Urgenze troppo mediatiche

Così la “disoccupazione giovanile” può diventare un totem un po' inutile

Stefano Cingolani

La Germania ospita oggi a Berlino una conferenza sull’occupazione, avviandosi al traguardo del pieno impiego. In questo campo, dunque, i tedeschi hanno parecchio da insegnare, a cominciare dalla riforma Hartz del 2004-2005. Enrico Letta partecipa portando nel carniere un miliardo e mezzo ottenuto al Consiglio europeo, più l’orgoglio di aver collocato la disoccupazione giovanile al centro della svolta di politica economica. Piano con l’enfasi. Il Consiglio di giugno, giurano fonti tedesche citate dallo Spiegel, è stato ininfluente. E in Italia l’emergenza non riguarda i giovani, ma l’intera forza lavoro.

    La Germania ospita oggi a Berlino una conferenza sull’occupazione, avviandosi al traguardo del pieno impiego. In questo campo, dunque, i tedeschi hanno parecchio da insegnare, a cominciare dalla riforma Hartz del 2004-2005. Enrico Letta partecipa portando nel carniere un miliardo e mezzo ottenuto al Consiglio europeo, più l’orgoglio di aver collocato la disoccupazione giovanile al centro della svolta di politica economica. Piano con l’enfasi. Il Consiglio di giugno, giurano fonti tedesche citate dallo Spiegel, è stato ininfluente. E in Italia l’emergenza non riguarda i giovani, ma l’intera forza lavoro. “Lo sappiamo – replicano al governo – Ma siamo convinti che la ripresa verrà in autunno, quindi stiamo preparando le condizioni affinché con la produzione aumentino anche gli occupati”. Il Censis ha sollevato un dubbio sulla rilevanza delle cifre che i media sparano ogni giorno: “Siamo sicuri che sia davvero rappresentativo il dato dei ragazzi tra i 15 e i 24 anni?”. Secondo il direttore, Giuseppe Roma, “colpisce che il tasso di attività, ovvero la percentuale di chi intende lavorare nella classe tra i 15 e i 24 anni, sia molto basso, pari al 27 per cento contro una media italiana del 63 per cento (già bassa rispetto al dato della Ue). Forse è più opportuno pensare che molte persone a quell’età preferiscano studiare e formarsi piuttosto che cercare un lavoro. Dunque quel livello, sempre più enfatizzato, è da considerarsi più fisiologico che patologico”. Se prendiamo altri indicatori anagrafici, vediamo che la situazione resta preoccupante, ma su livelli meno eclatanti: tra i 18 e i 29 anni, la quota scende al 29 per cento, ma soprattutto si normalizza nella classe tra i 25 e i 34 anni. Qui siamo sotto il 10 per cento, un tasso elevato, ma inferiore alla disoccupazione media che è arrivata al 12,2 (record dal 1977).
    La Banca d’Italia mette l’accento sulle fasce centrali di età. Tra il 2007 e il 2012 il numero di disoccupati con almeno 45 anni è raddoppiato, da 248 mila a 649 mila. “Nel confronto con i più giovani, i disoccupati adulti hanno maggiori difficoltà a trovare un nuovo impiego. Nel 2012 a distanza di un anno, quasi il 40 per cento dei disoccupati con meno di 25 anni è nuovamente impiegato, il 3 per cento è scoraggiato e cessa la ricerca; oltre 45 anni, la percentuale scende al 24,5 mentre gli scoraggiati salgono all’8 per cento”. Per inquadrare meglio i dati bisogna andare indietro nel tempo. Il tasso di disoccupazione tra 15 e 24 anni era vicino al 24 per cento fino al 2006, poi è sceso al 18,8 nel febbraio 2007. Dalla metà del 2008 in poi ha compiuto un balzo: 26,8 nel dicembre 2009, 32 nel dicembre 2011, fino al 38,5 del maggio 2013. Si tratta di 15 punti, risultato diretto della crisi.

    Il ministro del lavoro Enrico Giovannini, fino a pochi mesi fa era presidente dell’Istat, sa bene come stanno le cose: 650 mila giovani sono una minoranza rispetto ai tre milioni di disoccupati, ma “c’è un problema di capitale umano da preservare e non disperdere”. Tiene a sottolineare che l’intero provvedimento del governo è ispirato a questa filosofia e riguarda ogni età. Le imprese, alle quali spetta creare lavoro, non fanno abbastanza: spendono meno in formazione rispetto alle concorrenti, la curva delle retribuzioni è piatta, quattro milioni di lavoratori sono sotto-inquadrati, cioè svolgono mansioni inferiori alla loro qualifica. Tutto questo Giovannini lo ha detto ieri in un incontro alla Confindustria e non si può dire che lo abbiano applaudito. La disoccupazione è un problema a due facce, a cominciare da quella giovanile. C’è una componente strutturale che va affrontata riformando l’istruzione e il mercato del lavoro. Due terzi dei nuovi posti nella Francia delle 35 ore e delle lotte dure, sono con contratti a tempo determinato. In Germania o in Scandinavia la percentuale sale ancora. Il governo italiano vuole favorire la “flessibilità buona” e scoraggiare quella cattiva (come le false partite Iva). E qui veniamo alla congiuntura. Il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, vede la luce in fondo al tunnel. Con la ripresa, anche la molla del lavoro dovrebbe scattare, ma non ovunque. Per questo, dice Giovannini, diamo stabilità alle imprese che tirano (per esempio quelle esportatrici) e flessibilità a quelle che vogliono ripartire.

    Un’altra lezione tedesca: proprio ieri Angela Merkel, in un’intervista a una serie di giornali europei, ricordava che “la flessibilità va applicata non solo ai giovani, ma a tutti”. E’ questa la chiave del successo in Germania, al di là degli strumenti come l’Agenzia del lavoro che pure è mille miglia avanti rispetto ai Centri che in Italia toccano una quota marginale del mercato.