Guerre e democrazia

Le guerre per la democrazia sono una “fiction” fallimentare, dicono Romano e Zucconi. Una risposta

Paola Peduzzi

L’ambasciatore Sergio Romano ha spiegato ieri sul Corriere della Sera che il dialogo con i talebani annunciato dagli americani è “il meglio che l’America e l’occidente potessero aspettarsi da una guerra iniziata con l’invasione sovietica del dicembre del 1979”, quando gli Stati Uniti finanziarono e armarono i mujaheddin, costrinsero i russi ad andarsene e “furono le levatrici” del movimento talebano e di Osama bin Laden, diventati poi “il loro più pericoloso nemico”. Vittorio Zucconi, su Repubblica, affranto dal fatto che i talebani sono diventati interlocutori a dimostrazione “che dell’Afghanistan gli Usa vogliono lavarsi le mani”, parla di “fiction della ‘democrazia esportata con la forza’” come principio di tutti i mali dell’occidente in guerra contro il terrorismo.

    L’ambasciatore Sergio Romano ha spiegato ieri sul Corriere della Sera che il dialogo con i talebani annunciato dagli americani è “il meglio che l’America e l’occidente potessero aspettarsi da una guerra iniziata con l’invasione sovietica del dicembre del 1979”, quando gli Stati Uniti finanziarono e armarono i mujaheddin, costrinsero i russi ad andarsene e “furono le levatrici” del movimento talebano e di Osama bin Laden, diventati poi “il loro più pericoloso nemico”. Per l’ambasciatore Romano un filo rosso dissennato lega la vicenda afghana al Vietnam, all’Iraq e finanche alla Libia (ma lì gli americani c’entrano di meno, è una follia tutta europea), “stiamo parlando di guerre fatte in nome della democrazia che producono risultati diametralmente opposti a quelli che la superpotenza si era prefissata e si lasciano alle spalle più nemici”. Vittorio Zucconi, su Repubblica, affranto dal fatto che i talebani sono diventati interlocutori a dimostrazione “che dell’Afghanistan gli Usa vogliono lavarsi le mani”, parla di “fiction della ‘democrazia esportata con la forza’” come principio di tutti i mali dell’occidente in guerra contro il terrorismo.

    Curiosamente né Sergio Romano né Vittorio Zucconi citano nei loro commenti Barack Obama, attuale presidente degli Stati Uniti, che definì la campagna afghana “the good war”, la guerra buona, la guerra giusta, in contrapposizione all’infamia dell’Iraq. Obama ha cercato di combatterla questa guerra, con strategie alterne e sofferte, dal surge di truppe agli attacchi mirati (poi ci sono stati solo i droni), fino a dichiarare il ritiro entro il 2014. L’errore di Obama, come ha scritto in “The Dispensable Nation” Vali Nasr, esperto di cose mediorientali che ha lavorato al dipartimento di stato di Hillary Clinton sull’Afghanistan, è aver deciso a un certo punto di non volerla più combattere, questa guerra, figurarsi vincerla. Di aver deciso di parlare con i talebani a ritiro ormai avviato, quando è evidente che l’America non è più in una posizione di forza. Ma Obama è comunque assolto, per Romano e Zucconi: è la guerra di Bush.

    La situazione in Afghanistan è complicata e buona parte delle dinamiche che esistevano prima dell’invasione alleata nel 2003 sono tornate uguali: signori della guerra che rivogliono terre e potere, fondamentalisti che rivogliono le loro roccaforti, tutti che cercano una rappresentanza politica a Kabul. Lo stesso David Petraeus, il generale ormai noto soltanto per la sua relazione con una signora sposata e muscolosa quanto lui, non è riuscito ad applicare all’Afghanistan quella dottrina antropologico-militare che si era rivelata vincente in Iraq: i cuori e le menti degli afghani non sono conquistabili, per l’occidente. Ma dieci anni di presenza americana non passano senza lasciare traccia, come sanno le donne che siedono nel Parlamento afghano e come sanno tutti quelli che ora hanno aziende da gestire, attività imprenditoriali – piccoli businessmen (soprattutto nel settore delle telecomunicazioni) cresciuti dopo la caduta dei talebani. Soprattutto: i talebani non sono più al potere, e pure se Hamid Karzai ha di accomodante ai nostri occhi soltanto i suoi abiti meravigliosi è pur sempre meglio del regime talebano.
    La guerra buona era anche giusta, così come l’esportazione della democrazia non è una fiction né una ossessione di americani imperialisti: è semmai il cinismo realista di ritorno dell’Amministrazione Obama ad aver stravolto una guerra al terrore diventata ormai lotta alla criminalità internazionale (non si può nemmeno più dire terrorista!). Per non parlare della fretta con cui l’America vuole andarsene dall’Afghanistan, perché come ha detto di recente Obama (lo ha riportato il New York Times) “voglio essere ricordato come uno che le ha chiuse le guerre, non che le ha aperte”. Qualunque sia il prezzo, anche parlare con un nemico come i talebani: come scrive il Wall Street Journal, bisogna solo sperare che i fondamentalisti non abbiano gli strumenti per vincere sul terreno, altrimenti questo negoziato sarà una ferita di nuovo aperta nella coscienza dell’occidente. A tutto svantaggio dell’idealismo e della democrazia: Leon Wieseltier, intellettuale di sinistra di una raffinatezza ormai rara, ha scritto sull’ultimo numero di New Republic un articolo sulla Siria. Wieseltier era a favore della guerra in Iraq, e non si è pentito, e oggi dice che la politica estera dell’America liberal non comprende più le parole libertà e democrazia. C’è soltanto sollievo nel ritirarsi, anche se ci si ritira sconfitti, finalmente un guaio in meno, “ma che cosa siamo liberal a fare se siamo destinati a pensare come Rand Paul”, politico conservatore-isolazionista che predica il ritiro dell’America anche dalla Federal Reserve? Le conseguenze sono sotto i nostri occhi, scrive Wieseltier: “Miseri i siriani, che hanno la sfortuna di essere ammazzati nell’èra post Cheney”.

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi