allo stadio Olimpico) e in tutta la città esiste un solo negozio con il materiale ufficiale in vendita. Per ognuna di queste critiche la società ha una risposta: “Il campo di allenamento non è nostro – spiegano – e non ci è consentito mettere bandiere o altro; la rivista ufficiale sarebbe una spesa inutile in un mondo dove ormai tutta la comunicazione si muove su Web, e il sito internet verrà presto rifatto”. Dal Torino Fc sottolineano come per la ricostruzione da zero, al netto degli errori, si è per forza di cose dovuto lavorare per priorità, quasi – ammettono – “navigando a vista”. Non ha pazienza, Urbano Cairo, e quando vede che un problema non si può risolvere lo elimina.
Per anni è mancata una programmazione, e ai tifosi salvo rare eccezioni sono stati dati pochi appigli a cui aggrapparsi: ogni stagione giocatori e staff cambiavano, ma i risultati restavano deludenti. Il famoso e spesso retorico “spirito Toro” si sarebbe perso per strada: quello con le maglie granata è diventato un torello impaurito, preso a schiaffi da molte comparse della serie B, non rispettato dagli arbitri e dalla federazione. L’accusa dei tifosi è che il killer di quello spirito sia stato proprio Urbano Cairo, più attento alla sopravvivenza che all’appartenenza. “L’orgoglio granata è insito da sempre in ogni tifoso – risponde il presidente – ed è qualcosa che non scomparirà mai. Se c’è uno che ha cercato di tenere alta la bandiera quello sono stato proprio io”.
Snocciola cifre note, Cairo: 60 milioni investiti, un aumento di capitale importante, molto tempo dedicato alla squadra e la possibilità di ricostruire lo stadio Filadelfia mai così vicina come con lui. I tifosi tutto questo lo sanno, eppure non perdonano. Un ex dirigente televisivo che conosce da vicino sia Cairo sia il mondo del calcio ci spiega che “è il tipo di business che non dà la possibilità di successo: ormai c’è troppa sperequazione tra i grandi e i piccoli club. O spendi mezzo patrimonio personale o non puoi avere successo”. Dopo la tregua parziale di un anno fa, in concomitanza con il primo posto in serie B, la promozione e gli sprazzi di bel gioco con Giampiero Ventura in panchina, la stagione mediocre appena conclusa con la salvezza ha portato a nuove contestazioni. Il “Cairo vattene” che la maggior parte dei tifosi pensa però non fa i conti con la realtà, dice il presidente: “I tifosi non mi vogliono più perché ho ucciso lo spirito Toro? – si chiede ironicamente – Bene, ma io non vedo in città tanti imprenditori granata disposti a prenderlo. Forse, cercandoli, si troverebbero dei russi, o qualche arabo, i quali non credo però che avrebbero come priorità la ricostruzione di quello spirito”.
Due anni fa, però, è cambiato qualcosa: Cairo ha fatto un passo indietro, ha smesso di fare lui la campagna acquisti e si è affidato per il secondo anno di fila allo stesso direttore sportivo, Gianluca Petrachi, e gli ha affiancato un allenatore che lo conosce bene, Giampiero Ventura. Anche il più pessimista tra i granata ha notato che qualcosa è cambiato. Ancora poco, però. Il tifoso del Torino ha la tendenza a idealizzare il passato, ma lo fa dimenticando le distanze temporali: una delle lamentele più comuni è quella per cui la squadra meriterebbe di più di una salvezza risicata a fine stagione: “Il Torino è sempre stato protagonista in Italia e in Europa”, si dice. Vero, ma l’ultima volta in cui questo è accaduto – se si eccettua un disastroso preliminare di Intertoto a inizio anni Duemila – era il 1994, undici anni prima della presidenza Cairo. “Quando sono arrivato – insiste il presidente – la squadra si allenava a Orbassano, e dopo il fallimento era tutto da rifare, mancavano persino i trofei in sede”. A chi chiede di replicare il “modello Udinese” (pochi soldi ben spesi, scouting in tutto il mondo per scovare giocatori da rivendere) viene fatto notare che la squadra friulana ha impiegato undici anni prima di cominciare a piazzarsi nelle zone alte della classifica. Tutto giusto, tutto vero, ma la sensazione è che sia successo qualcosa per cui la ferita con i tifosi non si risanerà facilmente.
Attorno al Torino resistono in contemporanea un senso di precarietà del presente e il peso sempre maggiore di un passato idealizzato, confrontandosi con il quale ci si sentirà sempre inadeguati, e perciò incazzati. Torino è la piazza che in passato contestò il presidente dello scudetto Pianelli, che cacciò Sergio Rossi, che fischiò due bandiere come Dossena e Cravero e che prima di rimpiangere il capitano Rolando Bianchi – cinque stagioni in granata prima di essere scaricato senza rinnovo quest’anno – lo ha criticato senza pietà. Inevitabile che la stessa sorte sia toccata a Cairo. “Che ha le sue colpe – ammette chi lavora con lui – anche se gliene addossano molte non sue”.
Dopo le follie dei primi anni, Cairo “ha capito che è meglio non rischiare – dice un imprenditore che ha sponsorizzato il Torino in passato – Spende il giusto, tiene i conti a posto, ma la sensazione è che gli vada bene così. Forse servirebbe uno scossone ogni tanto, azzeccare una stagione per rientrare nel giro delle coppe, questo non lo ha ancora fatto. Lui al Toro ci tiene. Ha i suoi vantaggi, anche fiscali (le sue aziende pagano meno tasse se il Torino Fc è in perdita, ndr), ma visti i momenti di contestazione passati, il fatto che sia ancora qui significa qualcosa”. C’è chi spiega questa sua resistenza con la sua vanità: il presidente del Torino ama essere lodato – per questo si circonda di yes men, malignano – e l’idea di andarsene senza successi non potrebbe sopportarla. Spesso chi aveva idee diverse dalle sue è durato poco, e personalità che avrebbero potuto fargli ombra sono state allontanate senza tanti complimenti.
Il Torino di Cairo ha il difetto di non avere ancora messo radici. E – accusano i tifosi – di non avere mai puntato in alto: “E’ difficile puntare in alto con le poche entrate che abbiamo”, spiega il grande accusato. Perché non partire dal marketing? “Il marketing è legato ai risultati sportivi – ci dice Cairo – non si alimenta da sé. Noi fatturiamo un sesto della Juventus e molto meno di altre squadre di A, eppure la gente pretende di essere al loro livello. Purtroppo il tifoso del Toro non è uno che spende: quest’anno eravamo la terz’ultima società in A per numero di abbonati, e se in città c’è solo un negozio ufficiale è perché un secondo non avrebbe le risorse per stare aperto. Sono convinto e consapevole che si possa e si debba migliorare, ma vedo tanti lamentarsi e poi dare poche risposte”.
Anche il Napoli di De Laurentiis è ripartito dopo un fallimento, nel 2004, ma da qualche stagione lotta per la Champions League: “Gli introiti del Napoli non sono paragonabili ai nostri – spiegano dalla società – al San Paolo ci sono sempre quarantamila persone, noi non siamo riusciti a riempire i 27.000 posti dell’Olimpico nemmeno al derby”. Eppure nel maggio 2006 al Delle Alpi i tifosi erano 60.000, e quell’anno gli abbonati quasi 20.000. E’ Cairo che ha abbandonato i tifosi o i tifosi che hanno abbandonato Cairo? Probabilmente nessuno dei due, e oltre ad avere quasi esaurito il credito ha pagato alcuni errori di comunicazione, soprattutto in passato. Troppe situazioni ambigue non spiegate – dal mancato rinnovo del contratto di alcuni giocatori simbolo fino al milione di euro che Cairo investirà per rifare il Filadelfia dopo averne promessi di più – scarsa capacità di veicolare il dibattito sui due giornali cittadini, la Stampa e Tuttosport, che hanno spesso guidato l’umore dei tifosi con scoop strumentali e campagne antipatizzanti.
La sfortuna del Torino è stata quella di aver iniziato il declino, culminato con il fallimento, negli anni in cui il calcio veniva stravolto dai soldi e dalle tv. Risvegliatisi dall’incubo, i tifosi si sono aggrappati al presidente piacente e telegenico che ispirava un futuro radioso, con ancora negli occhi il “calcio pane e salame” con cui erano cresciuti, illudendosi. Cairo non ha saputo riempire tutta l’attesa che il cuore di ogni tifoso portava con sé dai tempi della finale di Uefa ad Amsterdam, ma nemmeno lo aveva promesso. Eppure non gliel’hanno perdonato. Succede ogni volta che si ama.
Anche il suo detrattore più incallito è pronto ad ammettere che Cairo ha speso tempo e denaro per il Torino, più di molti suoi predecessori, che da due anni ha smesso di licenziare allenatori e direttori sportivi e a cambiare metà dei giocatori due volte l’anno, e che le giovanili cominciano a raccogliere qualche successo (grazie al lavoro con i Primi calci di Silvano Benedetti, uno che il Toro lo ha respirato sin da bambino, e a quello di Comi prima e di Bava adesso, che portano avanti un settore raso al suolo dal fallimento e dall’incuria dei precedenti proprietari).
Però. C’è ancora molto da fare, e i tifosi lo aspettano al varco del calciomercato appena iniziato proprio nei giorni in cui il secondo filone di inchieste sul calcioscommesse rischia di portargli via diversi giocatori importanti per squalifica. Insomma, è più facile gestire Gad Lerner. Il presidente ha un cruccio che non riesce a spiegarsi: “Sarebbe bello ogni tanto vedere riconosciuto quello che si fa”, sospira. Per uno come lui essere contestato ogni domenica è insopportabile. Quando prese il Torino, nel 2005, Urbano Cairo si divertiva un sacco. Oggi si diverte meno.
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