Industriali e politici senza un “piano B” per l'euro? Non sono veri leader
Dopo aver ripetuto per anni in consessi e convegni che l’Italia aveva bisogno di un piano A, per restare nell’euro, e un piano B, per essere pronto a uscirne, il 10 e il 23 novembre 2010 ho ripetuto su questo quotidiano la proposta. Essa fece scalpore, ricevetti inviti a partecipare a trasmissioni radio e televisive, ne accettai solo alcuni per controbattere chi mi aveva sbrigativamente catalogato tra gli euroscettici. La risposta dei partiti e della pubblica opinione a una situazione economica insostenibile fu quella di convincere il presidente Napolitano a chiamare a capo dell’esecutivo Mario Monti, il quale indicò i contenuti del suo piano A, escludendo ogni necessità di elaborare un piano B.
Dopo aver ripetuto per anni in consessi e convegni che l’Italia aveva bisogno di un piano A, per restare nell’euro, e un piano B, per essere pronto a uscirne, il 10 e il 23 novembre 2010 ho ripetuto su questo quotidiano la proposta. Essa fece scalpore, ricevetti inviti a partecipare a trasmissioni radio e televisive, ne accettai solo alcuni per controbattere chi mi aveva sbrigativamente catalogato tra gli euroscettici. La risposta dei partiti e della pubblica opinione a una situazione economica insostenibile fu quella di convincere il presidente Napolitano a chiamare a capo dell’esecutivo Mario Monti, il quale indicò i contenuti del suo piano A, escludendo ogni necessità di elaborare un piano B. La politica economica di quel governo, però, ha evitato di affrontare i due problemi principali: ridurre la spesa pubblica e cedere il patrimonio per rimborsare il debito dello stato. Poiché non mi limito alle sole diagnosi, ma sento il dovere di avanzare terapie, sollecitato da Pellegrino Capaldo e per non sentirmi sempre solo, ho curato con un gruppo di persone la stesura di una parte importante del piano A, quella di pertinenza europea, circolato come “Appello per un nuovo Trattato europeo”. Lucio Caracciolo ha avuto la cortesia di pubblicarlo su Limes, mentre Paolo Messa e Michele Arnese lo hanno sostenuto efficacemente su Formiche.net.
Ha ora preso avvio una corsa a sostenere che entrare nell’euro fu una scelta affrettata (tesi da me subito sostenuta con il mio grande maestro, nonché firmatario del Trattato di Maastricht, Guido Carli), se non proprio un errore. Persone altamente responsabili e interessate all’evento, come il presidente della Confindustria Giorgio Squinzi e il presidente dell’Assolombarda Gianfelice Rocca, hanno sostenuto in questi giorni che non è opportuno uscire dall’euro, anche se la scelta di entrare fu affrettata. Se così la pensano, hanno il dovere di specificare che cosa fare di diverso da quello che ci viene chiesto per stare nell’euro o che cosa si deve ottenere per restarci. Non basta invocare un cambiamento. Siamo ancora al piano A, che non è quello che il governo va seguendo con tasse che redistribuiscono il carico tra i redditi e assistenza che lenisce i costi della crisi, ma non la supera; e ancora latita il piano B, che deve governare le conseguenze dell’uscita. Spero che questo piano B esista a livello del ministero delle Finanze e dell’Economia, come mi fu autorevolmente detto, e mi stupirei se la Banca d’Italia non lo avesse. La Germania ha fatto sapere che ce l’ha, ma Angela Merkel ha detto che ha ordinato di distruggerlo. Sappiamo che le bugie sono tra gli strumenti della politica. Sono cosciente che dei contenuti di un piano B non si debba parlare ma, allo stesso tempo, sono conscio che saperne l’esistenza rafforzerebbe il potere contrattuale dell’Italia nell’ottenere le necessarie riforme dei trattati europei. E’ una scelta alla quale i gruppi dirigenti non possono sottrarsi e che impone il nostro dettato costituzionale: bene ha fatto Antonio Rinaldi a richiamare l’attenzione sull’articolo 11 della Costituzione in occasione dell’atteggiamento assunto dalla Germania nel ricorso alla Corte costituzionale contro le politiche di Mario Draghi.
Sono soprattutto le paure, ossia il non sapere che siamo pronti a ogni evenienza e quale sia la dimensione dello choc negativo da affrontare, che frenano l’esame concreto della sola ipotesi di uscire dall’euro. L’economista Alberto Bagnai ha avanzato seri argomenti per sostenere che non sarebbe così grave, ma è meglio pensare al peggio per registrare il meglio e non correggere in negativo trimestre dopo trimestre le previsioni, rinviando la data della ripresa; essa è ora collocata nel secondo semestre 2013, con inizio a giugno, ossia al mese in corso. Mi auguro che così sia; ma se la ripresa non arrivasse, rinvieremo ancora una decisione? Non è dignitoso che i gruppi dirigenti del paese denuncino la situazione senza trarne le conseguenze; il loro dovere è dare risposte, non coltivare timori o affidarsi a mere speranze di cambiamento alle condizioni di permanenza nell’euro richiesteci, che corrisponde a un piano A eterodiretto. Ci sono rischi nell’uscire dall’euro? Certo, ma le conseguenze già in atto del restare alle condizioni che ci impongono sono maggiori e dobbiamo riprenderci intera la responsabilità di affrontarli, non attenderci che altri lo facciano o ci impongano di farlo a modo loro. L’“arancia meccanica” si è messa in movimento. Cosa deve accadere all’Italia per decidere di interrompere il meccanismo? Piero Craveri ha giustamente sostenuto che l’epoca delle diagnosi si è conclusa e che si deve tornare alla politica; ne consegue che non si può affidare l’uscita della crisi a chi ha sostenuto l’euro e ancora raccomanda di starci: essi difenderanno le loro scelte fino alle estreme conseguenze, proprio quelle che si devono evitare.
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