Non solo armi ai ribelli
La “red line” varcata in Siria scatena liti nell'entourage di Obama
L’annuncio della Casa Bianca è chiaro, almeno in linea di principio: in Siria il regime di Bashar el Assad ha ucciso fra 100 e 150 ribelli con armi chimiche, la linea rossa è stata varcata, l’America non si volterà dall’altra parte
New York. “Il presidente ha detto che l’uso di armi chimiche avrebbe cambiato i suoi calcoli, e così è stato”. L’annuncio della Casa Bianca è chiaro, almeno in linea di principio: in Siria il regime di Bashar el Assad ha ucciso fra 100 e 150 ribelli con armi chimiche, la linea rossa è stata varcata, l’America non si volterà dall’altra parte mentre il conteggio dei morti, secondo l’Onu, è arrivato a 93 mila e l’esercito del regime lotta per riconquistare Aleppo dopo aver ripreso Qusahyr. Ma le dichiarazioni di principio si depotenziano di fronte all’incertezza sulle decisioni, perché armare apertamente i ribelli, come ha annunciato Washington, è una posizione che può essere facilmente svuotata di contenuto. Ufficialmente la Casa Bianca non ha “preso nessuna decisione circa un’operazione militare per stabilire una no-fly zone”, non dà specifiche sul tipo di assistenza che offrirà al Free Syrian Army e in che modo si distinguerà dagli aiuti sottobanco passati dalla Cia tramite paesi come la Croazia e favoriti da Turchia e diversi alleati regionali.
Funzionari anonimi interpellati dal New York Times dicono che Washington potrebbe dare armi anticarro ai ribelli ma per il momento l’Amministrazione esclude la possibilità di equipaggiare i ribelli con i missili antiaerei che insistentemente chiedono per fermare gli attacchi di Assad, il tutto sempre coordinato dall’agenzia di Langley. “Il cambio di posizione non è di per sé particolarmente significativo, perché non introduce una strategia”, dice al Foglio un esperto di politica estera che lavora a stretto contatto con l’Amministrazione. L’annuncio decisionista sulla carta rivela le profonde divisioni nei corridoi di Washington. Ci sono falchi e colombe, avvocati di un intervento moderato e sostenitori dello status quo, calcolatori politici e attenti scrutatori della legacy presidenziale. Fonti diplomatiche sentite dal Foglio dicono che il dipartimento di stato è favorevole a un intervento militare aggressivo, una versione siriana di quello portato in Libia, mentre il Pentagono e il Consiglio per la sicurezza nazionale, pur ammettendo la necessità di un cambio di rotta, consigliano opzioni più prudenti.
L’incontro di giovedì fra il segretario di stato, John Kerry, e il capo del Pentagono, Chuck Hagel, ha portato in superficie le divergenze carsiche. Finora Barack Obama ha prestato ascolto alle colombe. La cerchia ristretta dei consiglieri, da Valerie Jarrett a Dan Pfeiffer, l’uomo incaricato di preparare e custodire l’eredità presidenziale, sconsigliano di mettere le mani in un conflitto che mal s’accorda con gli interessi politici del presidente. Il tono generico dell’annuncio di giovedì è un tributo all’equilibrio fra le due fazioni che si fronteggiano. Ora la domanda è: i falchi più vicini al presidente riusciranno a convincerlo a prendere l’iniziativa?
Spostare l’equilibrio
Il neo consigliere per la Sicurezza nazionale, Susan Rice – ascoltatissima dal presidente a prescindere dall’etichetta – e l’ambasciatrice all’Onu, Samantha Power, potrebbero provvedere quella carica interventista in grado di spostare gli equilibri ma, secondo un esperto di sicurezza nazionale che accetta di parlare con il Foglio a condizione di rimanere anonimo, “soltanto un evento bellico enorme da parte dell’esercito siriano può far cambiare idea a Obama. Qualcosa che cambi radicalmente la percezione pubblica del conflitto. Sono in tanti a suggerirgli di intervenire, adesso, ma quelli che gli sbattono in faccia le conseguenze politiche di un coinvolgimento sono più forti. La verità è che l’opinione pubblica è fortemente contraria a una guerra e non c’è nessuno in piazza che chiede di fermare i massacri di Assad. Gli interventisti al Congresso sono invece sempre più isolati. Il ragionamento dei consiglieri della Casa Bianca è: meglio essere ricordato come il presidente che ha chiuso le guerre in Afghanistan e in Iraq e ha ignorato i massacri siriani, oppure come quello che si è infilato in una guerra che non si sa quanto durerà né come andrà a finire? La risposta, all’interno, per il momento è chiara. Deve succedere qualcosa all’esterno per cambiarla”.
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