Seguire Berlino?

Alberto Brambilla

Ieri i capi di stato e i ministri del Lavoro dell’Unione europea si sono incontrati a Berlino. E’ il secondo vertice in tre settimane convocato per contrastare la disoccupazione giovanile, arrivata al 23,1 per cento nell’Ue. Per il cancelliere Angela Merkel si sono pianificate “misure molto concrete”. Il ministro del Lavoro tedesco, Ursula von der Leyen, ha detto ieri alla Cnbc che dai governi verranno mobilitati complessivamente 80 miliardi di euro; inclusi i 6 miliardi spalmati su sette anni (in pratica 200 euro l’anno per ciascuno dei 5,7 milioni di giovani disoccupati) stanziati dal Consiglio europeo di giovedì scorso.

    Ieri i capi di stato e i ministri del Lavoro dell’Unione europea si sono incontrati a Berlino. E’ il secondo vertice in tre settimane convocato per contrastare la disoccupazione giovanile, arrivata al 23,1 per cento nell’Ue. Per il cancelliere Angela Merkel si sono pianificate “misure molto concrete”. Il ministro del Lavoro tedesco, Ursula von der Leyen, ha detto ieri alla Cnbc che dai governi verranno mobilitati complessivamente 80 miliardi di euro; inclusi i 6 miliardi spalmati su sette anni (in pratica 200 euro l’anno per ciascuno dei 5,7 milioni di giovani disoccupati) stanziati dal Consiglio europeo di giovedì scorso. Saranno efficaci? “Dipenderà come verranno investiti”, ha aggiunto Von der Leyen spiegando che le risorse saranno prese dai fondi sociali Ue inutilizzati e anche dalla Banca europea per gli investimenti per essere spese in tre “aree chiave” (mobilità, formazione professionale durevole e specializzata). I critici avvertono sulla potenziale inconsistenza dell’intervento europeo che separa due problemi in realtà inscindibili (disoccupazione tout court e giovanile) e la mancanza di una leadership chiara sul tema.

    Ieri il presidente del Consiglio italiano, Enrico Letta, ha illustrato il “piano nazionale del lavoro” a Berlino, enfatizzando la decontribuzione per i neoassunti e le semplificazioni per l’imprenditoria giovanile approvate la settimana scorsa. Letta non nasconde di ammiccare alla Germania e al suo modello economico in tema di lavoro, al pari dell’establishment del Pd e di altri leader Ue; ieri il presidente della Commissione Manuel Barroso ha detto che “le riforme del mercato” in Germania sono un “modello per l’Europa”. Quest’impostazione ha contribuito negli anni a elevare l’Agenda 2010 dell’ex cancelliere socialista Gerhard Schröder al rango di totem. Ebbene, l’imitazione di tale modello (compressione dei salari e contenimento della spesa statale) non serve agli altri paesi come si crede, secondo lo studio “A German model for Europe?” dello European Council on Foreign Relations, think tank europeo non partigiano.

    Se la Germania non è più il malato d’Europa, spiega nello studio l’economista Sebastian Dullien, non lo si deve soltanto alle riforme avviate da Schröder nel 2003 che hanno liberalizzato il mercato, indebolendo le corporazioni professionali e strutturando le agenzie di impiego temporaneo, e “ridotto la sicurezza sociale” abbattendo la spesa in ricerca e sviluppo. La manifattura tedesca era (ed è) già ben posizionata nei settori ad alto valore aggiunto; in più, dice Dullien, la ripresa “modesta” della competitività tedesca non è ascrivibile alla maggiore produttività del lavoro, semmai, per converso, alla riduzione dei salari. Può essere questo un modello per tutti? La conclusione di Dullien è lapidaria: “Il successo tedesco – l’ampio surplus della bilancia commerciale, il basso tasso di disoccupazione e un’accettabile crescita economica – è il prodotto della combinazione tra una restrizione dei salari nominali, sostenuta da riforme del mercato del lavoro che hanno compresso i salari minimi e ribassato i salari in generale, cui si aggiungono una drastica riduzione della spesa per investimenti in ricerca e sviluppo ed educazione. Nel complesso questo non può servire come modello per l’Europa. E alcuni elementi del modello tedesco avrebbero riflessi negativi sulle esternalità dei paesi europei; altri invece deprimerebbero l’economia interna”. Ergo: “Invece di tentare di copiare l’approccio tedesco, i leader europei dovrebbero esaminare con attenzione quali elementi” possono risultare virtuosi per loro. Lo svolgimento della ricerca smonta poi il totem del paradigma Schröder (“alcuni elementi del pacchetto di riforme sono stati sovrastimati”): alcuni cambiamenti nel mercato del lavoro sono da imputare al mercato in sé (“le istituzioni si sono modificate in maniera endogena attraverso cambiamenti nella contrattazione collettiva dei salari, non per mezzo degli interventi governativi”). Replicare l’approccio “deflazionistico” sui salari porterebbe in altri paesi a “una riduzione della domanda aggregata”, alimentando un circolo vizioso di riduzione dei prezzi e dei consumi, con effetti sull’occupazione “molto meno benefici per l’Eurozona nel suo complesso che per la sola Germania”, conclude Dullien.

    • Alberto Brambilla
    • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.