Il processo di Torino
Mr. Eternit, come un nazi nella Norimberga dell'amianto
Era ovunque, l’indistruttibile asbesto, l’incorruttibile amianto. E noi, ignari in una nuvola di morte, inebriati dalla malìa del progresso, circondati dal male. Ferri da stiro, tetti, guanti da forno, schermi cinematografici, filtri per pipe e sigarette mentolate, asciugacapelli, carrozze ferroviarie, navi, vernici, assorbenti interni, scuole, linoleum, tubature, scappamenti o freni per auto, canne fumarie, guanti e vestiti ignifughi, persino i ripiani dei forni per il pane e la pizza o i filtri per il vino, tutto sprigionava la polvere grigiastra che fa impazzire le cellule.
Leggi anche La breve storia dell'eternit: da materiale ecologico a veleno mortale di Maurizio Stefanini - l'editoriale Il giudizio difficile e semplificatorio
Era ovunque, l’indistruttibile asbesto, l’incorruttibile amianto. E noi, ignari in una nuvola di morte, inebriati dalla malìa del progresso, circondati dal male. Ferri da stiro, tetti, guanti da forno, schermi cinematografici, filtri per pipe e sigarette mentolate, asciugacapelli, carrozze ferroviarie, navi, vernici, assorbenti interni, scuole, linoleum, tubature, scappamenti o freni per auto, canne fumarie, guanti e vestiti ignifughi, persino i ripiani dei forni per il pane e la pizza o i filtri per il vino, tutto sprigionava la polvere grigiastra che fa impazzire le cellule. Ogni nostro gesto, inconsapevole passo verso l’abisso, riempiva di franchi svizzeri le casse della famiglia Schmidheiny, silenziosa, acquattata tra le Alpi, ma con le mani in pasta in ogni cantone e cantuccio del paradiso elvetico. Eccola la crescita infelice, s’infiammano i grillini seguaci di Serge Latouche. Ancora una volta l’uomo ha violato la natura e lei, matrigna, s’è vendicata.
Una fitta coltre di ignoranza coibenta ancor oggi le nostre vite circondate dal veleno nascosto in quelle fibre 1.300 volte più sottili di un capello umano. Un orrore scientemente occultato. “Proprio come l’Olocausto”, proclama in aula il giudice Alberto Oggé con compiaciuta quanto grave solennità. Chi l’ha provocato equivale a un criminale nazista. E a Torino s’è celebrata la Norimberga dell’industria.
A sentirsi paragonare a una SS, Stephan Schmidheiny rabbrividisce. Proprio lui che ha passato una vita a liberarsi dallo spettro dell’asbesto, lui che da giovane voleva fare il pastore e predicare il Vangelo. Condannato un anno fa, dopo la sentenza d’appello emessa dal tribunale il 4 giugno, i 16 anni di prigione salgono a 18. “Nessuno verrà più a investire in Italia”, si difende e contrattacca attraverso i suoi avvocati. Gli replicano che, allora, dopo le sentenze Enron o Madoff nessuno doveva più mettere un centesimo a Wall Street e invece eccola lì la Borsa di New York che supera di nuovo tutti i record. Ma le cose sono ben più complicate.
Stephan, che ha venduto tutto per ricominciare altrove con ben altri affari sotto bandiere verdi e sostenibili, non ha diritto a una seconda vita, non merita dunque la rigenerazione? Si nasce una volta sola e la maledizione della tua famiglia ti resta attaccata per sempre, le colpe dei padri ricadono sui figli, li perseguitano, li condannano. A Torino è andato in scena un romanzo di John Grisham, come “La giuria” che racconta il processo contro le Big Four, le quattro multinazionali del tabacco. Invece la trama ci porta a Gilbert Chesterton, a Jorge Luis Borges con il “Tema del traditore e dell’eroe”. Perché “il mostro dell’amianto”, è anche l’uomo, lo stesso uomo, che ha cominciato a cancellare quella sostanza assassina dalla faccia dell’industria moderna.
Erede di una famiglia di imprenditori arrivata alla quarta generazione, Stephan Schmidheiny nasce nel 1947 a Heerbrugg nel Cantone di San Gallo al confine con l’Austria. Max, il padre, nel 1984 aveva diviso i suoi molteplici affari: il cemento al primo figlio Thomas, al terzo, Alexander, l’impresa di sciolina e al mediano l’impero del male. Per l’imperioso genitore non c’erano vocazioni o aspirazioni che importassero più di mantenere in famiglia quel che i suoi avi gli avevano lasciato e lui aveva accresciuto in denari e uomini. “Ho respirato anch’io quelle polveri venefiche”, dice Stephan ricordando il periodo di apprendistato in fabbrica e sostiene di aver capito fin da allora che bisognava cambiare. Prima ci prova dall’interno, ma non è facile. Finché i tentativi diventano più consistenti quando viene nominato amministratore delegato della Eternit.
C’è una sorta di ampia inchiesta, un libro scritto a più mani, nessuna certamente amichevole, che racconta tutta la storia con equilibrio e obiettività. Si intitola “Eternit and the Great Asbestos Trial”, Eternit e il grande processo all’asbesto, lo si può consultare via Internet all’homepage dell’Ibas, l’International Ban Asbestos Secretariat, organizzazione mondiale che si batte per il bando all’amianto ed è stato pubblicato da una serie di organizzazioni militanti, tra le quali i sindacati europei. La figura di Stephan Schmidheiny viene fuori a tutto tondo, con la contraddizione lacerante tra quel che è e quel che vorrebbe essere, tra un’eredità grave come una macina e gli sforzi per liberarsene. Non è un san Francesco che si spoglia dei beni paterni, sia chiaro. Resta un uomo d’affari ed egli stesso lo ripete con orgoglio, ma è un imprenditore che cerca strade nuove. Spende, investe, guadagna, dà lavoro, distribuisce, sponsorizza, e accumula riconoscimenti da celebrate università (Yale, Tuft), organizzazioni umanitarie, comitati etici, a far da lavacro a quel che di sporco gli avi gli hanno lasciato.
Tutto comincia con le tegole e il cemento. O, per essere più precisi, con un fallimento. Jacob Schmidheiny, classe 1838, figlio di un sarto, lavora la seta e intende metter su una sua aziendina tessile. Le cose vanno male, ma il giovanotto non si scoraggia, vuole fare l’imprenditore e cambia campo in un batter d’occhio. Case, immobili, castelli, sì perché riesce a farsi prestare i soldi da un estraneo per comperare il maniero di Heerbrugg. Poi arriva la produzione di rivestimenti per tetti. Il cemento, invece, è pane per il suo primogenito Ernst al quale si deve la fortuna della famiglia.
E’ l’èra dei grandi conglomerati e dell’intreccio banca industria, modello tedesco (adottato nello stesso periodo anche in Italia). Così Ernst fonda la Holderbank che resterà la cassaforte e nello stesso tempo la nave ammiraglia di un gruppo destinato a espandersi a macchia d’olio e in tutto il mondo, tanto che nel 1944 sul suo impero non tramonta mai il sole: dall’America all’Asia attraverso il medio oriente.
Nel 1991, l’anno in cui, con la morte di Max, la parabola giunge al culmine, ben 360 compagnie in venti paesi facevano ancora capo alla Holderbank. Dal cemento lo spazio d’azione s’era allargato al legname, all’automobile, agli strumenti ottici. E’ Jacob, fratello di Ernst, a sviluppare questo filone che, con l’apporto di Heinrich Wild, produce oggetti pressoché perfetti soprattutto per misurazioni geometriche. Finché la compagnia, chiamata Leica, diventa parte della Leica tedesca, quella delle macchine fotografiche migliori al mondo prima che arrivassero i giapponesi.
Ma il salto, un vero balzo nell’ignoto, era avvenuto con l’indistruttibile e incorruttibile materiale introdotto nell’industria delle costruzioni dall’austriaco Ludwig Hatschek. L’amianto si trova facilmente in natura e si estrae dalla roccia madre in miniere a cielo aperto. Quel che fa davvero male è la sua microfibra se liberata nell’aria e respirata, quella stessa fibra sottilissima che offre enormi potenzialità: resistentissima, in particolare al calore fino ad altissime temperature, serve a proteggere i materiali dal deterioramento atmosferico, a isolare, a fare da scudo al fuoco. Hatschek nel 1903 la mescola al cemento e tira fuori un amalgama rivoluzionario. Ne capisce subito le potenzialità e le sfrutta: registra il marchio Eternit concedendo licenza a una sola impresa per ogni paese; proprietà diversa, ma tutte con lo stesso nome tranne in Olanda dove si chiama Martinit. Nel 1920 Schmidheiny si getta a corpo morto nel nuovo filone. In pochi anni diventa il più forte produttore internazionale, insieme alla licenziataria belga controllata dalla famiglia Emsens che ha fatto fortuna con l’estrazione di metalli: la Sibelco, fondata da Stanislas nel 1872 è la più vecchia compagnia industriale delle Fiandre. Svizzeri e belgi formano un vero e proprio duopolio globale e dopo la Seconda guerra mondiale si fidanzano scambiandosi pacchetti azionari quasi fossero anelli.
La terza generazione, come è frequente in tutte le saghe delle grandi famiglie, raggiunge l’apice mentre già s’insinua nei loro successori la sindrome dei Buddenbrook. I fratelli Ernst e Max, insieme al cugino Peter, trasformano il nome Schmidheiny in sinonimo di capitalismo elvetico. Industria, finanza, assicurazioni, trasporti (prima i treni poi gli aerei con la Swissair), politica. Senza lasciare le tegole e il cemento, soprattutto quello mescolato con l’amianto. Max entra nel consiglio d’amministrazione della Ska (oggi Credit Suisse), Peter nella Sbg (ora Ubs): a ciascuno il suo. E trasmettono la poltrona ai rispettivi figli. Roba che nemmeno gli Agnelli si sono mai potuti permettere. Per trovare qualcosa di analogo in Europa dobbiamo andare in Svezia con la famiglia Wallenberg. Un potere vasto, tanto ampio da trasformarsi in condanna.
Il giovane Stephan sembrava destinato a diventare un Hanno Buddenbrook, perduto se non nella musica, quanto meno nella metafisica e nella religione, con un gran desiderio di uscire dalla dannazione dinastica per dedicarsi al servizio del Signore. Forse non era una vera e propria chiamata. Non che la sua vocazione non fosse genuina, ma certo non ha resistito all’imperio del pater familias. Invece che Teologia, così, studia Legge a Zurigo. Appena laureato, il padre lo manda a Osasco, nella fabbrica brasiliana di cemento-amianto, la più importante del gruppo in America latina. Lavora insieme agli operai, scarica sacchi, inala polveri e fibre. Lo ricorda ora a mo’ di difesa e lo scrive in una e-mail (non ha mai concesso interviste) a Tatiana Serafin, la giornalista di Forbes che nel 2009 lo definisce “il Bill Gates della Svizzera” tracciandone un ritratto che sembra un panegirico a quelli del comitato anti asbesto.
Nel 1976, a soli 29 anni, è al timone della Eternit. Due anni dopo annuncia solennemente che per l’amianto è l’inizio della fine. I suoi impianti cominciano il lento distacco da quel materiale che era stato una miniera d’oro per la sua famiglia. E ciò avviene in due modi: cambiando il mix produttivo là dove è possibile e cedendo le attività che non possono essere riconvertite. Anche gli stabilimenti italiani, che coprivano un quinto del mercato tricolore, seguono la stessa sorte. Nel 1986 chiude definitivamente l’impianto di Casale Monferrato, il maggiore in Europa. Poi tocca a quelli brasiliani. In famiglia è un terremoto. Il padre è contrario. I fratelli non si intromettono. Ma l’annuncio si rivela troppo anticipato e il processo rallenta.
Nel 1984, Max divide il gruppo tra i figli e Stephan a questo punto ha il pieno comando. Da Eternit si stacca una nuova società che nel 1987 prende il nome di Eternova Holding. Mentre la prima viene trasformata in un’impresa integrata di materiali per l’edilizia rinominata Cemroc. La transizione è lunga e complicata, costruita con l’abilità dell’uomo d’affari che non vuole perdere un franco. Nel 1988 tocca al Brasile, incluse le miniere, poi a Colombia e Bolivia. Nel 1989 c’è l’addio al lungo sodalizio con i belgi. L’ultimo tubo contenente amianto viene prodotto in Svizzera nel 1994. Troppo tardi, accusa uno studio del Partito socialista olandese (“The tragedy of asbetos”); anzi, l’introduzione di nuovi materiali è stata rallentata per non perdere quattrini. Fatto sta che ci sono voluti 16 anni. E’ la stessa tesi di Sergio Bonetto, avvocato delle vittime italiane.
Se Stephan pensava di essersi liberato della sua maledizione, ebbene si sbagliava di grosso. Evidentemente non conosceva Raffaele Guariniello, procuratore della Repubblica italiana, 72 anni, quattro decenni passati in procura a Torino, grande inquisitore di potenti, industriali italiani (le schedature Fiat negli anni Settanta) ed europei (è sempre lui l’implacabile accusatore di ThyssenKrupp), finanzieri, divi del pallone e loro burattinai (nel mirino soprattutto la Juventus).
La prima nazione al mondo a usare cautele contro la natura cancerogena dell’amianto tramite condotti di ventilazione e canali di sfogo, fu il Regno Unito addirittura nel 1930, a seguito di pionieristici studi medici che dimostravano il rapporto diretto tra utilizzo di amianto e tumori. Ma allora si pensava che fossero eccezioni, il vero pericolo veniva dall’asbestosi, contratta in seguito a contatti diretti con il materiale, quindi come malattia professionale dei lavoratori nelle fabbriche Eternit. Nel 1940 in Italia viene lanciata una campagna sanitaria e il comitato anti asbesto mostra foto impressionanti delle condizioni di lavoro nelle fabbriche italiane, con gli operai immersi nelle polveri e protetti solo da un fazzoletto davanti alla bocca. Nel 1943 la Germania è la prima nazione a riconoscere il cancro al polmone e il mesotelioma come conseguenza dell’inalazione di asbesto e a prevedere un risarcimento per i lavoratori colpiti. La guerra giustifica tutto, ma anche al tutto c’è un limite.
Anno dopo anno, ricerca dopo ricerca, appare sempre più chiaro che il rischio è altissimo non solo per chi sta in fabbrica. Le polveri circolano ovunque, il territorio attorno agli stabilimenti viene contaminato. Tutti sono potenzialmente minacciati come a Casale Monferrato, dove i primi manufatti in cemento-amianto risalgono al 1907 con i tubi brevettati dall’ingegner Adolfo Mazza, uno dei pionieri. Poi arrivano le fioriere alla vigilia del Primo conflitto mondiale e nel 1933 le lastre ondulate che copriranno tutti i capannoni d’Italia. Negli anni Cinquanta il grande affare è isolare le carrozze ferroviarie e le navi dove il rischio d’incendio è sempre altissimo. E per un quarto di secolo quelle microfibre accompagnano la Golden age dell’economia occidentale.
Ma quando Stephan assume la guida di Eternit, l’età dell’abbondanza è già finita e il gruppo viaggia diritto verso la bancarotta come conseguenza della micidiale combinazione tra i problemi legati alla nocività dell’amianto e il collasso dell’industria delle costruzioni a ridosso della seconda crisi petrolifera. “In pratica, ho dovuto ripartire da zero”, dice a Forbes. Esagera. Diciamo da molti zeri vista l’eredità. “Vendere quel che i miei avevano costruito non è stato facile – confessa – ma mi ha consentito di ricominciare davvero una nuova vita e un nuovo percorso”. Quello del filantropo, dell’alfiere dell’ambiente anzi “dell’Eco-efficienza che parte dal basso, dalla società civile, da milioni di uomini e donne che prendono in mano il loro destino”, come scrive nel 1990 annunciando con una certa enfasi all’Università di Zurigo, “la missione dell’imprenditore nello sviluppo sostenibile”.
Per disincagliarsi dall’amianto, comincia una girandola di scissioni con accorpamento in nuove società. E’ un rincorrersi di nomi ai quali si fa fatica a stare dietro. Cortina fumogena per nascondere il vecchio lavoro sporco, sostengono gli accusatori. Magheggi finanziari per guadagnare da operazioni di per sé in perdita. Intanto Stephan si dedica ad altro, come gli orologi di plastica Swatch insieme a Nicolas Hayek. Corre l’anno 1985 e diventeranno un clamoroso successo di mercato: è l’èra degli yuppie e non si può vivere senza indossare al polso l’ultimo coloratissimo e trasparentissimo oggetto segnatempo. Ma a Stephan non basta. Scontento, alla ricerca di spazi nuovi, si lascia alle spalle la Svizzera e l’Europa “troppo vecchia e bloccata nonostante l’Unione europea”, spiega, e mette radici in America, a New York e soprattutto nel sud. Nel 1986 registra la prima fondazione chiamata Fundes. Nel 1994 arriva Avina. Intanto, ottiene la nomina a consulente dell’Onu per preparare il Summit della Terra, la Conferenza di Rio del 1992. Il forum diventa Consiglio economico mondiale per lo sviluppo sostenibile e Schmidheiny viene eletto presidente onorario.
La sua conversione americana si accompagna a una riconversione latifondista. Compra fattorie, foreste, fabbriche di legname in Cile, Argentina, Brasile, Venezuela e Messico. E attorno al nuovo business, produrre profitto salvando l’ambiente, costruisce anche le sue attività caritatevoli verso le quali instraderà il figlio primogenito dopo che nel 2003, collocati i suoi beni nella fiduciaria Viva, si ritira da tutte le funzioni esecutive.
Anche il fratello Thomas lascia progressivamente i suoi rami d’affari. Perde una gran quantità di quattrini in Swissair che fallirà del tutto nel 2001. Vende le attività cementifere ai russi. E finisce sotto accusa per insider trading in Spagna. Nel 2007 la sua fortuna era stimata in 6 miliardi di euro, la crisi dimezza il patrimonio che, però, resta ancora cospicuo. Pure Thomas vuol farsi perdonare e dona tre milioni di euro a Casale Monferrato per le vittime dell’amianto.
“Il peccatore si fa santo?” chiede Laurie Kazan-Allen dell’associazione internazionale anti asbesto a proposito della metamorfosi di Stephan. Né l’uno né l’altro o tutti e due a seconda dei punti di vista. Daniel Berman e Adrian Knoepfli, un americano e uno svizzero, un divulgatore e un economista, presentano una immagine non immacolata nemmeno nelle nuove attività. L’acquisto di terre in Cile è roba che scotta. Intanto perché è avvenuto durante la dittatura di Pinochet verso il quale il magnate svizzero non si è mai troppo esposto. E poi perché c’è la protesta degli indios Mapuche che si sentono defraudati. Pomo della discordia 120 mila ettari di foresta nel Cile meridionale che appartenevano alle tribù indigene dai tempi dei tempi. Terra Nova, la compagnia che fa capo a Mr. Eternit, deve restituire il maltolto. Il capo Huilcamán, presidente del gran consiglio dei Mapuche, nel 1999 prende l’aereo e va in Svizzera per incontrare Schmidheiny in persona. Tenta invano, si presenta solo un manager, Hans-Ulrich Spiess, ma rifiuta di parlargli: è un grande capo lui, e si è mosso per vedere un suo pari.
“Stephan usa la filantropia come cortina fumogena, finge di aver inventato un nuovo paradigma ecologico per cancellare i guasti provocati”, accusa Daniel Berman che è stato anche ascoltato al processo di Torino. A suo parere nulla può cancellare quel che Eternit ha fatto negli ultimi 35 anni. “Si fa presto a parlare di eco-efficienza e di società civile – insiste – Schmidheiny ha il dovere morale, e legale, di ricompensare quelli le cui vite sono state soffocate dall’esposizione all’asbesto”. Una spaventosa nemesi fa sì che anche l’amministratore della Eternit belga, Etienne van der Rest, sia morto di mesotelioma pleurico, il cancro dell’amianto.
Un dovere legale e morale, dunque. Ma anche una responsabilità penale, anzi un delitto ben coltivato? E’ questa la tesi di Guariniello che il procuratore è riuscito a far passare in ben due gradi di giudizio, dopo un lavoro di indagine cominciato nel 1999. Ha sulla coscienza la morte di tremila persone fin dagli anni Cinquanta, dice il magistrato, dunque la colpa si trasmette di generazione in generazione, non ha limiti temporali. Il presidente della Eternit, il barone belga Louis de Cartier, è deceduto il 21 maggio a 92 anni. Adesso il castigo per il delitto ricade tutto sulla testa di Schmidheiny il quale “nasconde dietro attività filantropiche, sia attività lobbistiche che di spionaggio per evitare di rispondere della sua condotta davanti ai giudici. De Cartier si è lamentato della giustizia italiana, di un processo giusto che è un vanto per il nostro paese”, ha sferzato il procuratore nella requisitoria che ha fatto colpo sui giudici. Guariniello non ha nascosto la sua soddisfazione: “La pena è stata aumentata per l’elevata capacità di delinquere di Schmidheiny, la consapevolezza della pericolosità del materiale, la stessa strategia di disinformazione messa in atto con le fabbriche aperte e proseguita dopo”.
Una sentenza altamente simbolica, punirne uno per colpirne cento, un verdetto dal sapore esemplare e dal forte contenuto non solo emotivo, ma politico. L’Onu non è ancora riuscita a mettere al bando l’asbesto per colpa della Russia e dei paesi ex sovietici, più India, Vietnam e Zimbabwe, insomma tutti i maggiori produttori del minerale. Ma il precedente italiano può far scattare una reazione a catena nel resto del mondo dove si sono moltiplicate negli anni le cause civili. Tra i più attivi è il comitato brasiliano che vuole giustizia per i morti di Osasco. A Torino si è celebrato il processo all’olocausto industriale, secondo il giudice Oggé. L’Eternit è come l’Ilva, dice il procuratore Guariniello, l’amianto come l’acciaio. E’ solo l’inizio. L’Italia innalza la bandiera, capitalisti di tutto il mondo tremate.
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