
A me gli occhi
Tutto il calciomercato della televisione, nostra padrona del flusso di sguardo e parola, è uno scambio di figurine. E dunque: Cristina Parodi se ne torna a casa, a Canale5, facendo risparmiare Urbano Cairo. Se ne va anche Benedetta, maestra dell’impossibile con il suo tacco 12 tra i fornelli (perché, insomma, a La7, non si può cucinare al modo della Clerici, tutte quelle facce ciccione da tagliatelle di nonna Pina non fanno stile e voga) e mentre Gianluigi Nuzzi, al contrario, è approdato a Mediaset, al posto di Salvo Sottile, prende “Quarto Grado” e ci mette le cautele fichissime del politicamente corretto: “Farò inchieste, inchieste e inchieste”. Musica per le orecchie di Pier Silvio.
Tutto il calciomercato della televisione, nostra padrona del flusso di sguardo e parola, è uno scambio di figurine. E dunque: Cristina Parodi se ne torna a casa, a Canale5, facendo risparmiare Urbano Cairo. Se ne va anche Benedetta, maestra dell’impossibile con il suo tacco 12 tra i fornelli (perché, insomma, a La7, non si può cucinare al modo della Clerici, tutte quelle facce ciccione da tagliatelle di nonna Pina non fanno stile e voga) e mentre Gianluigi Nuzzi, al contrario, è approdato a Mediaset, al posto di Salvo Sottile, prende “Quarto Grado” e ci mette le cautele fichissime del politicamente corretto: “Farò inchieste, inchieste e inchieste”. Musica per le orecchie di Pier Silvio.
L’altro Gianluigi, Paragone, lascia la Rai e va a La7. Giuseppe Cruciani, pure, pare che vada a La7, nel frattempo che David Parenzo sta già a Rai3 e i due – il duo Zanzara – sono una così formidabile coppia che solo a loro poteva capitare di essere affettuosamente adescati da Lele Mora, appena uscito dalle patrie prigioni, con la proposta di fare loro da agente (e così soffiare due bei pezzi di tivù a Beppe Caschetto)…
Tutto il calciomercato si consuma nell’alveo della normale somministrazione di marchi e di volti, la metafisica della tivù però sconfina in altri ambiti, che non sono quelli della guerra termonucleare tra Augusto Minzolini, ex direttore del Tg1 e Luigi Gubitosi, attuale direttore generale dell’azienda di stato. Rai a parte, oggi il prodotto tivù è ibrido, contaminato com’è dalla ferrea gabbia, per dirla con Enrico Mentana, “dello sguardo della Gioconda che a ciascuno di noi offre l’illusione di essere al centro dell’attenzione, sia nel minuto e mezzo in video di YouTube o nei centoquaranta caratteri di Twitter”. Trattasi, dunque, della frammentazione per via di video e di chiacchiera, lo stagno della tivù si dilata, ingoia perfino il Web ma per il punto di vista del ferro da usare, il telecomando presente in ogni focolare, nessun palmare potrà sostituire il maxi schermo. L’impero irresistibile dell’immagine, sia essa una partita o una rivoluzione araba, detta legge a prescindere dal contenuto, perché se c’è da fare una gara tra Rosy Bindi e Matteo Renzi, la gara si fa interessante, così come diventerà interessantissima la gara di domani, quella tra Daniela Santanché e Silvio Berlusconi stesso. Ma questo è un altro discorso.
I meccanismi intellettivi, dunque, e la tivù. Tutto il nostro ragionare, dice Roberta Enni, vicedirettore di Rai1, “è ormai derivato dall’immagine, non sappiamo più ricordare i numeri e non ci sforziamo più di sapere o di ricordare, sono dei danni che non uccidono nessuno quelli di questa nostra età twittarola e sarà un caso che otto tweet su dieci parlano di ciò che si vede in tivù?”.
Il caso e lo sguardo della Gioconda. Tutti i meccanismi intellettivi fanno corto circuito guardandosi ma i grandi fenomeni politici, Beppe Grillo compreso che senza il suo stare in video non potremmo di certo riconoscere, sono transitati dalla tivù. Con la stesso elettrodomestico Silvio Berlusconi, il più ferrato in tema di contatto pop, come da sempre insegna Carlo Freccero, ha vinto e ha perso. La tivù è il luogo geografico dove si consumano le appartenenze, è il luogo privilegiato di un’idea di forgia dello spirito del tempo dove chi è bravo è bravo da sempre e dove chi è stato fuori ci resterà per sempre.
E ci voleva Nicola Porro, schierato senza essere un cameriere, a dimostrare di poter fare informazione in Rai senza il bollo qualità della televisione “de sinistra” e siccome tutto ciò che riguarda l’elettrodomestico consente d’indovinare i mutamenti, gli umori e la direzione di marcia della società, la novità di una trasmissione qual è “Virus”, collocata sul palinsesto del secondo canale, il giovedì, là dove un tempo ci fu Michele Santoro, più che smentire il pregiudizio – l’egemonia gramsciana delle “terrazze”, dalle stagiste ai capistruttura – conferma la minchionaggine della destra alla prova del mezzo televisivo, incapace per tutto un ventennio di potere vero di realizzare un qualcosa eccetto il puttanaio delle figuranti, il trionfo di Cristiano Malgioglio a compensazione di genere e quel Pino Insegno, poi, messo dappertutto, in omaggio alla sua conclamata lazialità, nel frattempo che gli altri funestavano di conformismi di successo a colpi di Roberto Benigni.
Ecco, questa prima analisi è grossolana solo che l’incapacità della destra ad avere un volto e una voce nella televisione italiana è ormai un capitolo di politologia e la morale è presto detta. Evidentemente bastava cercare meglio. Un professionista come Porro, schierato appunto – vicedirettore del combattivo Giornale – giammai cameriere, con il suo 7 per cento in una rete dove l’informazione ha numeri da prefisso telefonico, vendica quell’incapacità del metter mano in tivù che nell’idea tutta praticona e provinciale della destra, sia nella versione liberale, sia – peggio ancora – quella di destra-destra, si riduce al mettere quella “morta”, di suddetta mano, sui fondoschiena delle signorine e poi, in senso tecnico, a far da reggimicrofono ai politici convinti di regolare i conti con la stagione di sudditanza culturale e psicologica sciorinando comunicati stampa in forma di monologo, ore e ore di piattume propagandistico cancellati, polverizzati, neutralizzati poi in mezzo minuto di Lucia Annunziata, in due secondi due di Michele Santoro o nella semplice apparizione di Fabio Fazio.
Chi si porta addosso il marchio di “destra” – fino a oggi – non ha potuto avere spazio in televisione. E’ come se i padroni del vapore avessero letto Ezra Pound ma per applicarlo al contrario: “La libertà di parola”, diceva il poeta, “senza la libertà di parlare al microfono è un regalo fatto a Stalin”. E loro, appunto, i padroni del vapore, ossia i direttori di rete, i direttori generali, lo hanno preso alla lettera. Perfino gli agenti delle star glamour come Beppe Caschetto, per l’appunto, che è il Lucio Presta degli uommini scicche e delle femmine pittate, dettano legge. Quanto meno dentro La7 e a Rai3. E’ riuscito nel capolavoro di fare della serata televisiva del premio Campiello una Festa dell’Unità. Con Confindustria al posto della Cgil e Neri Marcorè nel ruolo che fu di Bruno Vespa. Hanno tolto il microfono a chiunque abbia il marchio “di destra” e si sono fatti il regalo. E ci voleva Porro che dovrà sudarselo questo spazio a dispetto soprattutto dei cosiddetti moderati, dei borghesi da sempre succubi del pensiero dominante se l’unica stroncatura, infine, a parte la nota di Benedetta Tobagi su Valigiablu, una notazione non tanto elegante di un membro del cda Rai che poteva farla in una più corretta sede (“E’ questo il nuovo canone dell’approfondimento giornalistico di prima serata dell’azienda di servizio pubblico?”), il neonato “Virus” la trova giusto sul Corriere della Sera.
E’ una vicenda maledettamente di destra e sinistra quella dell’elettrodomestico perché ancora adesso, malgrado tutto, la televisione è l’arma più forte. Pensate: la platea televisiva è aumentata. Nonostante il dilagare di Internet tutti continuano a consumare tivù. E queste giornate di palinsesti, l’avvio di questa pausa estiva preparatoria della prossima stagione, hanno notti dai lunghissimi coltelli. La questione di Angelo Mellone, il dirigente Rai – già scrittore di destra – destinato alla guida della “Vita in diretta”, spedito da Rai1 per sostituire Daniel Toaff, è ancora fresca. E’ una polemica costruita intorno all’abominevole gioco del fascista messo al posto dell’ebreo e sebbene sollecitata per tramite di Internet e poi sbucata nei giornali, s’è spenta per essere stata orchestrata con troppa sfacciatamente malafede al punto che lo stesso Toaff, esageratamente punito dalla Rai per una bestemmia scappata a un ospite durante il matrimonio di Valeria Marini, non può adesso avallare un uso così improprio della tragedia in faccende di prepensionamenti. Ho sentito con le mie orecchie argomentare da un redattore della “Vita in diretta” che la prova provata del razzismo di Mellone era l’aver a suo tempo scritto una recensione al libro di Giampiero Mughini su Telesio Interlandi (che, tra parentesi, era anche un debito sentimentale dell’immenso Mughini nei confronti di Leonardo Sciascia che al “Razzista di via della Mercede” contava di dedicare il suo ultimo sforzo di analisi e scrittura…).
Il fascista al posto dell’ebreo, dunque. E per fortuna non c’era un governo berlusconiano a far da tramite tra azienda e pollaio massmediale altrimenti Mellone non avrebbe avuto scampo. Gli avrebbero consegnato la testa. L’antinomia è, infatti, ripugnante. Al buon senso e alla verità dei fatti perché poi i persecutori di Mellone, oggi, sono gli antemarcia di ieri, sono gli stessi topi dei corridoi Rai che nel fasto del 1994, con l’arrivo degli sdoganati ex missini al governo, facevano mostra di fotografie dei propri cari – nonni e papà, tutti in camicia nera – e perciò più che simpatizzanti di tutta quella bella maschia gioventù finalmente arrivata a Saxa Rubra. Se poi le cose sono finite a schifio – con una Rai di oggi la cui estetica ormai è a metà tra la Conad e la Coop, con quella di ieri, quella nelle mani della destra, la peggiore Rai di tutta la storia, coi dilettanti allo sbaraglio – non può pagare pegno l’incolpevole Mellone cui va il merito di una mirabile ricognizione sull’Ilva di Taranto, figlio com’è di un operaio mangiato dal cancro e perciò consapevole della Vita in presa più che diretta.
La televisione è, per definizione, “de sinistra”. Antonio Verro, così convintamene membro del cda al punto di rinunciare alla politica, mi ha spiegato il paradosso in questi termini: “Nel mercato dell’editoria, l’autore, il giornalista o l’intellettuale di sinistra sembrano valere molto di più degli altri loro colleghi. Hanno maggiore mercato e guadagnano notevolmente di più. E’ appunto paradossale e ironico che questi personaggi costruiscano il loro consenso spesso sul risentimento e sulle speranze delle classi meno agiate e con più difficoltà che vedono in loro persino degli eroi”.
La televisione come arma potente tanto da essere specchio del tempo che fa non è solo Rai, ma anche La7 e, ovviamente, Mediaset dove, “sbagliando clamorosamente” – aggiunge Verro – “scommettono sulla prematura fine politica di Silvio Berlusconi e agiscono di conseguenza”. Ed è tutto un buttarsi a sinistra di Pier Silvio Berlusconi, un aggiudicarsi professionisti che, a dirla con Verro, “valgono molto di più degli altri colleghi, proprio per il loro essere di sinistra”. Come Luca Telese, approdato a “Matrix”, in attesa che si confermino gli arrivi di Corrado Formigli e, nientemeno, quello di Maurizio Crozza, un comico, certo, ma efficace nel restyling ideologico vista la mala parata del futuro politico del proprietario. E poi ancora tanti altri protagonisti dell’informazione da mettere nel carniere di Mediaset, sempre quelli che hanno maggiore mercato perché il giornalismo, al netto dello star system della tivù “de sinistra”, è l’investimento più conveniente. Fosse pure per trasmettere ore e ore di Berlusconi condannato.
La tivù però è imprevedibile, fanno benissimo a buttarsi a sinistra perché, poi, è vero, vince la contemporaneità ma il mercato riconosce solo l’abitudine. Gli ascolti si fabbricano con la presenza, il firmamento di un Fabio Fazio è stato issato su anni e anni di attesa e ascolti bassi; così quelli di Giovanni Floris; per non dire, infine, degli esperimenti e dei collaudi di voci, tutte uniformi, perfino in trasmigrazione dalla radio agli schermi, come al mattino di Rai3 con “Caterpillar Am”, che è tutto un piovere spiritoso e compiaciuto delle più trite banalità del sinistrese, un pastone buono per rinforzare la colazione delle professoresse democratiche (quelle col cerchietto) disposte a perdonare, pur di farsi ammaestrare, la briosa bellezza della conduttrice, Natascha Lusenti (a rischio cerchietto però).
Si potrebbe perfino recuperare un’applicazione della fenomenologia del presentatore, già mi sono esercitato su Fabio Fazio, ho già dato, ma il meccanismo s’è sviluppato negli anni per contaminazione. Diventano tutti così. Quel Floris, per dire, con tutti quei denti, affida a Crozza il compito di processare secondo schema maoista di rieducazione e autocritica gli ospiti di sinistra, secondo schema di annientamento polpotista, invece, gli ospiti di destra. Eccetto quando capita da quelle parti la ferocissima Laura Ravetto che, al comico manganellatore, riserva la più gratificante delle patenti: “Non mi fa ridere”.
Vince, manco a dirlo, l’intimidazione per mano di padri nobili, come Roberto Saviano che, forte dei suoi cachet di lusso e di impegno, col solo soffio di un tweet pretende (e ottiene) da Andrea Vianello, direttore di Rai3, che Carlo Lucarelli venga restituito al suo pubblico. Per non dire dell’intimidazione, fatta con mano e piedi dall’associazione dei familiari delle vittime delle stragi: “‘Blunotte’ venga reinserita nel palinsesto!” perché, signori miei, è pur sempre un’incredibile Italia questa, con una delle più belle televisioni al mondo visto che il centro del centro del potere si risolve sempre nell’essenza dell’essenza del comandare. La tivù, politicamente orientata, ideologicamente corretta, è quella che crea il pantheon della rispettabilità. La sinistra si aggiudica un’aura che va oltre il popolare facile e se Concita De Gregorio quando parla tiene in pugno lo studio di un qualsiasi talk, un paragone parallelo – su altra latitudine – non si può neppure fare perché qualcuno che corrisponda, per autorevolezza e per qualità, neppure c’è. E il pantheon, per l’astuzia della storia, o per quella furbizia da “chiagni e fotti” evocato da Verro, è fatto di eroi di una stessa squadra.
La tivù sperimenta solo per tramite di navigate voluttà e se non fosse stato per Michele Santoro (come un tempo, molti anni fa, con Sandro Curzi), difficilmente avrebbero avuto visibilità e microfono gli attuali campioni dell’opinione di destra o gli eversori leghisti. Senza il battesimo del fuoco di Santoro non avremmo mai potuto vedere Daniela Santanché a “Porta a Porta”, gli ospiti di Bruno Vespa, infatti, sarebbero stati solo istituzionali, meno che mai un po’ più a destra del Partito liberale, perché se mai e poi mai Lilli Gruber potrà ospitare – giusto per fare un esempio – un Giordano Bruno Guerri, resta il fatto che senza quel conduttore comunista non avremmo conosciuto Maurizio Belpietro, Alessandro Sallusti, Filippo Facci e perfino Lara Comi.
Vince solo la contemporaneità in tivù. Il sistema, appunto, è ibrido, perché Internet non toglie, moltiplica ciò che la televisione lancia. Ed è un po’ come quello che succede ai giornali. Fanno lo stesso gioco ma se i bellissimi giornali restano invenduti in edicola, la tivù e la rete, al contrario, non si rubano i soldi. Si danno il cambio. Come quando si scende dal treno per prendere un aereo. Lasciando la bicicletta al muro. Appoggiata accanto all’edicola va da sé perché – si sa – è ancora la tivù l’arma più forte.


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