Ricomincio da capo

Paola Peduzzi

Quando il 28 maggio scorso Rupert Murdoch si è presentato a Manhattan per parlare della divisione in due del suo impero mediatico, molti si aspettavano di vederlo abbacchiato. Il grande tycoon ottantaduenne aveva dovuto accettare il volere degli investitori, aveva dovuto spaccare a metà la sua azienda, la News Corp. – si era piegato. Lo scandalo delle intercettazioni illegali, scoppiato due anni fa nel Regno Unito, aveva costretto Murdoch a cedere alle pressioni di chi da tempo gli chiedeva di scaricare il business meno redditizio, quello legato ai giornali di carta, che stava affossando anche le unità più floride, quelle della televisione, del cinema, dell’intrattenimento.

    Quando il 28 maggio scorso Rupert Murdoch si è presentato a Manhattan per parlare della divisione in due del suo impero mediatico, molti si aspettavano di vederlo abbacchiato. Il grande tycoon ottantaduenne aveva dovuto accettare il volere degli investitori, aveva dovuto spaccare a metà la sua azienda, la News Corp. – si era piegato. Lo scandalo delle intercettazioni illegali, scoppiato due anni fa nel Regno Unito, aveva costretto Murdoch a cedere alle pressioni di chi da tempo gli chiedeva di scaricare il business meno redditizio, quello legato ai giornali di carta, che stava affossando anche le unità più floride, quelle della televisione, del cinema, dell’intrattenimento. Murdoch aveva già sacrificato il figlio James di fronte alla furia antimurdocchiana, e ora toccava alla sua amata stampa, retaggio di un mondo che oggi non rende più.
    Rupert Murdoch ancora una volta ha sorpreso tutti, rilanciando quello che per tutti è un settore morto e per lui è l’inizio di un mondo. “Non sto dicendo che non ho fatto errori lungo la strada – ha detto – ne ho fatti di spettacolari, ma se vi state chiedendo perché voglio ricominciare tutto da capo (“to do it all over again”), la risposta è semplice: ci sono opportunità dappertutto”.

    Murdoch ha presentato così la più debole delle due aziende create dallo “split” della sua compagnia: quella che comprende il Wall Street Journal, il New York Post, il Times di Londra, la casa editrice HarperCollins e altre testate australiane (pure una pay tv australiana, il diavolo sta nei dettagli), in tutto circa 130 giornali. Questa, che continuerà a chiamarsi News Corp. (il logo è stato rifatto, è scritto a mano con la calligrafia di Rupert e di suo padre, il primo innamorato della carta, un omaggio al tempo che fu, ma soprattutto all’identità aziendale, che profuma di inchiostro), per tutti è la “crap co”, l’azienda di merda, il brutto anatroccolo. La “good co” è l’altra, la sorella bella e ricca, quella che gli investitori amano e proteggono, quella che tutti vogliono seguire, accompagnare, far crescere: si chiama 21st Century Fox, vale 65 miliardi di dollari, e comprende le televisioni, gli studios, tutto quel che fa soldi e ne farà tantissimi anche in futuro.

    Murdoch è disposto a sacrificare tutto, figli, mogli, manager, ma non il suo brutto anatroccolo. Ha fatto di tutto per salvarlo, per dimostrare a tutti quelli che si lasciano ammaliare dai redditi televisivi che il cigno sta da un’altra parte. L’azienda di merda parte con una capitalizzazione di mercato pari a 9,1 miliardi di dollari (la più grande in America), senza debiti, con una dote consistente di oltre due miliardi di dollari e con una serie di “poison pills”, pillole avvelenate, che impediscono agli investitori di togliere la maggioranza dei diritti di voto ai Murdoch e che soprattutto evitano la possibilità, almeno per il prossimo anno, di spezzettare ulteriormente questa azienda. Rupert sa che gli azionisti non ne possono più della passione del padrone: gli amori vanno bene finché rendono, poi diventano alibi nostalgici per vecchi rimbambiti, devono essere contenuti. Quando lo scandalo nel Regno Unito sembrava grande abbastanza per travolgere tutto, gli investitori chiesero a Murdoch due cose: togliere di mezzo la famiglia dall’azienda (quel cognome lì è tossico, gli disse uno, e Rupert non fece una piega, un sorrisino e si voltò: cosa gli rispondi a uno così?) e togliere di mezzo la carta stampata dall’azienda. Rupert cedette sulla prima richiesta – seppure parzialmente e temporaneamente: James, ex capo della filiale inglese, e Lachlan, già ex capo di tutto perché fatto fuori anni addietro, sono nei board di entrambe le nuove aziende – ma fece in modo di non dover mai cedere sulla seconda.

    Murdoch dice che il business della carta stampata è “sottostimato e sottosviluppato”, le opportunità sono ovunque, basta saperle prendere. La pubblicità non è destinata a crescere, ha ammesso, anche se una stabilizzazione verso l’alto è prevista assieme alla ripartenza economica. Poi si possono aumentare i costi di abbonamento, diversificando l’offerta, e soprattutto bisogna saper fare bene i giornali, non accontentarsi della lettura vorace di piccole notizie, azzardare. E’ anche per questo che Dominic Mohan, il direttore del Sun, il giornale più venduto del Regno Unito ancora inguaiato con lo scandalo delle intercettazioni illegali, è stato cooptato come consigliere supremo per far funzionare la nuova News Corp. (è anche bene levare Mohan dagli imbarazzi dello scandalo: la formula è stata applicata a tutti i salvabili, se Murdoch fosse riuscito a strappare dai tribunali anche la sua amata Rebekah Brooks sarebbe stato ben più felice), ma la mossa ha anche l’obiettivo di far sapere che sulla questione carta stampata il tycoon non ha alcuna intenzione di abbassare la testa. Anzi, alla prima occasione l’alzerà. Mohan stesso è stato scelto per creare un team di esploratori di nuovi business in Europa.

    L’occasione più ghiotta è quella rappresentata dalla Tribune Co., che di ghiotto a dire il vero non ha nulla – l’unità di business relativa ai giornali è tecnicamente fallita – se non il prestigio di una testata come il Los Angeles Times. A fine maggio, Murdoch aveva detto che, “se il prezzo è giusto”, avrebbe voluto concludere l’affare, ma già allora era scettico, non tanto per l’acquisto in sé quanto per le leggi che impediscono a un’unica azienda di detenere un numero eccessivo di reti televisive e/o giornali. Ma l’interesse di Murdoch aveva acceso anche quello di altri investitori, in particolare i libertari fratelli Koch, che forse sono ancora più odiati dello stesso Murdoch – una bella gara. Sono iniziate le proteste, i sit-in, gli appelli davanti alla sede del Los Angeles Times, un coro di “no” a questi proprietari così drammaticamente di destra come nemmeno con la Santanché a Rcs. Per ora nulla è stato fatto, i conti della Tribune Co. sono in continuo peggioramento e ormai l’unica speranza è che ci pensi Warren Buffett, un altro amante della carta, altrettanto spregiudicato, ma ben più presentabile nei salotti rispetto agli altri conservatoroni (per comprendere fino a che punto può arrivare l’intolleranza ideologica basta sfogliare “An Atheist in the Foxhole: a Liberal’s Eight-Year Odyssey Inside the Heart of the Right-Wing Media”, il racconto di un liberal che ha lavorato per otto anni alla tv di Murdoch: la parte più divertente è il terrore puro per le telefonate di Roger Ailes, il megacapo di Fox).

    C’è sempre nell’aria l’ambizione di comprare il Financial Times, chiacchiera che gira da tempo e che si intreccia con le ambizioni di un altro tycoon dei media famelico e politicizzato, il sindaco di New York Michael Bloomberg ormai a fine mandato. La sfida tra i due sarebbe imperdibile, anche se molti la vorrebbero sul territorio americano più che britannico: l’ultimo amore di Murdoch è il Wall Street Journal, il gioiello di casa per il quale Rupert passa molto tempo a New York, ed è in terra statunitense che News Corp. vuole fare le sue battaglie. Ma il cuore di Murdoch andrà dove lo porteranno le opportunità: secondo Forbes starà lontano dalla Cina, perché il business dei media lì è difficile e perché ora non c’è più Wendi, terza moglie ormai ex, ad alimentare la “febbre cinese” che aveva preso Rupert all’inizio degli anni 2000 (s’era sposato con Wendi nel 1999). Le ultime indiscrezioni sulla separazione dicono che i due vivevano già lontani da almeno sei mesi, che i legali sono al lavoro per le quote delle due figlie piccole, che Wendi è furiosa e Rupert insopportabilmente gelido. Gli esperti del murdocchismo (sì ci sono anche loro, e di solito odiano Murdoch) sostengono che il divorzio è diventato ormai una pratica per i burocrati, Rupert è già altrove.
    Vuole salvare il suo brutto anatroccolo e far schiattare di invidia tutti quelli che dicono che fare giornali è una fissazione da vecchietti. Ricominciare da capo, a ottantadue anni, facendo quel che Murdoch da sempre fa alla grande, che piaccia o no a tutti quelli che lo ritengono il male assoluto del giornalismo mondiale: vendere i giornali (se poi ritorna a essere giulivo su Twitter, vorrà dire che il nuovo inizio è già qui).

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi