Sette anni sono più dei "Cesaroni" in tv

Stefano Di Michele

Oh, cribbio! Questa sì che è grossa… Sette anni, che uno ci si fa comodo comodo un giro al Quirinale (non ci fosse, peraltro, l’interdizione dai pubblici uffici). Sentenza dantesca, funesto contrappasso – ove godi, dice, adesso cadi. Tra il fottere e il comandare, si sa, il Cav. sempre indeciso è stato, titubante – un occhio allo stato e l’altro al burlesque, da fare la sfortuna sua, nella pratica di quest’ultimo, e la fortuna di falangi di comici. Sette anni: ci stanno quasi due Obama, tutta la serie dei “Cesaroni”, si potrebbe pure provare a sbrogliare nelle sere di mestizia l’intero “Ulisse” di Joyce: un’eternità e un’esagerazione – altro che lo scaramantico “quaranta di’, quaranta not, a san Vitur a cipa’ i bot” di giorni più canterini: quasi settanta volte quaranta, è la condanna.

    Oh, cribbio! Questa sì che è grossa… Sette anni, che uno ci si fa comodo comodo un giro al Quirinale (non ci fosse, peraltro, l’interdizione dai pubblici uffici). Sentenza dantesca, funesto contrappasso – ove godi, dice, adesso cadi. Tra il fottere e il comandare, si sa, il Cav. sempre indeciso è stato, titubante – un occhio allo stato e l’altro al burlesque, da fare la sfortuna sua, nella pratica di quest’ultimo, e la fortuna di falangi di comici. Sette anni: ci stanno quasi due Obama, tutta la serie dei “Cesaroni”, si potrebbe pure provare a sbrogliare nelle sere di mestizia l’intero “Ulisse” di Joyce: un’eternità e un’esagerazione – altro che lo scaramantico “quaranta di’, quaranta not, a san Vitur a cipa’ i bot” di giorni più canterini: quasi settanta volte quaranta, è la condanna. “Non vi dico fino a sette…”, l’evangelica esortazione: che pure per settanta moltiplicava, ma nel caso per meglio perdonare. Fino a sette, è stato detto a Milano. Anni. Un’èra intera. Bunga bunga boom! “Unirò sette fili ed avrò perduto / unirò sette fili e sarò perduto”, come in una bella e quasi dimenticata canzone di molti anni fa, quando il Cav. non aveva ancora bevuto l’amaro calice (quello che fu, e mettiamoci pure quello che è: due amari calici, una botte intera di bruciante bevanda), e le immaginarie nipoti del rais – come la saggia matrona romana Lucrezia – stavano con le ancelle a filare la lana al chiarore delle lucerne, non vaganti per la Brianza a ingentilire le pur eleganti feste dei cumenda, a satollarsi di Sanbittèr. Gli tocca, ora, al Cav. di avere la sua precisa “cognizione del dolore”, schiantato sull’orlo del baratro dove qualche privato vizio paga il pedaggio a pubbliche, esortative virtù. Si dirà: se l’è cercata. Il suo è stato un battere e ribattere e insistere. Un gioioso attruppare, selezionare, ridere. Un trasbordo continuo, un accasermamento perenne, un vorticoso ammassare. Poi, c’è sempre qualcosa su cui si finisce con l’infrangersi, lo “gnommero” che muta il corso delle cose: la Nipote, la Questura, il Commissario – davvero come in un romanzo gaddiano. Peccò molto, magari, il Cav. Anzi, sicuramente peccò. Fino al codice, hanno deciso a Milano. Oltre il codice. Mai oltre, giura lui. Ma non c’è più il burlesque, adesso, in scena: il dramma, piuttosto, pur confuso nell’italico melodramma.

    Ma nell’ora dell’azzannamento, c’è sempre quell’aspetto di sabba che mai consola i più fervidi antiberlusconiani, che mai troveranno l’opportuna consolazione, mai trovando opportuna la pena inflitta. E’ lo champagne in piazza la sera dell’abbandono, è Facebook che un secondo dopo la sentenza già traboccava di inviti, “spumantino?”, “evviva!”, di “fuck Silvio Berlusconi e chi ti ha votato” e di “EVVAI!”. Un patetico, questo sì, sfiancante fiutare prede, ringhioso aggirarsi nella propria notte. Il più ardito così esulta, erutta, sbava quasi –  onanisticamente sbava, c’è da immaginare: “GODO GODO GODO! GODOOOOOOOOOO!”. Forse ha pure le carte in regola, visto il partecipato accreditamento. Ma non si faccia illusioni: ad Arcore non lo inviteranno lo stesso. Adesso, poi.