Siamo tutti mediterranei
I grandi d'Europa si riassopiscono senza gli scossoni dei mercati
L’apparente stabilizzazione dei mercati finanziari ha determinato nei mesi scorsi un significativo calo di tensione nella leadership politica europea che emergerà con tutta evidenza nel vertice dei capi di governo dell’Unione europea in programma per giovedì e venerdì prossimi. Nei paesi sotto maggiore stress finanziario, inclusa l’Italia, l’impeto riformista si è da tempo attenuato, mettendo così a rischio i risultati finora raggiunti (ieri lo spread tra Btp italiani e Bund tedeschi è tornato a toccare i 300 punti, dopo la chiusura a 288 di venerdì scorso).
L’apparente stabilizzazione dei mercati finanziari ha determinato nei mesi scorsi un significativo calo di tensione nella leadership politica europea che emergerà con tutta evidenza nel vertice dei capi di governo dell’Unione europea in programma per giovedì e venerdì prossimi.
Nei paesi sotto maggiore stress finanziario, inclusa l’Italia, l’impeto riformista si è da tempo attenuato, mettendo così a rischio i risultati finora raggiunti (ieri lo spread tra Btp italiani e Bund tedeschi è tornato a toccare i 300 punti, dopo la chiusura a 288 di venerdì scorso). Tuttavia, come illustrato nella relazione annuale della Banca dei regolamenti internazionali (Bri) che ha come azionisti le Banche centrali di quasi tutto il mondo, i governi avrebbero dovuto e dovrebbero “utilizzare meglio il tempo concesso loro” dalle politiche monetarie espansive; le autorità “devono accelerare le riforme strutturali affinché le risorse economiche possano più facilmente essere usate nel modo più produttivo”. Soltanto così, secondo l’Istituto di Basilea, “le economie potranno tornare su un sentiero di crescita reale forte e sostenibile”. Un avvertimento, non è un caso, che riguarda tutti, non soltanto i paesi a maggiore rischio nel breve termine. Anche nei paesi creditori infatti, primo fra tutti la Germania, il senso di urgenza nel rafforzare l’architettura istituzionale dell’Eurozona lascia il passo a considerazioni di mera opportunità tattica, con l’avvicinarsi delle elezioni politiche previste per il prossimo settembre.
Eppure, solo un anno fa, nel giugno 2012, il summit dell’Ue riconobbe per la prima volta a livello europeo il carattere sistemico della crisi dell’Eurozona, creò la piattaforma politica per il famoso discorso di Mario Draghi a Londra nel luglio scorso, in cui il presidente della Banca centrale europea preannunciò l’introduzione del programma Outright monetary transactions da parte della Bce, e introdusse la nozione di Unione bancaria. Nelle intenzioni dei proponenti, l’Unione bancaria dovrebbe poggiare su tre principali pilastri: il conferimento di poteri di vigilanza bancaria alla Banca centrale europea, la formulazione di una comune piattaforma di risoluzione degli istituti bancari, e l’istituzione di un meccanismo comune di assicurazione dei depositi bancari.
I tre pilastri sono intimamente interconnessi: la centralizzazione della vigilanza a livello europeo, o, almeno, dell’Eurozona, è necessaria per attivare risorse comuni per arginare la crisi di un istituto bancario, la cui risoluzione deve naturalmente avvenire secondo un modello condiviso fra tutti gli stati membri aderenti all’unione in parola. In tal senso, l’Unione bancaria rappresenta una riforma strutturale dell’Eurozona, rafforzandone l’architettura istituzionale complessiva e completando l’unione monetaria. Rispetto alla contingenza dell’attuale crisi, è una risposta necessaria per superare l’attuale frammentazione dei sistemi bancari lungo le linee dei confini nazionali, che, in pratica, contraddice lo spirito della moneta comune.
Per le economie sotto stress, l’avvio dell’Unione bancaria, in una forma credibile, consentirebbe di diluire il legame perverso tra sistema bancario e merito di credito dell’emittente sovrano, facilitando la ripresa del credito al mondo delle imprese, senza la quale la creazione di nuova occupazione e il finanziamento di nuovi investimenti non sarebbe altrimenti possibile. Senza contare che la capacità del Fondo salva stati (Esm) di acquisire maggiore flessibilità nella ricapitalizzazione di banche in difficoltà è legata proprio all’attuazione dell’Unione bancaria.
Tuttavia gli ostacoli frapposti e le difficoltà sperimentate sinora, non ultime quelle dei ministri delle Finanze che nei giorni scorsi non sono riusciti a pervenire a una bozza comune di accordo, lasciano presagire una conclusione del prossimo summit già scritta. Alcuni elementi dell’Unione bancaria verrebbero privilegiati a scapito di altri. Nell’approccio peculiarmente selettivo che verrebbe utilizzato, si enfatizzerrebbero gli elementi di controllo dei “creditori” sui “debitori”.
In questo scenario, la centralizzazione della Vigilanza bancaria presso la Bce rappresenterebbe il punto fermo, mentre la predisposizione di un meccanismo credibile ed efficace di assicurazione paneuropea dei depositi verrebbe rinviata, forse sine die.
Sempre in questa chiave, la decisione dei termini relativi alla centralizzazione del controllo nelle risoluzioni bancarie verrebbe anch’essa postposta. In tal modo, qualsiasi forma di riduzione della discrezionalità tedesca nella gestione di aspetti critici del proprio sistema bancario sarebbe evitata, almeno pro tempore, mentre si accrescerebbe l’influenza di fatto dei creditori nella supervisione dei sistemi bancari delle economie sotto stress.
Il rischio di replicare lo stile Fiscal compact
Del resto, un approccio non troppo diverso è stato già messo in opera nel contesto del trattato sul Fiscal compact che riguarda la politica di bilancio degli stati firmatari. Con esso, è aumentato considerevolmente il livello di disciplina sui bilanci nazionali e la riduzione di margini di discrezionalità dei paesi della periferia. Allo stesso tempo, però, non sono stati predisposti strumenti efficaci per compensare la perdita di flessibilità avvenuta con il trattato in parola. Questo espone i paesi della periferia a negoziare di continuo “concessioni” con le autorità europee, come è il caso dei pagamenti arretrati dovuti dalla nostra Pubblica amministrazione.
Se così fosse, dietro le fanfare di un grande e unanime accordo per combattere la disoccupazione giovanile si celerebbe un’altra, importante perdita di sovranità, senza che questa sia compensata da meccanismi comunitari o intergovernativi necessariamente più efficaci.
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