Darwin sbanda in curva

Jack O'Malley

Eric Simons è attratto dai fenomeni curiosi del mondo naturale, tipo il sistema di comunicazione dei delfini, la vita sessuale dei coralli e altre cose imprescindibili che finiscono rubricate di rigore nel genere “forse non tutti sanno che”. Ha scritto un libro sulle esplorazioni di Charles Darwin, viaggi avventurosi che assomigliano a quelli che il giovane divulgatore americano intraprende in solitaria per esercitare l’occhio da naturalista ottocentesco e produce podcast a raffica su ambiente e dintorni.
 

    Eric Simons è attratto dai fenomeni curiosi del mondo naturale, tipo il sistema di comunicazione dei delfini, la vita sessuale dei coralli e altre cose imprescindibili che finiscono rubricate di rigore nel genere “forse non tutti sanno che”. Ha scritto un libro sulle esplorazioni di Charles Darwin, viaggi avventurosi che assomigliano a quelli che il giovane divulgatore americano intraprende in solitaria per esercitare l’occhio da naturalista ottocentesco e produce podcast a raffica su ambiente e dintorni.

    Capita però che l’altra grande passione di Simons sia lo sport. Non gli si può fare una colpa se ad avvincerlo sono giochi coloniali con i nomi sbagliati o orde di pattinatori con disco e mazza, ma ciò che lo accomuna a tutti gli altri, a noi, è il modo di concepire il tifo. Come noi si raduna con amici fidati e un ettolitro di birra davanti allo schermo, come noi segue liturgie e rituali stratificati nel tempo, litiga con i colleghi sull’arbitro e come noi quando il lunedì mattina va al lavoro ha un angolo della mente già occupato dalla partita che verrà. Disgraziatamente Simons ha deciso però di fondere le sue due passioni. Anzi, di tentare di spiegarne una usando gli strumenti dell’altra. No, non ha cercato di giustificare la rotazione terrestre con lo schema dei Boston Bruins durante il power play, ma ha tentato di spiegare i meccanismi che scattano nella testa e nelle vene dei tifosi con un misto di ormoni, enzimi, sinapsi e terminazioni nervose, questioni di corteccia cerebrale e testosterone che possono essere opportunamente isolate e misurate. Come un qualsiasi altro fenomeno naturale. Il pregio del suo ultimo libro, “The Secret Lives of Sports Fans”, è che l’autore c’è dentro fino al collo. La cronaca dei dieci secondi in cui la squadra della University of California perde tutto contro gli illustri brocchi dell’Oregon State, buttando al vento l’occasione di rifarsi dopo decenni di digiuni, sofferenze, sconfitte all’ultimo minuto, preghiere, crisi di nervi e quant’altro è un manifesto immortale per la tifoseria di ogni fede e campo. Qualunque tifoso legga quell’incipit sa esattamente ciò di cui Simons sta parlando. Anche gli aneddoti delle partite degli San Jose Sharks sono altrettanto efficaci, tanto che per un attimo sembrano azzerati gli anni luce che separano qualitativamente l’hockey dal calcio e il lettore si ritrova immerso nelle proprie deliziose paranoie.

    Il problema è che lo scienziato cerca di uscire da se stesso e di guardarsi da fuori come un animale nel suo habitat. Ne sarebbe venuto fuori un bel centone aneddotico se soltanto il ricercatore zelante non si fosse fatto la tragica domanda: “E se le forze maligne che ci possiedono durante la partita fossero in realtà soltanto il sistema endocrino?”. Così si conclude la fase umanistica e attacca la retorica scientista. Improvvisamente Simons stesso, i suoi amici e poi una marea di sconosciuti passati e presenti si trasformano da tifosi in topi da laboratorio, costretti a sputazzare dentro provette prima, durante e dopo la partita in modo da valutare la fluttuazione del testosterone e così afferrare il segreto che “priva il tifoso del libero arbitrio”. Si scopre che nella storia della scienza sono stati fatti decine di tentativi sperimentali per agguantare le reazioni chimiche che avvengono nel corpo del tifoso, questa strana specie che non è in via d’estinzione e che partecipa agli eventi sul campo in modo indiretto. La prima scoperta è che il tifoso partecipa fisicamente all’evento sportivo anche dal salotto di casa sua, e questo lo sa benissimo chiunque abbia urlato, lanciato oggetti, bestemmiato, cantato e si sia rotolato per terra davanti a uno schermo. Chi almeno una volta si è trovato in piedi sul divano sa che a giocare non sono soltanto i ventidue in campo ma anche i milioni che là fuori spingono fisicamente la squadra e ne condividono gioia e disperazione. Non proprio una grande novità. La seconda scoperta è che tutto questo tormento dell’anima e del corpo può essere spiegato sputando in una provetta. Non male, no?Tutto sta nel capire i flussi di testosterone, quando aumentano, quando diminuiscono e perché.

    Qualche tempo fa Rui Oliveira, psicologo applicato (qualunque cosa voglia dire), ha creato un ring sottomarino, ci ha messo dentro un paio di tilapie del Mozambico – pesci cattivissimi che aggrediscono qualunque cosa, specie i propri simili – e con una trovata ingegnosa ha fatto in modo di far assistere allo scontro un terzo esemplare. Lui poteva vedere i combattenti, ma loro non vedevano lui, e durante il combattimento esaminava le urine alla tilapia spettatrice. Oliveira “ha provato esattamente ciò che aveva previsto: un aumento del testosterone nel pesce spettatore”. Insomma, siamo tutti tilapie del Mozambico. Produciamo ormoni analoghi di fronte allo spettacolo dei nostri simili che si sfidano per il potere, la gloria, il riconoscimento sociale, la difesa del territorio e altre cose ascrivibili ai bisogni primari di tutti gli animali. Perché in fondo, dice il Darwin della curva, “lo sport non è altro che una competizione per il dominio: due animali, o due squadre di animali, combattono per importanti benefici dell’evoluzione”. E noi ci godiamo lo spettacolo come tilapie traboccanti di testosterone. Avete mai spiegato a qualcuno che la vostra passione per una squadra ricorda più la messa in Requiem di Mozart che un vassoio di pasticcini? Che è un fatto religioso più che ormonale? Che è avvolto nel mistero di una liturgia laica irriducibile alla chimica? Scordatevelo, vi eravate confusi, il cervello aveva frainteso i segnali del sistema endocrino, e ora che la neuroendocrinologia fa passi da gigante possiamo colmare il gap. Simons spiega così anche perché il tifo è un fatto prevalentemente maschile. Durante le elezioni americane del 2008 sono stati analizzati campioni dei sostenitori di Barack Obama e John McCain, sempre con il solito metodo dello sputazzamento in provetta e dell’analisi del testosterone. I supporter di McCain erano a terra per la sconfitta, gli uomini quanto le donne; lo stesso, ma al contrario, valeva per gli estasiati sostenitori di Obama. Le donne avevano gli stessi picchi di cortisone dei maschi ma per quanto riguarda il testosterone non c’era storia: l’eccitazione da tifo è roba maschile. E il maschio che guarda la partita con gli ettolitri di birra e di testosterone che gli spettano (a proposito: l’alcol inibisce il testosterone, quindi Simons ha fatto anche esperimenti su partite astemie, sai che palle) è unito in un grande abbraccio endocrinologico a tutto il regno animale maschile che combatte per sopravvivere, moltiplicarsi, evolvere e gareggiare nella spietata lotta per l’affermazione sull’altro. Dispiace frustrare le ambizioni scientiste del giovane divulgatore, ma c’è molto di più del testosterone nel tifoso: c’è l’atto libero e votivo, il rito silenzioso, il gesto libero fatto nel segreto, c’è la capacità di astrazione che non si può ricondurre al sistema endocrino. Ditelo a chi la prossima volta vi servirà la solita brodaglia femminile del “non capisco cosa ci trovino in ventidue scemi in mutande che corrono dietro a un pallone”, che poi non è altro che la versione senza testosterone dell’antropologia darwinista del tifoso fatta da Simons.

    Dopo avere salvato i tifosi da Darwin, occorrerà però anche salvare il calcio dai big data per fermare la terribile reductio in atto. Non sono bastati 150 anni, agli americani, per capire il calcio. E dire che ci abbiamo provato: i vecchi campioni europei mandati lì a svernare, i Mondiali del 1994, Beckham. Niente da fare. Oggi si ritrovano con una Nazionale che potrebbe sostituire Tahiti alla prossima Confederations Cup e il soccer – come lo chiamano volgarmente loro – è praticato principalmente dalle donne, che è tutto dire. Non si rassegnano, però, e per cercare di capire uno sport refrattario agli algoritmi e alla matematica, ci provano con i big data. Leggevo qualche tempo fa su Forbes il lamento di un giornalista che scrive di statistica: erano i giorni in cui al Massachusets Institute of technology si teneva la conferenza sulle statistiche applicate agli sport, o qualcosa del genere. Il simpatico commentatore si lamentava del fatto che nei paesi in cui il calcio è un gioco popolare a nessuno frega più di tanto delle statistiche applicate allo sport, mentre nei paesi in cui le statistiche applicate allo sport sono popolari a nessuno frega più di tanto del calcio. Peccato che invece di trarre le debite conclusioni, l’articolo invitava ad approfondire di più l’argomento, con il nemmeno troppo nascosto obiettivo di ridurre il calcio a qualcosa di noioso e già scritto come la quasi totalità degli sport americani, là dove l’evento più imprevedibile è la quantità di senape che i venditori ambulanti spalmano sugli hot dog.
    Si badi, questo non vuole essere un inno al calcio tè e biscotti (l’equivalente britannico del vostro pane e salame), ma un invito alla prudenza. Sappiamo che la tattica nel calcio sta diventando sempre più importante, per dirla in modo originale, che anche nella patria natìa di questo sport, l’Inghilterra, da almeno una decina di anni sempre maggiore attenzione è stata data all’analisi statistica e che da qualche tempo in ogni club di Premier League lavorano team di esperti che analizzano nel dettaglio filmati e dati dei giocatori della squadra e degli avversari. Quando allenava il Bolton, Sam Allardyce (lo racconta il calciatore misterioso autore della fortunata rubrica sul Guardian “The secret footballer” e dell’omonimo libro) studiò centinaia di calci d’angolo della Premier League per capire dove in media cadesse il pallone rinviato di testa dalla difesa. Individuata la zona di campo, piazzò un uomo nel punto esatto in cui la palla statisticamente toccava terra, e ridusse in maniera sensibile i gol subiti dalla sua squadra nella seconda fase delle azioni. L’analisi dei dati statistici ci ha insegnato anche che se sui calci d’angolo la palla viene spedita nella zona della linea dell’area piccola, è più facile per chi attacca fare gol. Per questo è meglio mettere un giocatore a difendere in quella zona invece che metterlo sul palo, come ci insegnavano alla scuola calcio da bambini. Il gol con cui Drogba ha pareggiato a tre minuti dal termine la finale di Champions League contro il Bayern nel 2012 è figlio di queste statistiche: palla al limite dell’area piccola e stacco vincente dell’ivoriano, che in quanto a numeri sui gol segnati di testa è secondo a pochi. Con uno schema più complesso ma analogo il Manchester City ha vinto la Premier League un anno fa battendo lo United nel derby decisivo della stagione. Lo stesso dicasi per gli schemi dello Stoke City, là dove prevedono il lancio lungo del terzino per la sponda del gigante Peter Crouch, che sistematicamente la appoggia in mezzo all’area dove centrocampisti e attaccanti dello Stoke conoscono i movimenti a memoria e colpiscono al volo il pallone, spesso segnando. Talvolta questi studi hanno risvolti tanto interessanti quanto lapalissiani: al Mit quest’anno è stato presentato uno studio per dirci che Frank Lampard è un centrocampista niente male. Dopo avere analizzato 1.279 partite di 118 diversi giocatori del campionato inglese, gli esperti hanno scoperto che i centrocampisti più forti sono quelli che si guardano attorno prima di ricevere il pallone: nella maggior parte dei casi faranno il passaggio giusto prima che gli avversari possano porvi rimedio. Applicazione: insegnare ai giovani centrocampisti a muovere di più la testa e, se si è degli agenti in cerca di nuove promesse, portarsi dietro una telecamera da tenere fissa sul volto del ragazzo che ci interessa, per poi vedere a fine partita se e quante volte si guarda attorno. Ergo, se supera un certo numero di occhiate dietro di sé, acquistarlo. Ne sono certo: il giorno in cui la mia squadra comprerà un centrocampista perché ha una media di passaggi completati altissima io smetterò di seguire il calcio. In Inghilterra c’è un club in particolare che si è affidato alle statistiche negli ultimi anni per fare i suoi acquisti e le sue cessioni, il Liverpool. Il fatto che non vinca qualcosa di serio dal 2006 la dice lunga.

    Le statistiche ci raccontano un sacco di cose buone e giuste, ma soffrono di un peccato originale irredimibile: sono applicate a un oggetto inadeguato. Mille statistiche su mille giocatori di baseball diranno la verità su 999 di loro, consentendo alle squadre che praticano quella parodia del cricket di ottenere i risultati che avevano pensato a tavolino con mesi di anticipo. Mille statistiche su mille calciatori diranno tutto di quello che hanno fatto, ma poco di quello che faranno. Il calcio è un enorme cimitero delle promesse fallite, nel baseball chi manca le aspettative viene fermato prima o più semplicemente è l’eccezione che conferma la regola. In quella finale di Champions League, dopo avere assecondato le statistiche segnando il gol del pareggio, Drogba fece una cosa che nessun analista avrebbe potuto immaginare: nei tempi supplementari provocò un rigore con uno stupido fallo su un avversario toccandolo goffamente nella propria area. Sul dischetto per il Bayern andò Robben, che le statistiche descrivevano freddo e chirurgico sui rigori. Robben sbagliò, e lo stesso fece un altro rigorista alla fine, Schweinsteiger. Così la Coppa andò al Chelsea, la squadra che statisticamente aveva creato meno occasioni, giocato meno palloni e tirato meno in porta in quella finale. Per non parlare dell’intera competizione.

    Ci sono manager che assieme ai loro collaboratori passano ore ad analizzare i dati che le canottiere da migliaia di sterline o le suole di scarpe speciali indossate dai calciatori durante gli allenamenti trasmettono loro, e creano di conseguenza allenamenti personalizzati per i singoli giocatori. Certamente molto meglio dei gradoni da salire a balzi di zemaniana memoria, ma chi si illude che la somma dei dati raccolti porti matematicamente al successo farebbe meglio a darsi al football americano o al baseball. “Il calcio non è fatto di un lanciatore che cerca di sconfiggere in arguzia un battitore – scrive il calciatore misterioso nel suo libro – E’ un gioco di squadra e nessuna statistica farà andare d’accordo due giocatori che non riescono a stare nella stessa stanza, non importa quanti ingressi nella trequarti avversaria abbiano realizzato nelle ultime due stagioni”. Mai come in questo sport gli elementi esterni sono decisivi, mai come in questo sport una stagione è diversa dall’altra, una partita è opposta all’altra. Guardate le statistiche di Nocerino due stagioni fa e confrontatele con quelle di quest’anno. O quelle di Fernando Torres quando dal Liverpool passò al Chelsea e impiegò più di un anno a ritornare un giocatore accettabile. Provate a spulciare i dati che riguardano Shevchenko, e controllate se qualcuno aveva previsto una moglie scontenta di stare a Milano e desiderosa di trasferirsi a Londra. Le statistiche diranno che Balotelli è un bomber implacabile, ma non potranno mai prevedere i suoi colpi di testa (nemmeno quelle sul numero di cartellini rossi). Il calcio è gioco di squadra ed esaltazione del singolo insieme, ma del singolo libero di provare la rovesciata della vita, il tiro al volo impossibile, il retropassaggio che colpirà una zolla mettendo in difficoltà il proprio portiere o l’assist corto e prevedibile anziché l’apertura geniale e stupefacente. Il calcio è figlio del paese in cui si gioca: in Inghilterra ci si esalta per un tackle, in Brasile per un tunnel, in Italia per tre passaggi in fila di prima. Quando il potere delle analisi statistiche verrà a spiegarci che con i tunnel non si vincono le partite e imporrà per decreto di giocare tutti come il Bayern Monaco, potremo accomodarci in pantofole sul divano e guardare le repliche di “Beautiful” in televisione, sarà più divertente. I sacerdoti dei big data forse un giorno riusciranno a spiegare buona parte del mondo grazie alle loro ricerche statistiche, a prevedere cosa mangeremo a pranzo, dove andremo in vacanza, quanti anni ci restano da vivere dato il nostro tenore di vita, la musica che ascolteremo e se il battitore della nostra squadra del cuore (sto parlando di baseball) farà un certo numero di fuoricampo. Poche cose riusciranno a sfuggire. Il calcio sarà una di quelle e se non sfuggirà non sarà più calcio. Probabilmente lo chiameranno soccer.