La flemma dei ricchi risparmiatori italiani sgonfia il pil
I grandi fondi d’investimento italiani custodiscono una ricchezza gigantesca; il modo in cui decideranno di usarla definirà il loro ruolo nella boccheggiante economia nazionale: un potenziale volano o un’angosciante zavorra? Per adesso, il settore del risparmio è popolato da “conservatori per necessità” (le famiglie) e “conservatori per abitudine” (i fondi). Le famiglie accumulano e si affidano ai fondi di gestione privati, alcuni di origine bancaria, per cercare la migliore allocazione del loro patrimonio.
I grandi fondi d’investimento italiani custodiscono una ricchezza gigantesca; il modo in cui decideranno di usarla definirà il loro ruolo nella boccheggiante economia nazionale: un potenziale volano o un’angosciante zavorra? Per adesso, il settore del risparmio è popolato da “conservatori per necessità” (le famiglie) e “conservatori per abitudine” (i fondi).
Le famiglie accumulano e si affidano ai fondi di gestione privati, alcuni di origine bancaria, per cercare la migliore allocazione del loro patrimonio. Gli italiani sono prudenti e non potrebbero fare altrimenti; guai a cimentarsi nell’investimento fai-da-te. Grazie a questo diluvio di denaro, i fondi di gestione adesso sono molto liquidi: a maggio si sono scoperti “ricchi” ai livelli visti solo quattordici anni fa, ma stentano a cambiare indirizzo nell’allocazione degli investimenti rispetto al passato e tuttora preferiscono il settore obbligazionario: un “porto sicuro” (recita il luogo comune), che da sempre attrae i risparmiatori italiani (non certo dei cuor di leone) ma che, in questo contesto di mercato, risulta meno redditizio di un anno fa. I fondi sono dunque “conservatori” per prassi. Di conseguenza, con una brutale sintesi, si può dire che una ricchezza di proporzioni miliardarie resta in larga parte improduttiva perché si ricicla nel circuito statal-bancario senza affluire all’economia reale; almeno non per via diretta.
I fondi di gestione del risparmio hanno registrato un “boom” di sottoscrizioni dall’inizio dell’anno fino al mese di maggio. Un recupero rispetto ai volumi scarsi del 2012, una crescita talmente consistente che bisogna tornare al 1999 per ritrovare dei flussi di raccolta simili: 8,7 miliardi di euro nel solo mese di maggio con un saldo di 36 miliardi nei primi cinque mesi dell’anno. Nel complesso, i fondi di gestione (privati o bancari) hanno accumulato un patrimonio da oltre 1.264 miliardi di euro, cioè un terzo della ricchezza privata degli italiani, secondo i dati diffusi dalla Assogestioni, l’associazione che riunisce gli operatori del settore. In particolare i fondi obbligazionari hanno “fatto la parte del leone”, scriveva il Sole 24 Ore, con una raccolta da 5,7 miliardi. “C’è una tradizione consolidata in Italia per cui la parte più consistente dei fondi è quella obbligazionaria, ma mi chiedo come sia possibile in questo momento consigliare ai risparmiatori di investire in obbligazioni visto che le analisi concordano nel prevedere un rialzo dei tassi nei bond sovrani”, dice al Foglio un grande conoscitore del settore. Significa che investire ora in questi asset non è più così remunerativo. O almeno non lo è al pari di un investimento considerato più “rischioso” (secondo il solito luogo comune) come quello nell’azionario, che, nonostante si sia rivelato profittevole (con rialzi nell’ordine del 45 per cento), ha sofferto una raccolta negativa per 211 milioni nel mese “boom” di maggio. Investire in obbligazioni, invece, potrebbe non essere più così conveniente perché se l’economia si riprende, i rendimenti calano e mantenere in portafoglio bond di lungo termine (in particolare esteri) non pagherà mai come nel 2011, nel pieno della crisi del debito europea.
Oltre al sospetto di alcuni osservatori che parte della ricchezza vada infine a rimpinguare la scarsa redditività delle banche, c’è il problema del mancato trasferimento di beni alle piccole e medie imprese non quotate in Borsa: si stima che almeno 15 miliardi potrebbero arrivare a loro se solo emettessero obbligazioni proprie. Assogestioni attende che tali strumenti (disponibili da novembre scorso) vengano usati dalle aziende: i gestori si dicono dunque pronti, e anzi chiedono agli imprenditori di muoversi. E così l’inazione diventa la prassi di uno statico capitalismo di rimessa.
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