La sinistra che snobba Ercole e Fantozzi perderà sempre le elezioni
Uno attende per anni sulla sponda del fiume, finché un giorno l’occasione arriva; l’occasione, intendo, per raccontare l’incontro più surreale della mia vita. Fu a Londra, nel 2007, durante una conferenza sui “cult movies” che surreale lo era già di suo. C’era, tra i relatori, una dottoranda giapponese che viveva in California e parlava un perfetto italiano. Lo aveva studiato per anni, mi confidò, con uno scopo preciso: vedere in lingua originale i film con Franco e Ciccio, che erano al centro dei suoi interessi accademici. Ai suoi occhi, ero un privilegiato; ai miei occhi, era una pazza furiosa.
Uno attende per anni sulla sponda del fiume, finché un giorno l’occasione arriva; l’occasione, intendo, per raccontare l’incontro più surreale della mia vita. Fu a Londra, nel 2007, durante una conferenza sui “cult movies” che surreale lo era già di suo. C’era, tra i relatori, una dottoranda giapponese che viveva in California e parlava un perfetto italiano. Lo aveva studiato per anni, mi confidò, con uno scopo preciso: vedere in lingua originale i film con Franco e Ciccio, che erano al centro dei suoi interessi accademici. Ai suoi occhi, ero un privilegiato; ai miei occhi, era una pazza furiosa. Ma a Londra era venuta per parlare d’altro, ossia del cinema “decamerotico”, le commedie sexy in costumi medievali come “I racconti di Viterbury”, “Fratello homo sorella bona” e “Metti lo diavolo tuo ne lo mio inferno”. Si era persuasa che quei film dei primi anni Settanta, con le loro storie di adulterio, cinture di castità scassinate e crociati cornificati, riflettessero meglio di tante opere maggiori le tribolazioni della società italiana alle prese con l’introduzione del divorzio. Dovetti riconoscerlo: la giapponese pazza aveva ragione.
Quell’incontro mi è tornato in mente leggendo il libro di Giacomo Manzoli, “Da Ercole a Fantozzi. Cinema popolare e società italiana dal boom economico alla neotelevisione” (Carocci). E’ un tentativo di comprendere l’intelligenza sociale di film considerati triviali, e di riconoscervi i segni di una “lotta di classe” che si è combattuta sul terreno del gusto, per affermare la legittimità di spettacoli (e spettatori) osteggiati dalle vestali dell’arte colta. E questo perché, dice Manzoli, non c’è paese al mondo in cui si sia negata con tanto accanimento alla cultura popolare la dignità, appunto, di cultura. Da qualche tempo spira un’aria nuova, ma la messe è molta e gli operai sono pochi: a tutt’oggi manca uno studio degno del nome su Fantozzi, c’è voluto un irlandese per prendere sul serio i cinepanettoni, e le cose più sensate sul “corpo delle donne” e le figure femminili nel cinema italiano le ha scritte una professoressa di Exeter. Ed è un peccato, perché il cinema popolare e di genere è il cinema più intimamente politico che ci sia; anzi: è forse il vero cinema politico italiano.
Dei molti casi che il libro illumina – dai film con Ercole e Maciste al “gallo espiatorio” Lando Buzzanca – ce n’è uno che inscena magnificamente il “Kulturkampf” che si è svolto intorno al cinema minore: è l’arcinoto episodio fantozziano del cineforum aziendale. Dice Michele Serra che oggi in quel grido (“La Corazzata Potemkin è una cagata pazzesca!”) non c’è più nulla di liberatorio, ma ha ragione solo per metà, perché la materia del contendere non è se il cinema sovietico sia meglio di Pippo Franco (lo è). Tutta la sequenza, dimostra Manzoli ricorrendo al Bourdieu de “La distinzione”, è un piccolo saggio sociologico su un conflitto estetico che è anche conflitto di classe. Il direttore cinefilo che impone Eisenstein agli impiegati che vorrebbero vedere la partita incarna l’indifferenza dell’intellettuale e del potente verso lo spettacolo nazionalpopolare. Il rifiuto degli impiegati di apprezzare il film è l’unica resistenza che sanno opporre al tentativo di colonizzare il loro tempo libero. Il seguito è noto: Fantozzi guiderà l’effimera rivolta come un redivivo Vakulinchuk, quasi che qualcosa dello spirito del film fosse penetrato in lui. E il direttore dovrà scontare due giorni e due notti di rieducazione a colpi di “Giovannona Coscialunga”, costretto a riconoscere i turpi spettacoli degli inferiori.
Un piccolo saggio sociologico, ma forse anche politico: perché, lasciando da canto la vecchia questione della superiorità antropologica, un critico cinematografico può permettersi di disprezzare i gusti delle masse, un politico no. E dunque, piaccia o meno a Serra, l’episodio fantozziano qualcosa di rivoluzionario ce l’ha tuttora, se c’è chi si scandalizza perché Renzi va ad “Amici”. Ecco, forse è tardi per sostituire all’asse Gramsci-Togliatti quello Gassman-Tognazzi. Ma si è sempre in tempo per fare ammenda, magari trasformando i think tank in cineforum dove aprirsi senza pregiudizi al cattivo gusto dei sottoposti. In ginocchio sui ceci.
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