Un borghese tondo tondo

Salvatore Merlo

Un borghese grande, grosso e facondo che si rannuvola facilmente, ma sa dissimulare e seduce. E’ forse l’unico aspetto del suo carattere e della sua personalità, l’unica debolezza che condivide con Giulio Tremonti, il suo predecessore e vecchio nemico, perché anche Fabrizio Saccomanni, come Tremonti, si innervosisce parecchio per le critiche che di rado riceve sui quotidiani (anche se incassa, e non telefona mai), specie quando gli attacchi giornalistici toccano la Banca d’Italia, e dunque le sue mostrine, le medaglie appuntate al petto di un uomo che per trentacinque anni si è identificato con la Banca centrale nella quale, giovane funzionario, lo portò Guido Carli e lo promosse Mario Draghi, suo vero grande amico.

    Un borghese grande, grosso e facondo che si rannuvola facilmente, ma sa dissimulare e seduce. E’ forse l’unico aspetto del suo carattere e della sua personalità, l’unica debolezza che condivide con Giulio Tremonti, il suo predecessore e vecchio nemico, perché anche Fabrizio Saccomanni, come Tremonti, si innervosisce parecchio per le critiche che di rado riceve sui quotidiani (anche se incassa, e non telefona mai), specie quando gli attacchi giornalistici toccano la Banca d’Italia, e dunque le sue mostrine, le medaglie appuntate al petto di un uomo che per trentacinque anni si è identificato con la Banca centrale nella quale, giovane funzionario, lo portò Guido Carli e lo promosse Mario Draghi, suo vero grande amico. Dunque in questi ultimi giorni il ministro del Tesoro ha un po’ sofferto, e molto si è lamentato, anche mercoledì con alcuni amici ospiti assieme a lui e alla moglie Luciana dell’ambasciatore americano a Villa Taverna, per l’affaire dei derivati raccontata nelle ultime settimane dal Financial Times e da Repubblica, e ripresa ancora ieri nei siti internet, la storia degli otto miliardi di euro che potrebbero volatilizzarsi per cattiva gestione nelle pieghe del già magro bilancio dello stato.

    Malgrado la rassicurante relazione del ministro in Parlamento, il dossier derivati non si è ancora chiuso, desta preoccupazione negli ambienti finanziari, tra gli analisti delle grandi banche d’affari che osservano la fragile Italia, ed è il tormento nervoso di quest’uomo dal carattere morbido, tecnocrate bancario con venature persino di timidezza, abile diplomatico che non conosce il conflitto e rifugge l’asperità. Felpato, d’un garbo che conquista politici e giornalisti, lontanissimo dagli spigoli e dalle fantasie di Tremonti, Fabrizio Saccomanni crede che il potere sia soprattutto mediazione, un groviglio d’interessi nel quale è necessario muoversi con cautela, persino con grigiore e lentezza se necessario, senza spasmi e contrazioni violente, la creatività è infatti una distrazione, non ci si può permettere sgarri di calcolo nell’abaco del creato politico e finanziario.
    Così Saccomanni è perfettamente a suo agio nel governo di Enrico Letta, malgrado il presidente del Consiglio, nella sua prima lista, all’Economia avesse indicato Pier Carlo Padoan, il capo economista dell’Ocse, e solo l’intervento risoluto di Giorgio Napolitano, che lo conosce bene, ha fatto pendere la bilancia del destino su questo gran tecnocrate bancario, tondo tondo e per bene. E lui nella palude delle larghe intese adesso nuota alla grande, d’altra parte con il presidente del Consiglio, con Letta, ha scoperto di condividere la medesima filosofia del potere; anche lui è fedele, cordiale, intelligente, sobrio anche se a tratti vanitoso (“recito tutto Belli a memoria”). Così il ministero del Tesoro è diventato un filatoio del lettismo, categoria dello spirito per la quale Saccomanni è portato per naturale inclinazione, d’altra parte lui è la prova vivente che non è vero quel motto popolare che recita così: il gatto con i guanti non acchiappa topi. Per tutta la vita Saccomanni ha acchiappato topi con i guanti.
    E basta farsi raccontare dei suoi rapporti con Renato Brunetta, il capogruppo del Pdl che tutti vorrebbe sempre sfidare a duello, un carattere tosto, lui che si fa chiamare onorevole dai professori e professore dagli onorevoli, e che a un certo punto di Saccomanni ha detto che “non capisce niente”. Le baruffe di Brunetta e Tremonti hanno intrattenuto per anni il personale politico del centrodestra italiano e il ceto giornalistico tutto, botta e risposta, vanità contro vanità, sempre una sfida, un nuovo colpo di pistola, una dialettica infinita, spesso violenta. Chi non si ricorda Tremonti sussurrare nell’orecchio di Maurizio Sacconi: “Ma lo senti che dice Brunetta? E’ proprio un cretino”.

    E Saccomanni invece? Nessuna reazione, nessuna risposta, ma solo carezze pubbliche e private per “lo stimatissimo professor Brunetta”, con il quale il ministro del Tesoro si intrattiene spesso in una specie di cabina di regia economica, una camera di compensazione escogitata con Letta per ingabbiare, sedare, impaludare ogni cosa, persino l’impaludabile Brunetta (“professore carissimo, grazie, i suoi consigli mi sono preziosi”). E che dire di Enrico Giovannini o di Flavio Zanonato, gli altri due ministri economici, quello dello Sviluppo e quello del Lavoro, che Saccomanni un po’ soffre. Zanonato è tutto scatti e petardi nel placido salotto della grande coalizione. “L’aumento dell’Iva è inevitabile”, esplode Zanonato, “l’Italia ha raggiunto il punto di non ritorno”, spara Zanonato, “difficile restituire i crediti alle imprese”, scarica Zanonato, mentre Saccomanni descrive placidamente la visione di una luce “in fondo al tunnel (e non è la luce di un treno)”. E’ l’ottimista del governo, lui che ha in mano i conti e i cordoni di una borsa che gestisce con studiata bonomia e occultata severità, è il guardiano, per conto di Draghi, del vincolo di bilancio che inchioda il rapporto deficit/pil italiano all’invalicabile 3 per cento. Troncare sopire, sopire troncare, sorridere sempre, anche a Stefano Fassina, il suo viceministro con il quale lui in realtà non condivide nulla, ma che pure ha la sensazione di essere sempre ben accetto nello studio privato del ministro, laddove invece le decisioni, quelle vere, vengono prese a porte chiuse, quando Saccomanni si consulta con la squadra che si è portato dietro dalla Banca d’Italia, dopo aver eliminato ogni residuo tremontiano a cominciare dal ragioniere generale dello stato Mario Canzio. La sua forza, il suo quadrato magico, i viceministri ombra, sono Daniele Franco, Vieri Ceriani, Daniele Cabras e Francesco Alfonso, nell’ordine: il nuovo ragioniere generale dello stato, il consigliere per le politiche fiscali, il capo di gabinetto e il capo della segreteria tecnica, tutti Banca d’Italia, tutti scuola Carlo Azeglio Ciampi, come Saccomanni e come il grande elettore del ministro, il presidente della Bce Mario Draghi. Mai una lite, mai la voce che si alza, nemmeno di un tono, Saccomanni mostra a ciascuno il volto più adatto, talvolta fa credere di essere quello che non è.
    Anche Silvio Berlusconi, dopo averci parlato, s’era convinto d’avere a che fare con uno dei suoi.

    Il 16 settembre del 2011 il Cavaliere volle incontrarlo, si combatteva allora la battaglia per la Banca d’Italia, uno scontro serrato e sottile fra Tremonti, che voleva Vittorio Grilli sulla poltrona di governatore, e Mario Draghi che invece sponsorizzava Saccomanni. Berlusconi era curioso di conoscere questa strana creatura perché Tremonti, di cui il Cavaliere non sempre si è fidato, glielo descriveva come un nemico, il male assoluto, mentre Gianni Letta intercedeva a favore di Saccomanni per conto di Giorgio Napolitano, il presidente della Repubblica che ha sempre manifestato grande fiducia nell’uomo che Draghi gli raccomandava con calore. Così un giorno di settembre Saccomanni varcò la soglia di Palazzo Chigi per conoscere il Cavaliere, e Berlusconi, sollevato, concluse il lungo colloquio con uno dei suoi sorrisi ribaldi, una battuta fulminea, “mi avevano detto che lei era comunista”. E invece Saccomanni, come tutti i romani, sa accarezzare l’interlocutore, così in presenza di Berlusconi indulge al berlusconismo, mentre con quelli di sinistra passa per essere uno dei loro, di sinistra pure lui, “l’ala più destra della sinistra di Bankitalia”, ha scritto una volta il Corriere della Sera. E’ un diplomatico, un Enrico Letta ma tondo tondo ed esperto in economia, tutti si ricordano come Saccomanni già chiamasse i suoi colleghi ministri ciascuno per nome nel primo incontro collegiale, nel ritiro toscano di Sarteano, quando pressapoco nessuno sapeva che faccia avessero gli altri colleghi di governo, ma lui, unico, si rivolgeva alla “cara Josefa”, e alla “carissima Cécile”. Acchiappa i topi con i guanti, Saccomanni. Liberale coi liberali, socialdemocratico con i socialdemocratici, e poi anche melomane (“avevo sei anni quando andai all’Opera per la prima volta”), poeta (“ma celebro solo occasioni festose”), lettore vorace (“il libro che ha contato di più nella mia formazione è i Buddenbrook”), mangiatore e cuoco da gourmet (il migliore risotto al radicchio di Roma) ispirato alla cucina di Filippo La Mantia in via Veneto e al ristorante Sardo-pariolino “Ai Piani”, e contemporaneamente pure grande economista, saggista, scrittore. E dunque Saccomanni passa, e si fa passare, per uno che tratta con la stessa levità la Bce e Thomas Mann, Vissani e i Bund tedeschi, Beethoven e lo spread. Un po’ troppo.
    Scherza, ride, è notoriamente un uomo di spirito, e quando Flavio Zanonato disse che “per evitare l’aumento dell’Iva ci vorrebbe un miracolo, la palla ce l’ha Saccomanni”, lui rispose così, recitando un’espressione annoiata: “Ho la palla… che palla!”. Un po’ Alberto Sordi un po’ banchiere di Brecht, teatro e musica, di lui esiste un profilo streotipato, la sua immagine è costruita dai cronisti adulatori, dagli slurp giornalistici, come un monumento dell’Economia che ogni tanto scende dal piedistallo e si mette a suonare, a leggere un Meridiano, a recitare poesie. Ma non è così, e non gli si rende giustizia, né un buon servigio. Saccomanni, che è diligentissimo, arriva al ministero di buon mattino, appunta le sue rime su un calepino nero, un quadernetto sottile, ogni tanto lo fa nelle pause dal lavoro e persino a teatro, dove non manca di presenziare ai migliori eventi della stagione musicale, in Italia e spesso anche all’estero (se non va allo stadio a seguire la Lazio, o al cinema in compagnia di Franco Bassanini e Linda Lanzillotta).

    Di queste sue composizioni in rima che gli agiografi paragonano a Belli, a Trilussa e a Pascarella, se ne conoscono due in particolare; un’ode a Carlo Azeglio Ciampi padre dell’euro, “Si Ciampi nun faceva ’sta penzata / te partiva er costo de la vita / te trovavi ’na lira svalutata / e coll’economia tutta stranita”, e un panegirico di Tommaso Padoa-Schioppa, “Giove son io e in Olimpo ti vo’ / Là tu avrai perfetta stabilità / ché moneta io solo gestirò / e nulla fan l’altre divinità”. Ma è evidentemente il contrario di Trilussa, quelle di Saccomanni sono rime laudative, lirica di corte, senza un’ombra di malizia, mentre Trilussa, Belli e Giusti, che sono la vera satira italiana (altro che Travaglio), avevano il veleno dentro, le tossine della poesia mordace. E dunque Saccomanni scrive invece per il momento della bicchierata, per la celebrazione dei settant’anni del governatore Ciampi, o per i cinquanta di Padoa-Schioppa, e lui, l’autore dei versi, viene chiamato perché l’applauso al festeggiato sia più caloroso e accompagnato da una risata allegra (e poi anche da un pensiero generoso per il rimatore: “Però, quel Saccomanni!”).
    E insomma appartiene a quella tecnostruttura italiana che è sempre un po’ birbantella, intelligente, inappuntabile, molto adulata. Viene infatti sempre spacciato per alta cultura lo strumento attraverso il quale questi grandi tecnici bancari pagano lo scotto del loro mestiere all’Italia, che ha notoriamente con il denaro un rapporto malato; se maneggi i quattrini devi sempre dimostrare di aver letto perlomeno Marcel Proust per essere mondato. Nella leggenda agiografica, Enrico Cuccia traduceva dal latino direttamente in greco. E lui, il capo di Mediobanca che non ha mai detto una parola in vita sua a un giornalista e non parlava con nessuno, malgrado ciò, secondo le colonne dei quotidiani così pieni di salmi e di odi, sapeva tutto e leggeva tutto. Come Carlo Azeglio Ciampi conosceva a memoria l’opera omnia di Hölderlin, Antonio Fazio era niente meno che il massimo esperto mondiale di san Tommaso, e anche Giovanni Bazoli avrebbe potuto insegnare esegesi biblica all’università. Non c’è un banchiere o un tecnico bancario che non ceda a questo compenso cercato attraverso la cultura, un vezzo mitizzato dai giornalisti pigri e servili, ma che pure ha una sua ragione, perché dietro l’affettazione letteraria di Saccomanni c’è l’idea che la cultura risarcisca il prezzo che il vizio paga alla virtù (Marcello Dell’Utri per qualcuno è belzebù mafioso, per altri è un appassionato bibliofilo). Ed è una cultura esibita o enfatizzata dai laudatores, mai vera, mai del tutto; un governatore della Banca d’Italia si può certo dilettare a leggere le poesie tedesche, ma non per questo è il più grande traduttore di Hölderlin, e nemmeno un raffinatissimo esperto di filosofia tomistica. Eppure l’idea che Saccomanni, autore di trattati economici e persino di un libro che “aveva previsto le distorsioni della globalizzazione finanziaria” (“Tigri globali, domatori nazionali”, il Mulino), sappia a memoria tutti i sonetti di Belli e sappia anche rimare come Trilussa, accende la fantasia delle redazioni, e in taluni stimola il riflesso del maggiordomo, poco importa che il banchiere ovviamente non sia un poeta ma al massimo un verseggiatore d’occasione. Non si può essere contemporaneamente Rugantino e Keynes.

    Nel governo è un contrafforte del Quirinale, il punto di congiunzione tra Draghi e Napolitano, i due amici e alleati che Saccomanni condivide con Eugenio Scalfari, il fondatore di Repubblica per il quale il ministro ha una particolare ammirazione sin da quando era ragazzo al liceo Mamiani di Roma, dai tempi in cui leggeva avidamente l’Espresso, come ha raccontato lui stesso a Enzo Golino nell’unica bellissima, vera, intervista personale mai concessa: “Ero affascinato dagli articoli di Scalfari sull’Espresso, e poi da quelli firmati Bancor, cioè dall’allora governatore Guido Carli di cui Scalfari si faceva portavoce”. E in quel salotto, in quelle frequentazioni, il ragazzo del Mamiani poi è entrato sul serio, ha anche comprato casa a Cetona, in provincia di Siena, che assieme a Capalbio è il quartiere estivo dove si accampa la sinistra italiana; ma a Capalbio vanno quelli che vogliono far sapere dove hanno la casa, mentre a Cetona quelli che coltivano un po’ di misterioso riserbo, “chissà dove ha la villa Fabrizio Saccomanni?”.
    Dunque, nella grande coalizione, il tecnico Saccomanni si è fatto in realtà politico, e serve la logica istituzionale e stabilizzatrice del presidente della Repubblica (e della Bce di Draghi), così da trovarsi in contrasto con le correntine più agitate che increspano la superficie delle larghe intese. Se Zanonato è pirotecnico, il compito di Saccomanni è quello di bagnargli la miccia ed evitare il botto, lui deve lusingare i Brunetta con uno sguardo d’intesa complice rivolto all’ala governativa dell’asagitato Pdl, agli Angelino Alfano e ai Gaetano Quagliariello, ai pompieri e ai ritessitori di trame smagliate. L’alleanza è fragile, precario l’equilibrio, e nell’architettura del Quirinale, che tutto vede e controlla, Saccomanni è una colonna, una struttura portante. “Ho molto apprezzato Saccomanni perché il ministro del Tesoro ha dimostrato in modo puntuale quello che si poteva fare e quello che non si può fare, naturalmente senza pensare di avere la bacchetta magica”, ha detto due giorni fa Napolitano, dalla Croazia dove si trovava per salutarne l’ingresso nell’Unione europea. Un modo per ribadire che su quel ministro e quel ministero sotto attacco per la questione dei derivati, e sottoposto a una singolare asimmetria dialettica con Zanonato e l’ala più politica del centrosinistra governativo, aleggia sempre l’ombra protettiva del presidente della Repubblica. Guai a chi lo tocca.

    Non che Saccomanni abbia bisogno di guardie del corpo, si protegge da solo, e pure con grazia. Il ministro ha un modo suo di tirarsi fuori d’impaccio, spesso con una battuta, lo humor d’altra parte non gli fa mai difetto, talvolta gli basta uno sguardo obliquo, sornione. A un ministro che ha bussato alla sua porta per battere cassa, Saccomanni ha risposto con garbo quasi letterario, “purtroppo non abbiamo gli helicopter money americani”, e ha così cambiato discorso, avvolgendo il suo interlocutore tra una citazione di Milton Friedman e una di Ben Bernanke, il governatore della Fed americana. E l’altro, il collega di governo, quasi ubriaco di tanta e immaginifica dottrina, alla fine si è pure dimenticato per quale motivo era andato a incontrarlo, ma ha lasciato la stanza del ministro dell’Economia con la vaga, fondata, e intima sensazione di essere stato respinto, eppure senza aver mai sentito pronunciare a quell’uomo sorridente e tondo tondo la parola “no”.

    Arruffato ma sempre in grisaglia, Saccomanni non ha la raffinatezza sartoriale di Tremonti, che è un aspirante dandy capace di andare al ministero in golf, così, per vezzo. Lui è tutto cerchi di carne e il suo vestire non assomiglia nemmeno all’eleganza tipica, rigida, di Bankitalia, dove tutti sono dritti come dei fusi, mentre lui è un po’ trascurato e indossa l’abito come fosse una divisa che occulta le sue convessità. E dunque la sua figura, che ricalca quella di tutti i banchieri d’Italia, contemporaneamente si distingue pure dalla categoria. Pervestito, come avrebbe detto Camilla Cederna, e ridanciano, con qualche vanità culturale ma pure allegro, caldo. Alcuni mesi fa ha conquistato il gotha dei cronisti politico economici d’Italia, riuniti ufficiosamente con lui. “Quando mi sposai, anche se ero funzionario della Banca d’Italia non potevo permettermi di pagare il mutuo”; “scusi, ministro, ma allora lei come fece a comprare la sua bella casa?”. E lui, con un guizzo, “ho aspettato un po’… e poi ho abbassato i tassi d’interesse”.

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.