Teatro dell'assurdo, ma copione patetico

Nicoletta Tiliacos

L’esito annunciato del processo milanese sul “caso Ruby”, con la condanna del Cav. espiatorio, la sua interdizione perpetua dai pubblici uffici e l’espulsione a vita per via giudiziaria dalla vita politica di un personaggio che per via elettorale e politica nessuno era riuscito a espellere, invita a qualche riflessione di carattere estetico, prima ancora che etico (il che non significa, naturalmente, che l’etica non vi abbia la sua parte).

    L’esito annunciato del processo milanese sul “caso Ruby”, con la condanna del Cav. espiatorio, la sua interdizione perpetua dai pubblici uffici e l’espulsione a vita per via giudiziaria dalla vita politica di un personaggio che per via elettorale e politica nessuno era riuscito a espellere, invita a qualche riflessione di carattere estetico, prima ancora che etico (il che non significa, naturalmente, che l’etica non vi abbia la sua parte).

    Il grande giurista Salvatore Satta chiamava “mistero del processo” la forza di una rappresentazione – questo è il processo, prima di ogni altra cosa – che al teatro attinge esplicitamente, a cominciare dal lessico: le parti, l’attore… Il processo è però una rappresentazione che, per convenzione di chi la celebra, di chi vi si sottopone e di chi vi assiste (e che si aspetta in teoria che all’ordinamento giuridico ferito, ammesso che lo sia stato davvero, sia restituita la sua integrità), riverbera i propri effetti nella realtà. Il processo è quindi una rappresentazione teatrale, un “gioco delle parti” al termine del quale non c’è, come in Shakespeare, Goldoni o in Molière, la semplice enunciazione di una morale sulla quale gli spettatori commossi, indignati o divertiti potranno riflettere tornandosene a casa. Al termine del processo c’è una sentenza, una verità processuale con le sue conseguenze vive sui destini delle persone e – nel caso concreto – anche sui destini di questo paese. Una parte non irrilevante del quale ha scelto, non troppo tempo fa – nelle elezioni di febbraio, quando già tutto sapevamo delle cene eleganti e del bunga bunga – di continuare a dare fiducia all’uomo condannato ieri, piuttosto incredibilmente, per concussione e sfruttamento della prostituzione minorile. C’è da dire che nessuno, nemmeno i più agguerriti difensori di Berlusconi, hanno davvero creduto che l’eccezionale potenza di fuoco di intercettazioni e interrogatori sul tema: “Come passa le serate il premier?” avrebbe partorito qualcosa di diverso da quello che ieri è stato pronunciato in aula dalla presidente della quarta sezione del tribunale di Milano. Con quella sentenza annunciata bisogna dunque fare i conti. Prima di tutto ragionando su come sia stato possibile che certi vizietti da impresario di avanspettacolo, certi comportamenti inopportuni e anche un po’ patetici, siano stati trasformati in reati efferati. Ma questo è il paese gaglioffo in cui un certo femminismo bacchettone continua a rubare la parte al pretore Salmeri, quello che negli anni Sessanta misurava la lunghezza delle gonne e censurava i filmetti scollacciati. E’ il paese gaglioffo in cui le ragazze messe alla gogna come invitate alle serate di Arcore, subito dopo la diffusione degli atti giudiziari sul “caso Ruby”, nel gennaio del 2011, furono sfrattate con procedura d’urgenza per “rumori e offesa al decoro” dalla società milanese che gestisce le case nel quartiere dell’Olgettina. Ieri, quando la presidente del tribunale elencava con voce monocorde i nomi di quelle giovani donne leggendo il dispositivo della sentenza, la sensazione è stata quella di assistere a una pièce da teatro dell’assurdo. Dal copione talmente patetico e mal scritto – avevamo promesso considerazioni estetiche – che, forse, stavolta rischia di non divertirsi nemmeno la tifoseria anti berlusconiana più assatanata.