In Iran Rouhani luccica come un nuovo, furbissimo Khatami
Dimentichiamoci gli insulti e le invettive à la Mahmoud Ahmadinejad, Hassan Rouhani, il nuovo numero due di Teheran, è un principe della nomenclatura che sa calibrare ogni parola. La sua prima conferenza stampa da presidente eletto è stata un capolavoro di astuzia e self control. Rouhani ha snocciolato parole come “moderazione”, “speranza”, “dialogo”, “partecipazione” con l’espressione paterna e i gesti di un professore. Più che un profeta del “riformismo dall’alto” pareva un campione del “tarof”, quel misto di regole, complimenti e cortesie esagerate che da duemila anni tiene insieme la società iraniana.
Dimentichiamoci gli insulti e le invettive à la Mahmoud Ahmadinejad, Hassan Rouhani, il nuovo numero due di Teheran, è un principe della nomenclatura che sa calibrare ogni parola. La sua prima conferenza stampa da presidente eletto è stata un capolavoro di astuzia e self control. Rouhani ha snocciolato parole come “moderazione”, “speranza”, “dialogo”, “partecipazione” con l’espressione paterna e i gesti di un professore. Più che un profeta del “riformismo dall’alto” pareva un campione del “tarof”, quel misto di regole, complimenti e cortesie esagerate che da duemila anni tiene insieme la società iraniana.
C’era qualcosa per tutti nel discorso di Rouhani: è stata esaltata la piazza: “Avete cacciato la tristezza e creato condizioni nuove”; è stato onorato l’ayatollah Ali Khamenei: l’accenno al voto come dimostrazione di fiducia nel nezam ricalcava le parole usate dal Leader Supremo sei giorni fa; ed è stata blandita la comunità internazionale: “Ci auguriamo di avere relazioni pacifiche con tutti”. Così mentre Foreign Policy invitava Washington a non perdere il momento e a fare la prima mossa e Rouhani rassicurava che non ci sarà posto per l’estremismo nella sua amministrazione, il caso vuole che Ahmadinejad ricevesse un invito a comparire in tribunale per rispondere delle accuse mosse qualche mese fa contro il capo del Parlamento Ali Larijani.
A Teheran un cerchio si è chiuso e un altro se n’è aperto e chissà se ascoltando un reporter tedesco ringraziare Rouhani della sua elezione Khamenei si è rallegrato del nuovo corso di Teheran. Tanto entusiasmo dinnanzi a un politico iraniano non si vedeva dai tempi di Mohammed Khatami e non è un caso che la macchina elettorale di Rouhani sia stata guidata dal “mullah khandan”, il mullah sorridente per definizione insieme all’eterno Hashemi Rafsanjani. E’ stato Khatami a convincere i riformisti che bisognava affidarsi a lui, ed è stato lo Squalo a perorare la causa della “moderazione” tra i conservatori tradizionali. Chissà se, come nel caso della candidatura di Khatami nel 1997, c’è stato un incontro tra Khamenei e Rouhani, un patto per suggellare i confini che la nuova colomba di Teheran non dovrà valicare.
A posteriori appare tutto chiaro: la candidatura di Rafsanjani come diversivo da offrire alla mannaia dei falchi, mentre Rouhani si fa strada come il candidato “di riserva”, l’uomo d’apparato al posto giusto al momento giusto. Quali che siano state le trattative nell’ufficio di Khamenei, la vittoria di Rouhani, sorprendente per l’assenza di brogli (almeno evidenti) e per il “fair play” di capi pasdaran e bassiji che pur avevano minacciato Rouhani e il suo entourage, conferma che il Leader Supremo non va sottovalutato. Avrebbe potuto andare per la sua strada e insistere con il suo “fronte della resistenza” a tutto campo e invece il beit, l’ufficio del leader supremo, ha intrapreso un’analisi spassionata delle minacce che deve contrastare: l’insofferenza popolare, la crisi economica, le sanzioni, i rivoli delle diverse primavere regionali. E ha capito che, tra un altro 2009 a base di delegittimazione interna e un nuovo ’97, con un presidente “moderato” che cita Jacques Chirac piuttosto che Hugo Chávez, valeva la pena scegliere il secondo, tornare indietro insomma, per andare avanti.
La pena di morte per gli studenti
La scommessa per ora sta pagando, l’immagine di Khamenei ci guadagna. L’opinione pubblica pare placata: a Teheran si è festeggiato per le strade con balli e canti. C’è chi non ricorda i silenzi di Rouhani durante la repressione del 2009, né che invocò la pena di morte per gli studenti che manifestarono nel 1999 o nel 2004 definì sprezzantemente la democrazia una copertura americana. Ci sono molti iraniani che, dopo otto anni di Ahmadinejad, vogliono tornare a respirare, anche solo per un momento. La scrittrice Azar Nafisi l’ha definita in un’intervista al Corriere della Sera “la sindrome del carcerato”: se da dietro le sbarre ti chiedono di scegliere tra il secondino che non apre mai la finestra e quello che ti cambia l’aria tutti i giorni, con gioia scegli quest’ultimo.
Così negli ultimi due giorni fanno tutti a gara a chi conosce meglio Rouhani, il carceriere buono dalle innumerevoli qualità. Hossein Mousavian, portavoce negli anni in cui il presidente eletto guidava il team nucleare, racconta che non gli piacciono le vacanze lunghe, che legge e studia per rilassarsi e ha un ottimo senso dell’umorismo. Jack Straw, già ministro degli Esteri di Tony Blair, lo definisce sul Telegraph “un diplomatico cortese e molto esperto, deciso ma corretto”, la sua elezione è “una delle migliori notizie che potessero arrivare”. Il russo Vladimir Putin si rallegra, Emma Bonino insiste che Teheran (con Rouhani poi!) debba partecipare alla conferenza di Ginevra 2 sulla Siria e un portavoce americano lo saluta con “sayyed”, un titolo onorifico che sta a indicare la discendenza dal profeta, una discendenza che Rouhani non può accampare (Khatami invece sì e per questo porta il caratteristico turbante nero).
Nel frattempo si recuperano copie del libro di Rouhani del 2011: “Sicurezza nazionale e diplomazia nucleare” e si analizzano le sue dichiarazioni alla ricerca di aperture. In questi anni la nuova colomba si è dovuta difendere dall’accusa di essere stata troppo arrendevole (in maniera piuttosto eloquente ha spiegato che mentre si accordava con gli europei tra il 2003 e il 2004, gli anni della conoscenza con Jack Straw, faceva allestire le centrifughe), da presidente dovrà trovare la formula che avvinca l’occidente e non scontenti troppo i falchi. Ieri durante la conferenza stampa ha detto che non è tempo per una nuova sospensione dell’arricchimento dell’uranio, ma che ci sono altri metodi per ristabilire la fiducia. L’ipotesi di “colloqui diretti” con l’America è una “domanda difficile” a cui rispondere con un sorriso possibilista, più esplicita invece la mano tesa all’Arabia Saudita (dove i buoni uffici di Rafsanjani potrebbero tornare utili). Proprio sul finale della conferenza stampa, rimbomba una frase che pare un presagio: “Mir Hossein bayad bashe”, Mir Hossein Moussavi dovrebbe essere qui. Gli iraniani avranno pure la memoria corta, ma gli umori sono mutevoli e la carrozza del presidente potrebbe trasformarsi in una zucca se non rispetterà le sue promesse, soprattutto quelle ambiziose come liberare i sedizionisti.
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