La biennale dei miracoli
Il vaporetto si sta avvicinando alla meta e divento sempre più inquieto. Per fortuna mi accompagnano due angeli custodi, Sofia e Zara, pittrici in Londra; confido nella loro magistrale giovinezza. Colma di ogni ben di Dio e di Satana una grande mostra è un esercizio spirituale per distinguere il grano dal loglio e acquisire uno sguardo. Un rischio cui il visitatore non può sottrarsi, non c’è sapere che metta al riparo, e forse un giorno quel che appare bello annoierà e viceversa. Quindi umiltà e prudenza, mai si disprezzi quel che ancora non si apprezza. Eppure, nonostante questi buoni propositi resto sul chi va là.
Il vaporetto si sta avvicinando alla meta e divento sempre più inquieto. Per fortuna mi accompagnano due angeli custodi, Sofia e Zara, pittrici in Londra; confido nella loro magistrale giovinezza. Colma di ogni ben di Dio e di Satana una grande mostra è un esercizio spirituale per distinguere il grano dal loglio e acquisire uno sguardo. Un rischio cui il visitatore non può sottrarsi, non c’è sapere che metta al riparo, e forse un giorno quel che appare bello annoierà e viceversa. Quindi umiltà e prudenza, mai si disprezzi quel che ancora non si apprezza.
Eppure, nonostante questi buoni propositi resto sul chi va là. Temo mi attenda il consueto profluvio di quel patetico infantilismo chiamato “concettualismo”, parola che trovo piuttosto pornografica. In gioventù la veneravo, così come tante altre cose alla moda, dal maoismo alla trasgressione, ma ora sono un po’ cresciuto e per quanti sforzi io faccia l’iconoclastia m’inquieta solo per il malumore che riesce a trasmettermi. Tante volte percorrendo i viali dei Giardini mi sono creduto Bouvard e Pécuchet che visionano la crème dell’umana sottise. E mi sono sentito un reazionario, subendone la pena. Per fortuna la parola concettualismo è spesso usata a sproposito, la grande arte non tollera gli ismi. Prendiamo il caso di Giulio Paolini, presente quest’anno nel padiglione italiano; più che concettoso egli parmi magico, in estrema confidenza col mistero ed eccelso metteur en scène del gran teatro dell’ignoto. Inoltre amo la provocazione e tutto mi può attrarre, purché davvero provochi. Anni fa a Palazzo Grassi fui tentato d’inginocchiarmi e pregare di fronte al piccolo Hitler orante di Cattelan.
Insomma, se si lasciano da parte gli ismi, i fanatismi in particolare, se ci si avventura in solitudine senza pregiudizi di sorta, o anche con, ma pronti a lasciarli per strada, se si abbandonano i partiti presi e ci si abbandona all’emozione di quel che all’improvviso ci si para innanzi, be’, l’arte la s’incontra eccome. Soprattutto se non ci si aggrappa, spaventati, al giustificazionismo di certa critica. Spiegare un testo è detestarlo; meglio che resti nell’ombra e nel silenzio. Solo così la sua invisibile luce si fa strada nel nostro cuore.
Quel che più trovo imperdonabile è il disinteresse che diventa ostracismo delle istituzioni pubbliche e private, nonché di tanti critici e curatori, per quel che resta la gloria dell’Italia nei secoli e nel mondo, la pittura, la scultura. Col risultato che, lasciati allo sbando, i pittori italiani di qualità si contano sulle dita delle mani di un focomelico. Pensare che per una “Periferia” di Sironi darei duecento pimpanti padiglioni! C’è tutto il dolore del mondo, e l’amore, in un quadretto di quell’uomo. Del resto, che in questa Biennale il primo premio sia andato a Tino Sehgal, geniale coreografo degno di Pina Bausch, la dice lunga. Dice che discipline e scampoli di discipline che fino a quarant’anni fa non avevano accesso alla mostra d’arte, ora non solo la invadono ma la fanno da padrone. Si è scritto molto, e con acutezza, sul diritto dei balletti, delle coreografie, performance e video, di partecipare alle mostre di arte, ma resto nella convinzione che lo spazio più consono alle coreografie e alle performance siano i festival di danza e di teatro, così come i filmaker avrebbero tutto il diritto di partecipare ai festival del cinema, vi porterebbero aria fresca. Basta con l’elogio indiscriminato della contaminazione, nemmeno fosse la soluzione di tutto. Da avanguardista che ero in gioventù sarò pure diventato un vecchio babbione reazionario, epperò penso che nello scambismo artistico dovrebbe valere la reciprocità; ma tutti troverebbero ridicolo uno scultore che si presenta con un blocco di marmo al festival del cinema. Se proprio s’insiste c’è un’altra proposta, più audace e quindi leale: si abbia il coraggio di fare una Biennale globale di tutto, pittura, musica, teatro, balletto, letteratura, boxe ecc. ecc. Fino a scoppiare! Sì, è vero, si può fare arte con tutto, ed essere soddisfatti e laudati; ma a me interessa solo chi rispetta la regola evangelica, ed entra per la porta stretta. Hai una tela, un pennello, altro non ti sarà dato, crea il mondo.
Non è il momento d’indugiare oltre nella polemica, dopo un po’ cominciano stranamente a piacermi le tesi dei miei avversari; ma anche perché una simpatica sorpresa ci attende. Con Zara e Sofia entro nel regno di Massimiliano Gioni, il Palazzo Enciclopedico, e bastano pochi passi per renderci conto di come sia avvenuto un miracolo: dopo anni e anni di esilio la pittura è tornata, e con lei la scultura.
Sono quasi sparite le installazioni, le performance, i ready-made, le carrettate di realtà gettata nuda e cruda nella scena, e di nuovo ecco che per dirci di un uomo e del suo mistero pare più opportuno dipingerlo sulla tela piuttosto che portarlo al museo in carne e ossa. Le opere pittoriche qui esposte, tuttavia, non sono tutte di gran livello; non sarà una malizia di Gioni per mostrare l’ineluttabile tramonto della tela? Ma no. Certo il giovane direttore poteva cercare altrove e di meglio avrebbe trovato; ma forse non gli interessavano i capolavori quanto certi lavori che gli evocavano qualcosa di speciale. Arte da camera è quella che Gioni propone nelle sue stanze, accuratamente separate l’una dall’altra per ricreare l’intimità necessaria al rapporto tra opera e visitatore, sempre notturno, sempre sorprendente. Zara mi fa notare come le stanze del Palazzo Enciclopedico siano popolate da un gran numero di fantasmi. Né morti né vivi, pensierosi e benevoli, costoro ci guardano e si fanno guardare. Forse, suggeriscono le due fanciulle, non si tratta di una resurrezione quanto di una spiritica seduta, di Gioni innanzitutto e ora di noi tutti visitatori, attorno al “Libro Rosso” di Jung, nume tutelare di questa Biennale. Un cenacolo in cui il Contemporaneo è a sua volta presente, invitato ad apprendere, dopo tanto fragore, la bellezza del silenzio, la vitalità del requiem. Una bella provocazione, non c’è che dire. Grazie alla serena restaurazione di questa Biennale, mi sento autorizzato a sognare il paradiso, una mostra tutta tappezzata dai dipinti dei grandi: Alex Katz, Philip Guston, R. B. Kitaj, David Hockney, Sigmar Polke, Rose Wylie, Hurvin Anderson, Per Kirkeby, Wilhelm Sasnal… E Sofia e Zara, naturalmente. Ma qua e là ci vedrei anche qualche superbo residuato industriale o domestico, ne sentirei la mancanza, a quel punto. Sono allegro, riconciliato, e abbraccerei l’elegante signora del “Fall 91” di Charles Ray, se potessi. Purtroppo è alta un metro e passa più di me, e il resto del corpo è proporzionato alla sua altezza. Mi occorrerebbe una scala per poterla baciare. Scalare una donna, che strana idea. Sofia mi guarda perplessa, Zara s’inginocchia e mi scatta una foto.
Il miracolo in bilico di Massimiliano Gioni introduce a un altro miracolo, più solido, l’atteso Padiglione della Santa Sede, tanto voluto dal cardinal Ravasi, aspirante erede del sommo Leone X, e curato da Antonio Paolucci. E’ un debutto, e giustamente il titolo dell’esposizione suona “In Principio”. Occorre dire che già in partenza la nuova creatura usufruisce di un’agevolazione non da poco: mentre il mondo dell’arte si presenta in tutto il suo sterminato e variegato politeismo che si coniuga alla poligamia, dando luogo a una pienezza che per contrappasso rasenta il vuoto, il Padiglione della Santa Sede può vantare, per originaria tradizione, un solido e autorevole monoteismo che la Trinità esaspera nel mistero della Trasfigurazione. E ricordiamo sempre, a monito degli estrosi Duchamp e Man Ray, e dei loro noiosi epigoni, che fu Cristo a inventare il ready-made e Dada la notte che davanti all’umanità tutta, passata, presente e futura, mutò il pane in corpo e in sangue il vino con il solo nominarli tali. Che duemila anni dopo Duchamp porti nel sacrario museale un pisciatoio che grazie alla sua parola ha innalzato a opera d’arte, lungi dall’essere l’inizio di un nuovo tempo suona piuttosto come un umile omaggio a quel che da sempre è in atto.
Con l’Introibo michelangiolesco di Tano Festa ecco “In Principio” presentarsi la “Creazione”, di cui si fa carico Studio Azzurro, immergendoci in un fascinoso acquitrino che nel mio ricordo echeggia la scena di un video di Bill Viola che vidi sei anni fa nella chiesetta veneziana di San Gallo. Là i corpi venivano dal buio, assaporavano la pienezza della carne per poi nuovamente svuotarsi dell’acqua della vita e tornare nell’oblio, sotto lo sguardo triste e impotente dello spettatore. Nello Studio Azzurro il visitatore invece è chiamato in causa: come a Dio nella Cappella Sistina, basta il tocco di una mano, di un dito, per dare vita alle creature dello schermo. Sta a ciascuno osare. Nella Seconda Persona della Trinità si contemplano – in stanze sobrie, quasi spoglie – le fotografie di Josef Koudelka. Un bianco e nero di rara potenza, viluppo di urla e di silenzio, illustra la “De-Creazione”, lo scempio che ovunque l’uomo ha fatto di se stesso e del mondo.
Infine la Terza Persona trinitaria nella “Ri-Creazione” di Lawrence Carroll, forse l’artista più intenso di questa Biennale. A lui è stato affidato il compito di ridare vita alla materia derubata dell’anima, derisa e umiliata. Nei suoi grandi dipinti si avverte la cornice invisibile. Tagliente guardiana dell’etica essa stabilisce il limite che è poi la chance. Se tutto è possibile, Dio non esiste; e neppure l’Io. In Carroll si avverte la difficoltà, l’arte di far irrompere in una tela il reale in tutto il suo inafferrabile mistero. Nessun effetto speciale, povere stoffe deturpate e polverose che grazie alla cura del loro artista acquistano uno sguardo, una disperata dolcezza che stringe il cuore e spinge Sofia e Zara a interpellare direttamente colui che le tele ha salvato dal nulla. Ne vale la pena: Lawrence Carroll dai serpentini capelli e dagli occhi luminosi è un uomo di rara semplicità e simpatia. “E’ meraviglioso starmene tutto il giorno solo nel mio studio” sospira, guardando con amore la bella moglie Lucy che gli sorride. “E con chi parla?”, lo incalza Sofia. “Con Rothko e con Giotto. Ma quando sono qui, tra i miei quadri esposti, mi emoziona l’altrui emozione, quando un visitatore indugia davanti a una mia opera e non riesce a staccarsene”. In effetti è difficile staccarsi da un suo quadro, ove ogni piega, ogni sbavatura, ci costringe a interrogarci sulla precarietà delle cose del mondo ma anche sulla loro forza di resistere al nulla che le trafora ma non le annienta. Qual è il segreto di tanta resistenza? Candidamente Lawrence lo confessa a Zara: “Non resisto a nulla, accetto i tempi della vita, lascio ad altri l’ironia sul Creato e la smania di perfezione”, e così dicendo osserva un cinese che si è piazzato davanti a un suo quadro e non riesce a staccargli gli occhi di dosso. E’ davvero sempre arrischiato parlare con un’opera che non si conosce, che non declina generalità, che è vestita di cenci. Il volto del cinese, dapprima impassibile, si abbandona a vertiginosi tic. Sospetto che stia lottando contro la fretta di passare oltre per tutto ingurgitare e tornarsene al suo paese colmo di niente. Ma non ce la fa, una invisibile collosa materia lo tiene inchiodato al dipinto di Carroll, e ora siamo noi tutti, il pittore, sua moglie, Zara, Sofia, io, inchiodati a nostra volta davanti allo spettacolo che l’uomo in giallo ci offre.
Di malavoglia lasciamo Carroll e la Santa Sede. Ma un altro miracolo ci attende. Attraversiamo il dignitosamente malinconico Padiglione italiano con mano precisa disegnato da Bartolomeo Pietromarchi, e sento una voce che mi chiama. Mi fermo, e non ho bisogno di voltarmi per capire a chi appartiene. E’ una voce indimenticabile, dolce e lontana, ironica e benevola quella di Fabio Mauri, presidente di una galassia editoriale ma soprattutto squisito artista e impareggiabile conversatore, qui presente e vivo in una delle sue tante reincarnazioni. Vado verso di lui, lo saluto e lo osservo. Sta appeso al muro e veste i panni del suo famoso giovanotto greco – o serbo, o albanese, non l’ho mai capito. Caro Fabio, risparmio alla tua opera ogni commento, memore che tu per primo, quando ancora frequentavi il tempo della vita mortale, eri pronto ad abbozzare un certo sorrisino se qualcuno cercava d’interpretarti. Preferivi che le tue creature restassero avvolte nel mistero, di cui neppure possedevi la chiave. E misterioso fosti fino all’ultimo tuo respiro. Sicché anche ora non tento di decifrarti, tanto più che delle impervie parole della critica sono incapace. Preferisco quelle dell’amicizia per descriverti come mi apparisti nella performance estrema che mi hai regalato: la tua morte. Ti fui vicino qualche anno fa, e quando non ero con te mandavo lettere che Piera ti leggeva quale viatico, e tu mormoravi parole ch’ella mi riferiva. Una lettera diceva così. “Belle le tue parole, caro amico; parole lente e dense, gocce di dolore e di verità. Bellissimo il tuo volto assorto, solenne e sereno, di chi è carezzato dal soffio divino. Costeggi i confini dell’arte e della vita e il mistero s’infittisce. Non hai paura, curiosità piuttosto, sai che Dio ama gli artisti e li guida per le terre estreme della Creazione: poche certezze e qualche lume qua e là, quanto basta. Sempre il mistero è glorioso, sempre sia lodato: siamo al mondo non per risolvere gli enigmi ma per amarli, in essi abitano la fede, la speranza e la carità. Sebbene di questi tempi tu dormicchi parecchio, penso che la tua veggenza non ne soffra per niente, anzi, come gli antichi e i poeti, ne guadagni assai. Dormi e sogni, sogni e dormi, tu stesso come ciascun artista, sogno di Dio. Ch’Egli stesso è sonno e sogno. Sei sempre stato leale e generoso, e soprattutto coraggioso. Fin da piccolo avevi davanti a te una strada più semplice da percorrere, un cammino tracciato da tuo padre, e hai scelto la via più difficile, quella in cui subito hai incontrato il Dio del mistero e del dolore. Quando incorniciasti il tuo certificato manicomiale esponendolo come un’opera d’arte, Dio ha sorriso compiaciuto a questa tua audacia estrema e ha mormorato: ‘Ci siamo’”.
Ricordi Fabio? Stavi seduto su una poltrona e dolcemente morivi. Per un riflesso nervoso – mi spiegò il simpatico e attentissimo oncologo – la tua grande testa lentamente ruotava disegnando un perfetto ovale: piazza Navona. Una sciabola di luce calava dalla chiesa di Sant’Agnese del Borromini fendendo i pagani fiumi del Bernini per posarsi alfine, angelo del Guercino, sul balcone della tua stanza. Un guizzo dei tuoi occhi mi dicevano che avevi inteso e forse visto. “Tu sai”, mormorai, e l’enigmatico sorriso delle tue labbra lo confermarono. Mai come con te la Morte mi è apparsa in tutto il suo quieto mistero.
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